Cartolina. La globalizzazione umana

La globalizzazione di cui non si parla, perché spaventa le nostre opinioni pubbliche che purtroppo invecchiano male, è quella delle persone, che è antica quanto il mondo. Siamo migranti da quando abbiamo iniziato a camminare in posizione eretta, e nel nostro muoverci abbiamo sviluppato la nostra storia e noi stessi. L’espansione dell’umanità è innanzitutto una storia migratoria di successo. Anche oggi è così, solo che rimane in ombra l’enorme contributo che la migrazione dà alle nostre società malgrado il costante levarsi di muri costruiti sulle paure, sapientemente coltivate, di chi non vuole vedere la realtà. Che invece è chiarissima: negli ultimi tre anni la partecipazione al lavoro dei “foreign born”, come li chiama il Fmi, è cresciuta moltissimo in Europa e negli Usa, a differenza di quella degli indigeni, che sono sempre meno e sempre più vecchi. A fronte di ciò abbiamo mercati del lavoro vibranti, retribuzioni che stanno crescendo, produzione resiliente, malgrado tutti i disastri che ci sono capitati. La globalizzazione degli uomini, insomma, ha staccato il suo dividendo alle nostre società ingrate. Lo ha sempre fatto.

La crescita rimane “resiliente”, ma questo è anche un problema

Non va bene, ma non va neanche male, sembra di capire leggendo l’ultimo aggiornamento del World economic outlook del Fmi sull’economia internazionale. Malgrado le previsioni avverse, che vengono allegramente mitigate dalla realtà, “l’economia globale rimane molto resiliente, con una crescita costante e un rallentamento dell’inflazione che procede quasi con la stessa rapidità con cui è aumentata”.

Dopo un triennio dove è successo di tutto, alla fine del 2022 la crescita globale si era attestata al 2,3%, che comunque non è recessione, con un’inflazione mediana del 9,4. Adesso, secondo le ultime proiezioni del Fmi, dovremmo chiudere il 2024 con una crescita del 3,2%, con gli Usa che crescono a un ritmo più elevato di prima della pandemia, e un’inflazione mediana del 2,8, vista addirittura al 2,4 alla fine del 2025. C’è molto su cui riflettere, a cominciare dal modo in cui formuliamo le nostre previsioni, che si sono dimostrate molto pessimistiche.

A parte il caso degli Usa, dove nell’ottobre 2022 si prevedeva una crescita di oltre due punti inferiori a quella di gennaio 2020, quando invece nell’aprile 2024 si è rivelata superiore di due punti, è il caso delle economia più povere quello che salta all’occhio. Per loro è andata molto peggio del previsto. E anche questa è una cosa su cui si dovrebbe riflettere molto.

Il problema di questa crescita, infatti, è che lascia indietro chi ne avrebbe più bisogno, e che non basta a quelli più avanzati che devono sostenere pesanti infrastrutture sociali.

Quanto ai primi, la frattura delle relazioni internazionali pesa soprattutto su di loro, che hanno bisogno di prestiti correnti e investimenti diretti per lo sviluppo delle infrastrutture che sostengono la crescita. Si pensi al grande bisogno africano di strutture logistiche di ogni specie.

Quanto ai secondi, spesso protagonisti di crescenti inimicizie, devono fare i conti con trend secolari – uno per tutti quello demografico – e transizioni impegnative – quella emergetica – che richiedono ampie disponibilità di risorse fiscali, che certo non possono essere originate da una crescita che sia solo “resiliente”. Crescere il 2-3 per cento l’anno basta appena a rendere sostenibili – e neanche per tutti – i debiti pubblici esplosi nell’ultimo triennio.

Che fare dunque? Il Fmi suggerisce di “dare priorità a misure che preservino e anche migliorino la resilienza dell’economia globale”. Che sembra il minimo indispensabile. A cominciare dalla ricostituzione di riserve fiscali, visto che “le dinamiche del debito sono diventate meno favorevoli”. E anche su questa necessità ci sono pochi dubbi, visto che “i piani fiscali sono finora insufficienti e possono essere indeboliti dato il numero record di elezioni quest’anno”.

