Il boom dei servizi può cambiare il volto del commercio internazionale
Si tende a sottovalutare l’impatto che le innovazioni tecnologiche provocano sul commercio internazionale. Per questo è molto interessante scorrere un lungo approfondimento pubblicato dalla Fed di s.Louis che si pone una domanda alla quale è assai istruttivo provare a rispondere: “Il miglioramento tecnico dello scambio di servizi può trasformare gli Usa in un esportatore netto?”
A molti questa domanda sembrerà vagamente insensata, visto che gli Usa hanno un deficit sul commercio che dura da alcuni decenni e non sembra che tale tendenza – malgrado le guerre commerciali scatenate dall’amministrazione Trump – si possa invertire nel breve termine.
E tuttavia, gli argomenti portati a sostegno della domanda degli economisti americani non sono peregrini.
E’ un fatto indiscutibile, per dirne uno, che l’innovazione abbia giocato un ruolo assai importante nell’espansione del commercio internazionale, pari almeno a quello delle volontà degli stati di scambiarsi beni e servizi senza troppe restrizioni. Ossia ciò che più di tutto oggi sembra voler venire meno.
E chi pensasse che innovazione tecnologica significhi solo computer e reti, si stupirà leggendo che l’innovazione più importante dell’ultimo mezzo secolo, per il commercio internazionale, è stata l’introduzione dei container, che ha consentito di espandere notevolmente la quantità di merce trasportata, grazie allo sviluppo di un’imponente rete logistica articolata in un sofisticato sistema portuale, abbassando quindi i costi di trasporto. Ciò unito alla facilità di scambio ha nutrito il potente impeto della globalizzazione al quale abbiamo assistito dall’inizio del nuovo secolo.
Pochi dati basteranno a sostenere quest’affermazione. L’uso dei container iniziò a diffondersi negli anni Settanta, accelerando notevolmente fra gli ’80 e i ’90 del secolo scorso. Si calcola che dal 1970 al 2018 le esportazioni globali siano aumentate in valore di almeno 65 volte, passando dai 384 miliardi di dollari di beni di allora fino ai 25 trilioni di oggi. Anche gli Usa, malgrado la posizione deficitaria, cumulata nel tempo sulla bilancia dei beni, hanno visto crescere la sua quota di export sul pil, passata dal 5,6% dell’inizio del periodo, al 12,2% dei giorni nostri. E un contributo rilevante a questo miglioramento è arrivato dall’export di servizi.
Da qui alla domanda il passo è brevissimo. Gli Usa si confermano ancora oggi una piccole potenza nell’export di servizi, in larga parte determinata dalla suo forza nell’hi tech.
Quest’ultima caratteristica si può osservare meglio se guardiamo all’export di servizi scorporato per settori.
Tutto ciò per dire che in un’economia come la nostra, che tende sempre più ad essere immateriale e basata sulla richiesta di servizi ad alto valore aggiunto, ha perfettamente senso domandarsi se il percorso intrapreso dagli Usa, che adesso la Cina ha iniziato a percorrere con la sua ben nota determinazione, non finisca col restituire al gigante americano il ruolo di campione dell’export che ha tenuto per tutti i ’50 e il 60 del secolo scorso.
Certo, il mondo non somiglia per niente a quello del passato. Ma è altresì vero che negli ultimi vent’anni in settori come quello finanziario e assicurativo l’export di servizi Usa è passato da 22 a 129 miliardi di dollari, e quello per i servizi di consulenza e tecnici da 45 a 197 miliardi. In sostanza, forse se gli Usa avessero favorito l’azione del mercato, forti come sono della loro potenza in settori strategici come l’Ict, anziché fare di tutto per scoraggiarlo come nel’ultimo quadriennio, avrebbero finito con l’ottenere molto di più. Le buone maniere pagano. Ma l’abbiamo dimenticato.