Cartolina. L’incubo americano

Il fatto, nudo e crudo, documentato da un inquietante paper del Nber – The re-emerging suicide crisi in the U.S. – è che nell’ultimo ventennio il tasso di suicidi negli Stati Uniti è aumentato quasi del 40 per cento, arrivando a oltre 14 per 100 mila abitanti. Un’enormità per spiegare la quale gli autori della ricerca hanno scomodato qualsiasi possibile causa, partendo ovviamente dalla crisi economica fino all’avvento di internet, passando per l’abuso di oppiacei e l’ampia disponibilità di armi, dovendo tuttavia constatare che questi avvenimenti comuni in gran parte dei paesi avanzati, dove però i tassi di suicidio sono diminuiti. Rimane perciò – terribile – la domanda: perché così tanti americani – e in gran parte giovani – si uccidono? La risposta è: non è chiaro. Dobbiamo perciò limitarci ai fatti. Negli anni ’50 del XX secolo, quando era di moda il sogno americano, il numero dei suicidi scendeva, toccando, nel 1958 il minimo di 9,8 per 100 mila abitanti. Poi il sogno è finito, evidentemente. E’ diventato un incubo.

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Cartolina. Il disservizio del debito

E’ sempre istruttivo osservare quanto consumo di matematica occorra per confermare quello che il senso comune sa da sempre. Ossia il fatto che fare debiti ha alcuni vantaggi – puoi investire o consumare di più a beneficio della crescita generale – e altrettanti svantaggi – devi pagare gli interessi sui debiti, quindi consumi e investi meno con grave nocumento per la crescita – che devono essere sempre opportunamente ponderati. E mica solo questo: grazie alla matematica scopriamo pure che i flussi finanziari finiscono in qualche modo con l’interferire con l’economia reale. D’altronde lo diceva anche mia nonna che se hai troppi debiti finisci strozzato. Ma visto che lo dice anche la Bis, in un bel paper che mostra come la “gobba” degli interessi passivi finisce col causare problemi anche alla produzione futura, sarà il caso di crederci. Il servizio del debito, come lo chiamano quelli bravi, si accompagna a un disservizio per la crescita. Ma sicuramente lo sapevate già.

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Profitto e denaro mettono d’accordo pubblico e critica

Preoccupati come siamo delle sorti del ceto medio, quelli che non sono né ricchi né poveri, ma hanno un livello soddisfacente di benessere e si affannano per migliorarlo, dovremmo comprendere che non di solo pane vive l’uomo, per quanto il pane sia il nostro carburante. Ma siccome ogni combustibile ha bisogno di un comburente, ci piace pensare che il nostro comburente sia la conoscenza, una derivata della nostra immaginazione e insieme il suo nutrimento, che mescolandosi al combustibile genera la fiamma che alimenta la nostra ricchezza.

Fuori di metafora, se siamo così preoccupati dei redditi del ceto medio, dovremmo esserlo ancora di più per il suo livello di conoscenza della realtà che lo circonda, a cominciare proprio da quelle che magari hanno in qualche modo a che fare col reddito, quindi quelle economiche, se proprio ci tiene così tanto.

Ma non solo. Una persona mediamente istruita (se la media è buona) e bene informata, ha più consapevolezza e perciò sceglie con maggior giudizio, risultando in fondo mediamente più felice. Questo non lo dicono gli scienziati, ma lo suggerisce il buon senso. Chi pratica per diletto o per mestiere l’arte della conoscenza sarà sicuramente d’accordo.

Il problema è che la diseguaglianza fra ricchi e poveri, che i solerti occhiuti osservatori di statistiche economiche ci dicono in aumento, sembra si sia trasferita anche sul livello di conoscenza della realtà, come lascia indovinare un paper molto interessante pubblicato di recente dal NBER (The People and the Expert), dal quale è tratto il grafico che apre questo post.

Come si può osservare – vedremo poi i dettagli – esperto e uomo medio hanno convinzioni diverse su molti temi. Salvo che su un paio. Sulla priorità del profitto, ad esempio, l’accordo fra pubblica e critica, chiamiamoli così, è pressoché assoluto. Sull’importanza del denaro il pubblico è molto più sicuro degli esperti. E anche questa è un altra cosa rimarchevole.

