La Nazione Globale. Economia vs Politica
Uno dei lasciti più rilevanti del pensiero marxista, intimamente collegato all’emergere delle visione internazionalista, è il pensiero che i fenomeni economici siano alla base delle manifestazioni politiche, che in qualche modo sono da essi determinate.
Questa convinzione, che nelle forme meno strutturate somiglia sempre più a una superstizione, è onnipresente nel dibattito pubblico. Valga come esempio la vulgata secondo la quale la globalizzazione – raccontata come fatto economico – ha eroso lo spazio dello stato nazionale – inteso come politico – a svantaggio delle categorie meno protette della società.
Ciò viene addotto a spiegazione della rinascita del populismo nella forma di un rumoroso sovranismo. Tutti noi abbiamo sentito, letto, ripetuto o confutato questa storia chissà quante volte.
Se si volesse tentare una bibliografia delle opere che raccontano la storia come derivata prima della funzione economica verrebbe fuori un’enciclopedia. Questa narrazione persistente ha incistato questa idea così profondamente nelle nostre convinzioni che provare a confutarla è del tutto inutile. Troverete sempre qualcuno che riduce la Storia al complotto di un qualche plutocrate.
Vale la pena provare a raccontarla diversamente. Non tanto sottolineando che chiedersi se venga prima la politica o l’economia somiglia al celebre dilemma fra l’uomo e la gallina, quanto piuttosto provando a contestualizzare l’analisi marxista non solo nel periodo in cui fu concepita, ma anche nei termini ai quali si riferisce.
Prima però concediamoci un breve excursus per comprendere come questa ennesima coppia dialettica abbia informato il dibattito pubblico. Prendiamo come esempio l’analisi di Zygmunt Bauman che con poche esemplari parole centra perfettamente il problema: “L’ingresso nella modernità significò innanzitutto “spazzare via gli ‘irrilevanti’, obblighi che ostacolavano un razionale calcolo dei risultati; come affermò Max Weber, liberare lo spirito d’iniziativa dalle pastoie dei doveri familiari e dal denso tessuto di obblighi etici (…) questa fatidica svolta spalancò la porta all’invasione della razionalità strumentale (com’ebbe a definirla Weber) o al ruolo determinante dell’economia (secondo l‘espressione di Karl Marx): a partire da questo momento la ‘base’ della vita sociale assegnò a tutti gli altri campi della vita lo status di ‘sovrastruttura’ vale a dire di un prodotto della ‘base’ (ossia del razionale calcolo dei risultati, ndr) la cui unica funzione era assicurarne un ininterrotto e tranquillo funzionamento”.
L’assimilazione del razionale calcolo dei risultati all’economico, e quindi al suo dispiegarsi quale fondamento dell’organizzazione sociale è il nocciolo dell’argomentazione di Bauman, e con lui di una moltitudine di economisti, sociologi, storici, politici e pubblicisti vari che, come abbiamo visto risalgono fino al pensiero marxista per giustificare le loro convinzioni, che spesso celano il pensiero inespresso – e tuttavia estremamente trasparente – che l’economico abbia nuociuto al politico e che il mondo andrebbe molto meglio se fosse il politico a determinare l’economico.
Fatte le dovute differenze, e con il dovuto rispetto a una grande pensatore come Bauman, c’è un grande filo rosso che lega la polemica contro le due rivoluzioni borghesi del lunghissimo XIX secolo da parte dei loro coevi tradizionalisti a quella dei sovranisti contemporanei contro il “neo-turbo-liberismo” o come lo chiamano.
Se guardiamo a questa dialettica in prospettiva ritroviamo quella che abbiamo già illustrato fra il principio del nazionalismo – basato sulla sovranità, considerata l’unica in grado di assicurare il rispetto del patto sociale che i filosofi dell’età classica e poi moderna metteranno a base dello stato – e quello dell’internazionalismo che erode questo potere sostituendolo con organismi giudicati elitari e non democratici.
Ancora una volta, sembra storia di oggi, ma è di ieri. E ancora una volta troviamo il pensiero di Marx all’origine sia dell’idea internazionalista, sia della teoria che il principio economico determini le sovrastrutture politiche. E’ un caso?