Quest’affermazione rivela con sorprendente semplicità che il costo della democrazia sta diventando insostenibile proprio per i paesi democratici, se costoro si ostinano a perseguire l’idea che la democrazia debba ridursi a una questione di costi. Che l’elettorato abbia solo a cuore il portafogli, insomma. Che è vero, ma fino a un certo punto.

Ciò che si chiede, ai paesi avanzati, non è soltanto difendere una crescita resiliente. Serve un’idea di crescita nella qualità delle relazioni internazionali, dalla quale inevitabilmente deriva la crescita economica. La storia è piena di esempi. Anche quella recente. Il Next generation Ue è stato un potente attivatore di relazioni, all’interno dell’Europa, e quindi anche della crescita economica europea, che rimane modesta, perché modesta è l’ambizione dell’Europa.

Lo stesso vale al livello globale. Cosa dobbiamo fare, noi paesi avanzati che abbiamo le risorse, e quindi dovremmo sentire la responsabilità verso chi ne ha meno, per garantire una crescita globale, e perciò anche economica, del nostro mondo? Si accettano suggerimenti.

Le prospettive complicate del Quantitative Tightening

Che ci aspettino tempi magri ormai è chiaro a tutti. Non tanto e non solo perché nessuno si aspetta che la crescita del prodotto globale sarà robusta – ci si accontenta di un ritmo capace di coprire il costo dei debiti – o perché le difficoltà politiche internazionali la mettono continuamente a rischio. Ma soprattutto perché si va essiccando sempre più la cornucopia che in quest’ultimo ventennio ha alimentato i sogni di grandezza di tutti i governi e riempito – letteralmente – di denaro i forzieri delle banche: il denaro di banca centrale.

Un bel paper del Nber, “Quantitative Tightening Around the Globe: What Have We Learned?” racconta con grande dovizia di dettagli i primi esiti del Quantitative Tightening (QT) che ormai ha preso il posto del Quantitative Easing (QE) delle banche centrali, i cui effetti si vedono nel rialzo dei tassi di interesse, e quindi dei rendimenti delle obbligazioni governative, e nel dimagrire dei bilanci delle banche centrali, che hanno pure iniziato a macinare perdite, essendo ancora imbottite di debito comprato con i tassi rasoterra che oggi vale assai meno di prima.

Il dimagrimento di questi bilanci era ampiamente atteso. Non è stato repentino, ma deciso si, e gli effetti si possono intuire guardando il grafico sotto, che riepiloga questo alleggerimento nelle principali giurisdizioni osservate dagli autori dello studio.

Ciò ha provocato un aumento dei rendimenti. Anche questo previsto e quindi ampiamente atteso. Perciò non è stato particolarmente traumatico per l’autorità fiscale. A quanto pare il sistema finanziario internazionale, e in particolare gli acquirenti non bancari, è stato in grado di assorbire le nuove emissioni che sostituivano quelle scadute e non più acquistate dalle banche centrali.

Per il momento, quindi, il sistema si sta normalizzando senza troppi scossoni. Ciò non vuol dire che tali scossoni non possano emergere nei prossimi anni, quando il volume del dimagrimento dei bilanci delle banche centrali è destinato a crescere, specie di fronte a un’inflazione che seppure in regresso sembra ancora esprimere diversi rischi.

Dal grafico che apre questo post, si osserva che dal picco del 2021, quando i bilanci combinati delle banche centrali quotavano 8 trilioni, si prevede che si arriverà alla metà entro il 2025. Ciò significa che, in un contesto di debito che non accenna a diminuire, sarà necessario trovare sempre più soggetti disposti a sottoscriverlo, essendo venuta meno una grande categoria di acquirenti – le banche centrali – che per molti anni hanno calmierato le tensioni.

I mercati, insomma, dovranno far da soli. Fino a un certo punto, ovviamente. La premura con la quale le banche centrali lavorano per orientare le aspettative verso l’idea di una riduzione imminente dei tassi, fa capire che i guardiani della stabilità monetaria e finanziaria sono sempre pronti a interventi di qualche tipo. E anche questo i mercati lo sanno benissimo.

Di fronte a una crisi improvvisa, il QT può finire tranquillamente in stand by. Sempre che l’inflazione, più resistente di quanto sembri, non ci metta lo zampino. E questo magari può provocare sorprese assai poco gradite.