Su tutto il resto cova il disaccordo. Il pubblico cova convinzioni che sono autentiche leggende metropolitane, che gli esperti non riescono evidentemente a sfatare, altro segno della mancanza di un ceto medio funzionante. E pure se la ricerca è concentrata negli Stati Uniti, non abbiamo molti motivi di pensare che le opinioni pubbliche europee, a cominciare dalla nostra, siano molto diverse.

Negli Usa, infatti, “la popolazione è, nel migliore dei casi, modestamente informata sulle principali questioni e politiche economiche. Il basso livello di conoscenza è generalmente associato con l’emergere di opinioni ideologiche, politiche e religiose che sfidano o negano il consenso economico corrente”. Qualcuno di voi ricorderà gli anni gloriosi della vulgata italiana no euro, con Twitter trasformato nell’Accademia dei Lincei.

Su questa difficoltà delle società avanzate a formare una opinione pubblica istruita e bene informata non ci siamo mai interrogati abbastanza e nessuno sa spiegarla in modo convincente. Figuriamoci trovare una soluzione. Il mondo va così e ci contentiamo di questo.

Vale la pena però concludere con una breve riflessione. Questo spread fra esperti e pubblico ha come punto di riferimento un sistema di credenze – in questo caso quelle economiche – e rappresenta quella sottile differenza fra il credito, che viene associato all’opinione dell’esperto, e la credulità, che è appannaggio del popolo. Ma tale divaricazione vale soltanto se si assume che il sistema di credenze sia quello “vero”. Il sottotitolo di questa analisi, insomma, è che le opinioni di natura “ideologica, politica o religiosa” siano meno fondate di quelle “scientifiche” che emergono dal consensus degli specialisti. E sarebbe strano il contrario.

Nel riaffermare la priorità dell’argomento scientifico nell’analisi della realtà, ciò che dovremmo chiederci, di fronte all’evidente fallimento nella sua capacità di permeare l’opinione pubblica, è se la credulità del popolo non sia indice di qualcosa di diverso di una semplice inadeguatezza. Forse il popolo pensa diversamente dagli esperti perché, di fondo, non ne condivide più il sistema di credenza, anche se magari non ne ha consapevolezza. Questa ovviamente è solo un’ipotesi. Ma sarebbe il caso di tenerla in considerazione.

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Non fare l’Europa costa molto più di 2,8 trilioni

Il problema di fronte al quale ci troviamo noi europei è l’esatto opposto di quello lamentato da Massimo D’Azeglio all’indomani dell’unità d’Italia. Fatta quella, disse il letterato, pittore e politico del XIX secolo, rimaneva da fare gli italiani. Noi europei, invece, ormai più che fatti direi finiti, siamo ancora in attesa che si faccia l’Europa.

E a quanto pare dovremo ancora attendere a lungo, visto che l’argomento migliore che il Parlamento Europeo riesce a trovare per convincere gli indecisi – ossia i governi europei più che i cittadini – è che se la nostra struttura istituzionale fosse più robusta – se “facessimo l’Europa” sul serio – saremmo in grado di generare 2,8 trilioni di pil in più nell’orizzonte di scenario, che poi è il 2032.

Il pil, insomma. Il fatto economico che dovrebbe determinare la ragione politica, per la felicità degli orfani di Marx. L’Europa, nel suo cuore politico, mostra di rimanere robustamente ancora all’argomento misurabile – el dinero – e convincente per antonomasia per provare a sedurre gli scettici che dubitano delle riforme messe in campo e non ancora finalizzate. Ne ricordiamo solo due di cui abbiamo discusso più volte qui: l’unione bancaria e l’unione del mercato dei capitali. Che hanno a che fare col l’argent, ovviamente, ma perché come è accaduto sin dalla sua nascita l’Europa solo su das Geld ha trovato di che intendersi. Il denaro è davvero il linguaggio comune della nostra società.