Tentiamo una lettura. L’internazionalismo borghese prospera nell’economia, e quindi nella razionalità strumentale che è il suo attrezzo principale grazie al quale disarticola l’organizzazione sociale che l’ha preceduto. Poiché Marx non dubita della potenza di questo principio, ad esso non oppone – hobbesianamente – un rafforzarsi dei poteri dello stato, che in qualche modo risultava già superato dalla storia, ma la nascita dell’internazionale comunista.
Ciò a conferma del fatto che solo un diverso ordinamento economico, basato sulla classe proletaria, avrebbe determinato una sovrastruttura politica corrispondente alla visione del mondo marxista. Che sarebbe stata – è bene sottolinearlo – internazionalista. Ciò che gli epigoni di Marx tendono a dimenticare.
Detto diversamente, nella vulgata chi contrappone l’economico al politico di fatto rifiuta l’internazionalismo opponendogli l’idea nazionalista. Ma in tal modo mostra di non comprendere Marx quando scrive che il capitalismo stava creando un “mondo ad immagine e somiglianza della borghesia”.
Ricapitoliamo. Nel pensiero comune derivato dall’analisi marxista l’economico è internazionalista così come il politico – in quanto costruito sull’idea secentesca della statualità – è nazionalista.
Marx tuttavia non credeva che uno stato avrebbe potuto invertire le tendenze economiche internazionali. Solo l’economia, svolgendo il corso delle sue contraddizioni, avrebbe condotto il mondo verso un’internazionale comunista sulle onde della rivoluzione unitaria dei “proletari di tutto il mondo”. Usare l’analisi marxista per dire che l’economia determina la politica e quindi bisogna dare primato alla politica per mettere l’economia in condizione di non nuocere, come dicono i nazionalisti, serve solo a raccontare una favola per gli abitanti dei tempi moderni, che proprio come accadde nei tempi antichi, si trovano a disagio nei meccanismi dell’economia globalizzata.
Torniamo a Bauman. “La fusione dei solidi portò alla progressiva liberazione dell’economia dalle sue tradizionali pastoie politiche, etiche e culturali e alla sedimentazione di un nuovo ordine, definito principalmente in termini economici”. Un ordine evidentemente globale.
Facciamo un altro passo in avanti. L’economico genera l’internazionalismo, quindi il movimento globale – la globalizzazione – che si conduce seguendo il principio della razionalità strumentale, sempre prendendo a prestito da Weber. In questo suo globalizzarsi, l’internazionalismo favorisce, come abbiamo detto, il nomadismo e il meticciato. Al contrario il politico, come viene generalmente inteso, genera il nazionalismo quindi lo spirito curtense – la patria – che si conduce seguendo il principio della statualità, sempre prendendo a prestito da Hobbes. Quindi favorisce, come abbiamo detto, la stanzialità.
Leggiamo ancora Bauman: “Durante tutta la fase solida dell’era moderna i costumi nomadi furono malvisti. La nozione di cittadinanza andò di pari passo con quella di insediamento mentre essere apolidi implicò l’esclusione dalla comunità rispettosa della legge e da questa protetta”.
Il sovrano difende i sudditi, per usare le parole di Hobbes. Chi non è suddito è fuorilegge. Non solo in senso positivo – non rispetta la legge – ma anche in senso negativo: a lui non si applicano le tutele previste dalla legge. Un fuorilegge può essere ucciso senza essere sanzionati.
Quanto agli esiti della modernità, l’epoca della globalizzazione economica che genera quella che Bauman chiama “società liquida” equivale di fatto a un tempo in cui “l’epoca dell’incondizionata superiorità della sedentarietà sul nomadismo e il dominio del sedentario sul nomade sta ormai giungendo rapidamente al termine”.
“Oggi stiamo assistendo alla vendetta del nomadismo sul principio della territorialità e dell’insediamento. Nello stadio fluido della modernità la maggioranza sedentaria è governata dall’elite nomade ed extraterritoriale”.
Persone meno sottili di Bauman parlerebbero di élite internazionali che grazie al neoliberismo governano il mondo, mentre invocano il ritorno dello stato padrone, innanzitutto di se stesso, e quindi il trionfo della politica sull’economia.
Il succo, insomma, non cambia. E’ sempre la stessa vecchia storia che dura da quando è iniziato il lunghissimo XIX secolo.
Questo post fa parte del saggio La nazione globale. Verso un nuovo assolutismo in corso di redazione. Per agevolare la lettura non sono state pubblicate le note al testo con i riferimenti bibliografici, che saranno disponibili nella pubblicazione completa.