Cosa significa vivere in un mondo sempre più Emergente

Quello che ci aspetta, a dar retta ai pronostici volenterosamente elaborati dai calcolatori del Fondo Monetario e pubblicati nell’ultimo World Outlook, è un mondo sempre più a trazione Emergente. Dove, vale a dire, i paesi che solo da pochi decenni si sono affacciati in maniera importante sull’economia internazionale conteranno sempre di più.

Contare sempre di più non vuol dire solo che la quota della crescita globale che arriva da questi paesi sarà sempre più rilevante, come peraltro si evince dai trend messi in luce dal Fmi. L’istogramma blu del grafico sotto, che rappresenta i paesi ad economia avanzata è più eloquente di mille ragionamenti.

Contare di più significa anche avere maggiori responsabilità, nel bene (la crescita), come nel male (le crisi). Il grafico che apre questo post prova a dare un’idea di quanto la capacità di contagio dei paesi emergenti sia cresciuta nell’ultimo ventennio, e anche questo è eloquente abbastanza da non richiedere molti commenti.

C’è però un’altra caratteristica di questo spostamento di responsabilità del quale il Fmi, che osserva solo i fenomeni economici, non tratta nel suo approfondimento. Contare di più significa anche essere maggiormente portatori di valori, e non solo di quelli economici.

Ogni economia non esporta solo i suoi beni: manda all’estero anche il suo stile di vita, in qualche modo. E se diventa più importante, acquista anche maggiore importanza la sua cultura. L’emersione della Cina è un’ottima rappresentazione di questo processo. Oggi la Cina è sicuramente più vicina al nostro immaginario di quanto non fosse trent’anni fa. Le differenze con gli Usa (e con gli europei) non si misurano solo sulla bilancia commerciale. Ma su quella, più vasta, della cultura, che significa politica e società.

Ciò per dire che se il mondo diventa sempre più Emergente, non lo diventa solo la sua economia. Dobbiamo aggiornare tutti i nostri paradigmi e prepararci a un confronto serrato, e speriamo evolutivo, con culture diverse dalla nostra. Sarebbe quantomeno presuntuoso pensare che il nostro stile di vita si imporrà comunque. E molto pericoloso affidarsi soltanto alla forza.

Cartolina. The others, 2

Nel lento e inesorabile declino del peso (economico) specifico dei paesi più ricchi nella produzione globale, che fotografa innanzitutto il loro declino demografico, diventa ovviamente sempre più ampio il contributo dei paesi emergenti, alcuni dei quali neanche sappiamo esattamente chi siano, perché la statistica li raggruppa. Singolarmente pesano poco, ma messi insieme colorano l’istogramma verde, sul grafico sopra, che fra poco eguaglierà quello blu dei paesi avanzati, i quali peraltro sono già stati superati dalla sola Cina, a sua volta superata dagli emergenti in seno al G20. Tanti paesi poveri, quindi, sono sempre meno poveri, mentre pochi paesi ricchi diventano sempre meno ricchi. La storia ci dirà l’esito di questa nuova rivoluzione.

Cartolina. Rischiatutto

Poiché grandi rischi nascondono grandi opportunità, non dovremmo stupirci nell’osservare che chi rischia moltissimo, prestando denaro nel settore del private equity in vent’anni abbia visto decuplicare l’indice dei propri rendimenti, cioè due volte quanto accaduto all’indice riferito all’S&P500. Detto diversamente, chi ha prestato i soldi fuori dai mercati regolamentati, quindi assumendosi un notevole rischio di controparte senza alcuna forma di paracadute – tipo l’autorità di borsa – alla fine ha celebrato a champagne. Sempre che sia riuscito a riavere i suoi investimenti indietro, ovviamente. I mercati finanziari di oggi offrono enormi opportunità per chi vuole giocare al magico gioco del denaro facile, che si perde ancora più facilmente. Non è certo una novità. E’ una novità semmai che sia diventato un gioco popolare e aperto a tutti, e ormai da un bel po’. Il gioco era conosciutissimo anche decenni fa. Piaceva molto anche ai più piccoli, che lo guardavano in tv. Si chiamava Rischiatutto.

