Il nuovo “peccato originale” degli Emergenti
Frequentare la letteratura economica ha il pregio di regalare momenti di divertita stupefazione, quando ad esempio si incontrano modi dire che rivelano il mondo profondo e nascosto degli economisti, ormai devastati dalla matematica. E tuttavia ogni tanto si (e ci) regalano dei momenti di chiarezza. Come quando, e veniamo al tema del nostro post, hanno coniato l’espressione “peccato originale” per descrivere l’incapacità dei paesi emergenti a collocare bond nella propria valuta sui mercati esteri, per lo più per la diffidenza di fronti ai rischi incorporati nei loro rapporti di cambio. All’origine del “peccato”, insomma, c’era la loro inaffidabilità. Peccato gravissimo, in un mondo che si basa sulla fede nel credito.
Che fare allora? Facile: dimostrare di essere meritevoli di fiducia. La conquista della credibilità per i paesi emergenti è passata dallo sviluppo di un mercato obbligazionario nazionale, che ha comportato l’adozione di politiche capaci di attrarre creditori esteri: tipicamente lotta all’inflazione e miglioramenti dei loro diritti. La strategia ha funzionato. Al “peccato” è seguita l’assoluzione nella forma di moda di questi tempi: corposi afflussi monetari. In pratica questi paesi sono riusciti a collocare anche nei mercati esteri il loro debito in valuta nazionale, magari anche grazie alla fame di rendimenti che nel frattempo si sviluppava a causa della scomparsa dei rendimenti del bond in valute di riserva.
Tutto bene quel che finisce bene. Ma anche no. Un bel paper della Bis ci informa che il peccato originale è tornato. Nella sua versione “redux” – non ci fu vera “redenzione”, purtroppo – le economie emergenti sono rimaste vulnerabili ai deflussi di capitale esattamente come ai vecchi tempi. Perché non solo i capitali esteri giocano e hanno giocato un ruolo determinante nella formazione dei mercati nazionali di bond, ma la cronaca ci mostra che per quanto si possano impegnare, questi paesi, ad ogni stormir di fronde, come diceva il poeta, i soldi dei ricchi tornano dai ricchi, e loro si ritrovano come prima.
Sta a vedere che forse ha ragione chi dice che “la vulnerabilità degli EME va oltre il loro “peccato originale”, ma risiede nel fatto che i loro mercati finanziari rimangono poco profondi – ossia potenzialmente illiquidi – anche perché manca “una consistente base di investitori nazionali”. D’altronde, se ci fosse non sarebbero paesi emergenti. O no?
Il peccato originale, quindi, risiede semmai nel fatto che sono poveri, direbbe un vecchio protestante per la gioia di Max Weber. Ma, sociologie a parte, rimane il fatto: gli emergenti “dipendono in primo luogo dall’indebitamento esterno (indipendentemente dalla valuta di denominazione), e rende difficile per i prestatori internazionali coprire i rischi valutari, che a loro volta aumentano la loro avversione al rischio nei confronti dei mercati emergenti in periodi di stress del mercato”.
Ricapitoliamo, parodisticamente ma non troppo: gli emergenti hanno fatto quello che potevano per mondare la loro colpa. I loro sforzi vengono premiati, ma fino a un certo punto. Fino al punto, insomma, che conviene ai creditori. Che sono gli autentici signori di questo gioco. Gli unici che possono giocare. I soli senza peccato. Per questo ci mettono poco a scagliare la prima pietra.