Ma se davvero pensiamo questo, e abbiamo definitivamente abbandonato l’idea di poter costruire la nostra identità seguendo il retaggio di quello spirito europeo che attraversava l’Europa intellettuale già nel Settecento e anche dopo, quando era del tutto naturale per un governo avere un primo ministro di un’altra nazionalità e non esistevano confini impenetrabili né passaporti, allora eleviamo questo argomento al rango di universale e proponiamo ai nostri partner dell’Occidente e dell’Oriente un nuovo patto con l’argomento che avremo tutti più money.

Se inseguire la ricchezza vi sembra una motivazione poco nobile da mettere alla base di una nuova idea di convivenza, contentatevi di osservare che nella storia è bastato questo per trasformare in meglio le nostre società, pure se a costi rilevanti. L’Europa si inizierebbe a fare sul serio se si facesse portatrice di una proposta nuova, capace non solo di piacere a noi europei, che le vogliamo bene per stanchezza, ma anche ad altre regioni del mondo.

Nell’attesa che si faccia – la proposta, non l’Europa – contentiamoci del rapporto del Parlamento sul costo della non-Europa. Che è elevato. Ma più di quanto pensiamo.

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Le conseguenze economiche dell’IA generativa

Considerate quel che segue come un semplice assaggio di ciò che sarà, mano a mano che l’IA svolgerà i suoi effetti. Perché il punto saliente, in un mondo che ama il profitto almeno quanto dice il contrario, è capire se le aziende troveranno una loro convenienza ad utilizzare le varie Chat Gpt che sorgeranno da qui all’eternità.

Perciò diamo il benvenuto a uno studio recente pubblicato da NBER che già dal titolo – Generative AI and firm values – ci dice quel che dobbiamo sapere, e ricordare, di questa tecnologia. Ossia che avrà un futuro in misura diretta dei profitti che saprà produrre, essendo in fondo la creazione di valore l’unica cosa che davvero si chiede di generare all’intelligenza artificiale, visto che a quanto pare quella umana non basta più.

Ed ecco l’esercizio, perciò, che in quanto tale va considerato nulla di più di quel che è: un pacchetto di dati costruito sulla base di alcune ipotesi. In particolare, ci si propone di osservare la valutazione delle aziende, misurata attraverso gli indici di borsa, utilizzando come discriminante il diverso livello di esposizione all’uso di Chat Gpt, a partire dal momento in cui la tecnologia è stata rilasciata e nell’arco di un certo periodo di tempo.

Inutile stare a sottolineare la fragilità di questa costruzione. Come dicevo in apertura, è solo l’inizio dello show e peraltro chiunque frequenti la modellistica internazionale sa bene quanto siano esili le base epistemologiche di queste costruzioni intellettuali che finiscono tuttavia per diventare così influenti.

Fatte salve le premesse, arriviamo alle conclusioni. Ecco la prima che dobbiamo tenere a mente: “La scoperta chiave è che l’arrivo di ChatGPT ha avuto un considerevole effetto positivo sul valore delle imprese la cui forza lavoro è maggiormente esposta all’IA generativa e ai relativi modelli di linguaggio esteso”. Chi l’avrebbe mai detto.

Farà sicuramente piacere alle aziende editoriali, per dirne alcune. Le compagnie con un alto livello di esposizione della loro forza lavoro ad essere maggiormente produttive con l’uso di IA hanno sovra-performato di 40 punti base quelle con minore esposizione. Ma non solo nei loro confronti: anche rispetto a quelle con esposizione neutra.

I canali tramite i quali arrivano questi aumenti di valore sono due. Il primo è un puro flusso di cassa: meno persone, che costano di più, e più IA, che costa meno, uguale più soldi in pancia. Il secondo è un flusso di cassa “indiretto”. Il vantaggio del miglioramento tecnologico si trasferisce a tutta l’azienda, rendendola più profittevole.

Interessante osservare anche l’evento contrario, ossia che per alcune tipologie di aziende l’introduzione di IA generativa non ha sortito effetti positivi. Ad esempio per le aziende già sul mercato con una posizione “robusta”, I cosiddetti incumbent. Costoro, che hanno sicuramente fastidiose pastoie di vario genere, molto facilmente possono essere spiazzate da aziende di nuova formazione che sono native IA. Ma una volta consolidate, le prime diventano difficilmente insidiabili.