Miti del nostro tempo: la politica industriale

In un tempo come nostro, che sogna soluzioni semplici a problemi complessi, non sorprende per nulla che sia tornata prepotente fra i nostri governanti la seduzione di riesumare le politiche industriali per dare maggior vigore a una crescita che si teme sempre più anemica.

Fa bene perciò il Fmi nel sul ultimo Fiscal monitor a ricordare che le politiche industriali non sono una “magica cura” – ottima scelta di termini – per la crescita debole. Piuttosto, sottolinea il rapporto, servirebbero politiche di vario genere per stimolare l’innovazione, tenendo magari conto di alcune peculiarità delle nostre società: una per tutte gli andamenti demografici.

Sorprende ancora meno che la seduzione delle politiche industriali abbia trovato terreno fertile nelle economie più avanzate che sono meglio dotate, per risorse economiche e capacità organizzative, per promuovere l’idea che una intelligente politica industriale, quella che negli anni ’60-’70 si chiamava pianificazione, sia il modo ideale per risolvere i nostri problemi.

Il passato dovrebbe averci insegnato a cosa conduce l’idea di poter giocare agli apprendisti stregoni del bilancio pubblico. Ma purtroppo mai condizionale fu più obbligato. Basta anche solo guardare in casa nostro, dove l’ultima trovata di politica industriale – chiamiamola così – è stata il mitico Superbonus che oltre ad aver devastato il bilancio dello stato per un tempo indefinito, ha dimostrato con chiarezza che non siamo in grado di programmare alcunché.

Peraltro, in un paese a saldo demografico negativo, che si distingue per il livello assai modesto della sua istruzione, che è la chiave per qualunque aumento di produttività, si è scelto di investire risorse incalcolabili sul mattone, che è naturalmente destinato a deflazionarsi in un contesto di decrescita demografica, anziché puntare sui giovani. Pensate solo a quante borse di studio nelle università di eccellenza di tutto il mondo avremmo potuto pagare ai nostri studenti con le decine di miliardi spese per accontentare pochi padroni di casa che poteva pagarsi i lavori di tasca propria. Scelta, quindi scellerata, sia dal punto di vista contabile che squisitamente politico.

Il Fmi nel suo rapporto suggerisce di limitare gli esperimenti di politica industriale – sempre che i governi abbiano una forte capacità di gestirne le complessità – ai pochi settore capaci di generare benefici di produttività. Come esempio si fa il caso dell’industria dei semiconduttori, o quello dei sussidi, se ben disegnati e trasparenti, per la transizione energetica. Ma “i paesi con spazio fiscale limitato dovrebbero individuare le priorità della propria spesa e aumentare le entrate nel breve termine”. Non so a voi, ma a me fischiano le orecchie.

Il caro mutui che stressa il mercato immobiliare

Nulla di strano che uno dei capitoli dell’ultimo Outlook dedicato all’economia internazionale il Fmi lo dedichi al tema del caro mutui, una delle conseguenza più evidenti del cambio di paradigma delle banche centrali, che ha riportato i tassi a livelli che non si vedevano dai primi anni del XXI secolo.

L’inflazione, fra le altre cose, ha generato anche questo effetto boomerang sui bilanci delle famiglie che, più o meno incautamente, si sono affidate a mutui a tassi variabili, quando i tassi erano rasoterra, e adesso si trovano a dover mettere in conto una rata assai più salata, con tutte le conseguenze del caso per gli scambi interni ed internazionali.

Si tratta di una situazione molto varia, che dipende in larga parte dalla quantità di mutui a tassi variabili che ogni paese tiene in pancia. Il grafico a seguire illustra la quota dei mutui a tassi fissi per singolo paese, dal che si può dedurre per complemento la quota di quelli a tasso variabile.

E’ interessante osservare che si oscilla fra una percentuale di mutui a tasso fisso vicina allo zero in Sudafrica a che sfiora il 95 per cento negli Usa e quasi il 100 per cento in Messico. Ovviamente gli effetti del caro tassi si fanno sentire sui paesi più esposti ai tassi variabili. E da questo punto di vista la Fed, per fare un esempio, ha sicuramente meno incentivi della banca centrale sudafricana ad allentare la morsa del credito.

