Cartolina. Sopra a chi tocca

Osservando l’andamento del debito dei soggetti non finanziari dei paesi censiti dal Financial stability board, quelli del G20 tanto per cominciare, due cose in particolare vale la pena sottolineare. Intanto che ormai supera gli 80 trilioni di dollari, quando un decennio fa non arrivava a una decina. La seconda è che a salire sopra a questa montagna di debiti siano stati principalmente i governi, costretti ad aprire generosamente il portafoglio prima per la crisi finanziaria del 2008 e poi per quella sanitaria del 2020, e a seguire le imprese. Entrambi ormai hanno un debito cumulato stabilmente intorno al 100 per cento del pil. Il debito delle famiglie. invece, malgrado qualche saliscendi, non è mai uscito dalla banda di oscillazione compresa fra il 60 e il 70 per cento del pil. Sopra la vetta del 100 per cento non è ancora arrivato. Per adesso. Non è una minaccia. E’ un avvertimento.
Mentre le schiere di esperti al servizio del grande capitale finanziario somigliano ad altrettanti idraulici che non riescono più a tamponare le sempre più numerose falle che si aprono nei tubi degl’impianti che sono stati chiamati a riparare, appare con sempre maggiore chiarezza che solo la teoria marxista è in grado di spiegare le crisi capitalistiche, collegando categorie concettuali ed evidenza empirica. Come dimostrano i fatti recenti, dalla concorrenza dei giganti asiatici sul mercato mondiale all’alto costo del denaro e al livello stellare dei debiti dei paesi del G20, dall’andamento del tasso d’interesse alla crescente estensione del lavoro improduttivo, la causa strutturale (non congiunturale) della crisi va ricercata nelle contraddizioni che nascono dai processi di produzione e di accumulazione e si manifestano, come altrettante bolle di sapone che si formano, si gonfiano e poi scoppiano, nell’abnorme dilatazione della sfera del credito e del capitale fittizio, autentico tumore generato da un sistema capitalistico che non trova più sbocchi per valorizzarsi, ossia creare plusvalore e saggi di profitto adeguati. La conseguenza è dunque la svalorizzazione del capitale e la sua trasformazione in capitale fittizio, in capitale finanziario, in speculazione che frutta interessi ma non ha più una base reale. La crisi finanziaria (come nel 1873, come nel 1929, come nel 1987, come nel 1998, come nel 2007-2008) preannuncia, e per certi aspetti detèrmina, la crisi della struttura produttiva, in seno alla quale va ricercata la vera origine della crisi, che dipende dal meccanismo della sovrapproduzione: è il ‘fuori giri’ del sistema capitalistico, il quale, non essendo in grado di pianificare la produzione ‘ex ante’ in base al valore d’uso, cioè ai bisogni collettivi della società, ma essendo capace solo di continuare indefinitamente a produrre sulla base del valore di scambio e della sussunzione del valore d’uso al valore di scambio, cioè sotto la spinta della ricerca del massimo profitto, può introdurre l’unico possibile aggiustamento ‘ex post’, vale a dire attraverso la crisi stessa. Nell’epoca dell’imperialismo, iniziata negli anni ’70 del XIX secolo e dispiegàtasi nel corso del XX secolo, epoca segnata dal dominio (non del capitale industriale ma) del capitale finanziario, la borsa funziona (non più come “un elemento secondario nel sistema capitalistico” ma) come “il rappresentante più notevole della produzione capitalistica”: essa, nota Engels nelle “Considerazioni supplementari” al III libro del “Capitale” (Editori Riuniti, Roma, 1968, p. 48), “tende progressivamente a concentrare nelle mani degli uomini di borsa la totalità della produzione industriale e di quella agricola, tutto il traffico, mezzi di comunicazione e funzioni di scambio”. La previsione secondo cui il capitalismo va verso il crollo non è pertanto una profezia, ma il risultato di un’analisi scientifica e di una constatazione storica: la crisi del capitalismo genera inesorabilmente la tendenza alla guerra imperialista. Quali che siano i saliscendi delle borse mondiali determinati dalla plètora di capitale in eccesso da smaltire, a sua volta determinata dalla crescente sovrapproduzione di merci, forza-lavoro, capitali e mezzi di produzione, quali che siano le diverse puntate che i vari giocatori fanno sul banco del ‘capitalismo da casinò’, ciò che risulta ineluttabile è la dinamica della svalorizzazione delle forze produttive e la correlativa distruzione di risorse materiali ed umane in cui la crisi consiste: è quindi altamente probabile che il gioco del cerino acceso, che le classi dirigenti del mondo capitalistico stanno praticando sia nell’economia sia nella politica sia nella guerra, non permetterà di salvarsi a nessuno di lorsignori, poiché si sta svolgendo all’interno di una polveriera. Dal canto loro, le grandi masse popolari, se resteranno vittime inerti e acefale delle contraddizioni del capitalismo imperialistico e non si eleveranno al livello di agenti risolutori e superatori delle medesime, non potranno che condividere la tragica sorte che questo sistema sta preparando all’intera umanità.
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