Leggendo il testo si possono scoprire altre informazioni interessanti. Ad esempio che “le occupazioni più colpite sono quelle che comportano attività con compiti cognitivi non di routine. Ciò è in netto contrasto con le scoperte precedenti secondo le quali l’automazione sostituisce principalmente occupazioni che comportano compiti di routine”.

Neanche troppo sorprendente, a ben pensarci. Più l’artificio diventa intelligente, più diventano oggetto di artificio i compiti che richiedono maggiore intelligenza. Anche scrivere un articolo può diventare una routine: dipende da come si intende questa parola e come si costruiscono i contenuti dell’articolo. E soprattutto le sue finalità. Nessuno stupore, quindi, che le attività manuali siano meno interessate a Chat Gpt: quelle che potevano essere automatizzate già lo sono state negli ultimi due secoli.

Al netto di certe ingenuità, frutto dello scarso senso storico di molti economisti, rimane il punto saliente. Questa tecnologia è un altro passo in avanti nella lunga strada umana verso l’automazione. Un sogno antico. La storia ci racconta, fra i tanti esempi possibili, del sogno degli inventori settecenteschi, alla ricerca del nuovo Adamo biblico purgato dal peccato originale, di costruire l’automa immortale che avrebbe sostituito l’uomo. E, soprattutto, ci dice che questo processo non solo è profittevole, ma anche inarrestabile, almeno fino a quando esiste energia sufficiente ad alimentare le macchine.

Questo è il succo del discorso. Che poi questa automazione si consumi nel solito ciclo distruzione-creazione, reso celebre da Schumpeter non dovrebbe sorprenderci più di tanto. Dobbiamo solo capire come gestire questa novità e ridisegnare molti modelli di comportamento.

Per farlo dobbiamo ricordare solo una semplice evidenza, che nel dibattito rimane sempre celata da montagne di paure millenaristiche: l’IA siamo noi. Se pensiamo davvero che l’IA diventerà qualcos’altro, rispetto a noi, non stiamo progettando una macchina. Ma covando l’ennesimo incubo. Il problema è che se lo facciamo tutti insieme, questo incubo può diventare reale.

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Cartolina. La fuga del dollaro

Ormai da diversi giorni si leggono sulla stampa pensosi articoli sullo yuan cinese che minaccia la supremazia del re dollaro. Tema ricorrente da un decennio almeno. E si racconta sempre la stessa storia: la Cina sta trasformando il sistema monetario internazionale. Ora, tutto è possibile, salvo capire quanto sia probabile. E nell’attesa che un qualsiasi esperto quoti queste probabilità, contentiamoci di osservare che le statistiche Bis, relative all’ultimo quarto del 2022, mostrano un notevole calo dei crediti internazionali, si parla di circa 1,4 trilioni, più o meno equamente divisi fra prestiti e derivati, una parte robusta dei quali sono in dollari. I crediti in dollari ai paesi emergenti, in particolare, sono diminuiti di 142 miliardi, il 6 per cento in meno su base annua, il peggior declino dal 2012, che non fu un anno finanziariamente felice, come sicuramente ricorda chi ha una memoria appena più estesa della sua timeline quotidiana. Le cause sono diverse. La Bis suggerisce da una parte il rialzo dei tassi Usa e il relativo apprezzamento della moneta americana. Ma qualunque siano le ragioni, che come non ci stanchiamo di ripetere hanno poca importanza, ciò che conta è il risultato. Più che una fuga dal dollaro dei paesi emergenti, ansiosi di buttarsi fra le braccia della Cina e della sua moneta inconvertibile, c’è una fuga del dollaro da queste economie. Cominciamo da qui.