Ovviamente il caro mutuo non basta a determinare la fisionomia di un mercato. Sono diversi canali attraverso i quali quest’ultimo si configura: conta, ad esempio, la disponibilità di abitazioni, che in un contesto di tassi bassi premia i corsi immobiliari e quindi la domanda di consumo dei proprietari o dei venditori, o, viceversa, corsi troppo elevati, in un contesto di tassi elevati, possono generare aspettative di ribassi capaci di avvitare le quotazioni.

Ciò per dire, e forse è questo il dato interessante, che il mercato immobiliare rimane un osservato speciale. Non a caso il Fmi gli dedica un capitolo. Le tensioni che da questo particolare segmento dell’economia si possono originare sono profonde e memorabili. Parliamo ancora della crisi subprime del 2008, per dire. E magari non lo ricordano più tutti, ma quei prodotti subprime che hanno generato il disastro quindici anni fa erano mutui.

Il settore dei servizi sempre più protagonista

Sfogliando l’ultimo bollettino economico della Bce ci si accorge subito che qualcosa sta cambiando nel livello più profondo dell’economia internazionale – e quindi anche dell’eurozona – e che si tratta di una tendenza sicuramente destinata a continuare.

Abbiamo già parlato dei rallentamenti del commercio, iniziati dopo la grande crisi del 2008, ma fra le ragioni che sono state indicate, una in particolare riveste un certo interesse, perché racconta più delle altre del cambio della fisionomia della domanda internazionale. Parliamo dello “spostamento strutturale della domanda dal settore manifatturiero a quello dei servizi”, come riportano gli economisti della Banca.

Da tempo ovviamente si parla di terziarizzazione, quarta rivoluzione industriale e altre amenità. Ma quando dal piano dell’analisi teorica si passa all’osservazione dei dati statistici, allora si capisce con maggiore concretezza che questo passaggio non è soltanto in corso, ma sta delineando la fisionomia del nostro attuale sviluppo. Nel bene come nel male.

Prendiamo solo alcuni esempi. Il grafico che apre il post racconta dell’indice Pmi del prodotto globale suddiviso fra manifattura e servizi. Come si può osservare, gli indici dei servizi sono decisamente più alti. Osserviamo un andamento simile se guardiamo l’indice degli ordinativi.

E se andiamo a vedere le dinamiche occupazionali, vediamo che la tendenza conferma la maggiore dinamicità del settore dei servizi rispetto alla manifattura.

Questa maggiore dinamicità contiene ovviamente anche un rovescio della medaglia. E possiamo osservarlo notando quanto sia rilevante il peso specifico dei servizi anche fra le componenti dell’inflazione.

Notate la differenza fra il 2021 e il 2024: l’impennata del costo dei servizi è un fatto recente. E soprattutto non riguarda solo l’eurozona, come si potrebbe pensare, ma tutta l’area Ocse.

Se ne potrebbe dedurre che “tirando” più domanda, i servizi contribuiscano maggiormente all’aumento dell’indice dei prezzi. Ma dietro i servizi ci stanno mondi complessi, che vanno dal turismo all’intelligenza artificiale. Quello che ci racconta questa “mutazione strutturale” dell’economia internazionale è una storia ancora tutta da scrivere. Però è già cominciata.

Cartolina. Gli sbancati

La vera domanda non è tanto come sia possibile che nell’Eurozona, che è una delle regioni più ricche al mondo, un adulto su cinque dichiari di non aver carte né conti di pagamento. La domanda davvero importante è come facciano. Vivere senza mezzi di pagamento bancari, nel XXI secolo in Europa, avendo a che fare con la burocrazia del XXI secolo, che raccoglie dati come una formica impazzita su ogni nostro movimento (anche bancario), somiglia a una straordinaria corsa a ostacoli. Eppure costoro riescono. E sono pure tanti. Sono la vera sorpresa della nostra cronaca. Gli irriducibili del contante. I teorici (e pratici) del soldo sotto al materasso o nell’intercapedine del muro. Una storia che è già un film. Il titolo è già pronto: gli sbancati.