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Cartolina. A tutto bond

Rimasti orfani delle banche centrali, in Europa ma anche altrove, i governi adesso dovranno convincere il settore privato ad assorbire la straordinaria quantità di bond che prima gli istituti di emissione compravano senza discutere ampliando le riserve della banche commerciali. Un mondo è finito e ne comincerà una nuovo. E se è saggio domandarsi come sarà, lo è meno provare a rispondere, magari agitando inutili ansie. Non dobbiamo preoccuparci del futuro. Dobbiamo semplicemente occuparcene, magari provando a costruirlo con il pratico esercizio del buon senso. Un grande programma, senza dubbio. E che sarebbe saggio, questo pure, iniziare subito. Prima iniziamo e meglio finiamo. Perché là fuori la realtà va a tutto gas. Anzi: a tutto bond.

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In un mondo diviso a blocchi perdono tutti, i poveri più degli altri

Il Fondo monetario, nella parte finale del suo WEO di aprile scorso, dedica un approfondimento all’andamento dei flussi di investimenti diretti esteri, che quando la globalizzazione era di moda fluivano liberamente dai paesi avanzati a quelli emergenti. Oggi che la globalizzazione non fa più chic, e all’uopo abbiamo coniato termini molto seducenti come reshoring, reglobalisation e altre amenità, quello che sta succedendo è che questi flussi cambiano destinazione. La ricollocazione degli investi diretti esteri premia gli amici, e per giunta più o meno affini, assai più che quei paesi dai quali si prevede arriverà la crescita.

La vittoria della ragione geopolitica, insomma, ossia la scelta di privilegiare valori diversi dalla convenienza economica, può essere una scelta molto ragionevole e persino meritoria. Ma ha un prezzo evidente. Allentare i legami internazionali, dei quali le difficoltà del commercio sono una cartina tornasole, genera meno crescita e perciò alla fine, meno risorse per tutti. E poiché piove sempre sul bagnato, come insegnano i proverbi, è del tutto evidente che il prezzo maggiore lo pagheranno le economie più fragili.

La morale di questa storia è che la globalizzazione è passata di moda perché da oltre un ventennio ne parliamo male e da un biennio abbiamo scoperto che tocca alcuni nostri nervi scoperti e assai sensibili. Improvvisamente abbiamo scoperto di essere fragili.

Lo eravamo da tempo, ovviamente. Ma quando il re si scopre nudo scattano certe reazioni automatiche, come quella, appunto, di serrare i ranghi. Che è esattamente quello che i paesi ricchi stanno facendo. Ma dovremmo anche provare a capire, come fa il Fmi, quali possano essere le conseguenze non intenzionali della “frammentazione degli investimenti diretti”.

Nei vari scenari elaborati dal Fondo, quella che immagina un mondo diviso in due blocchi – Usa e suoi satelliti e Cina e suoi satelliti, con India, Indonesia e paesi caraibici non allineati – la crescita globale sarebbe l’un per cento più bassa dopo cinque anni dal verificarsi dell’ipotesi, con la tendenza ad arrivare al due per cento mano a mano che le restrizioni degli investimenti impediscono la formazione del capitale e quindi diminuiscono la produttività.

La perdita di prodotto sarebbe più elevata nel blocco “cinese”, ma non sarebbe trascurabile neanche per il blocco “americano” visto che molti paesi asiatici che potrebbero iscrivervisi (Giappone e Corea) hanno importanti relazioni economiche con i cinesi. Per i paesi non allineati l’impatto dipende da molte circostanze che non serve qui riepilogare.

Basta osservare il grafico sopra per capire un mondo diviso serve semplicemente a far rallentare l’economia globale, provocando persino una divertente competizione fra i blocchi per attrarre nella loro orbita le economie non allineate, con l’Ue in un ruolo incerto.

In conclusione, pure se sviluppare politiche per promuovere investimenti diretti pressi paesi amici “può beneficiare alcuni paesi”, com’è logico che sia, nell’insieme ciò che se ne ottiene è un regresso sul versante della crescita. Che farà piacere a chi crede che siamo troppo ricchi e che dovremmo rallentare. Lo stesso che poi, quando succederà, magari cambierà idea. Ma sarà troppo tardi.

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Il lungo inverno del mercato immobiliare

Chi ha comprato ha comprato, si potrebbe dire mutuando il vecchio detto, a proposito del mercato immobiliare. E oggi si trova semmai a dover gestire un debito inflazionato e una rata del mutuo altrettanto, se ha avuto la saggezza di scegliere il tasso fisso. E d’altronde con i tassi pressoché a zero è difficile immaginare chi abbia voluto scegliere tassi variabili – che potevano solo crescere – a meno che non si entri nel misterioso mondo dei mutui esotici concessi a debitori incerti, diciamo così.

E poiché chi ha comprato ha comprato, e ormai comprare non è più conveniente, visto che l’euforia ha fatto salire per anni il corso degli immobili e adesso la depressione causata dall’inflazione sta facendo salire i tassi, ecco che il mercato prepara il suo inverno, con prezzi non certo in caduta libera, ma in deciso regresso sicuramente si.

Il Fmi, nel suo Global financial stability report di aprile scorso parla di domanda “congelata”, con prezzi delle case in calo nel 65 per cento delle economie emergenti, nel terzo quarto del 2022, e nel 55 per cento di quelle avanzate. Tendenze che i trimestri più vicini a noi hanno confermato e che difficilmente si invertiranno nel breve periodo. Anzi il Fondo calcola un 5 per cento di probabilità di cali del 7 per cento dei prezzi nei paesi avanzati nel prossimo triennio, e addirittura del 19 negli emergenti. Un lungo inverno, insomma.

Peraltro, proprio le economie con una quota elevata di tassi variabili, osserva il Fondo, “hanno registrato alcuni dei maggiori declini nei prezzi reali”: E il fatto che vengano citati come esempi la ricca Svezia e la assai meno ricca Romania ci dice tutto quel che si deve sapere sugli opposti estremismi del debito facile.

Questi scenari vanno presi come sempre con giudizio. Ci sono diversi fattori all’opera per mitigare i rigori della brutta stagione. Ad esempio l’offerta di abitazioni, che in alcune economie rimane insufficiente, o le difficoltà a costruire, retaggio della pandemia. Peraltro il Fondo stima che molti risparmiatori dispongano ancora di risorse finanziarie capaci di neutralizzare gli aggiustamenti di prezzo. Ma si tratta di ragionamenti astratti, che vanno verificati caso per caso.

I fatti puri e semplici ci dicono che in alcuni paesi come Belgio, Francia, Corea e Svezia il debito delle famiglie è molto cresciuto dal 2019 in poi. E ci dicono inoltre che l’esposizione delle banche al mattone è maggiore nei paesi avanzati che in quelli emergenti. Le due cose insieme congiurano per generare calo dei consumi, da una parte, e stretta creditizia. In sostanza minore crescita.

Di fronte a una situazione del genere il buon senso suggerirebbe prudenza. Non bisogna né creder troppo alle previsioni, né ignorarle. E soprattutto limitarsi a guardare i dati.

Uno, in particolare, che riguarda non le case per le famiglie, ma il settore degli immobili commerciali. Il Fmi ha calcolato che le transazioni globali sono diminuite del 17 per cento rispetto alle rilevazioni di un anno prima, con un picco del 26 per cento in Nord, Centro e Sud America, del 30 in Europa e del 18 nella regione Asia-Pacifico. Qui, dove il debito è tanto e la sensibilità all’andamento dei tassi tantissima, l’inverno è già arrivato. E fa molto freddo.

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Cartolina. Le tasse degli immigrati

Un’altra di quelle cose che non si dice, un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora, è che in tutti i paesi Ocse il rapporto fra le tasse pagate dagli immigrati e i servizi che ne traggono è più alto di quello dei residenti indigeni. L’immigrato, insomma, dà al fisco più di quello che prende. Nel nostro paese questo rapporto, riferito al periodo 2006-18, vale addirittura 2,5, il livello più elevato del club. I motivi sono diversi, ma in gran parte ciò dipende dalla giovane età degli immigrati, che quindi non sono titolari di pensioni, ma semmai pagano i contributi ai nostri anziani, e utilizzano mediamente meno alcuni servizi, tipicamente quelli sanitari legati all’invecchiamento. Certo, un bel giorno anche questi immigrati invecchieranno e cominceranno a chiedere anche loro più sanità e pensioni. C’è da sperare che nel frattempo avremo capito che prima degli italiani vengono i diritti di chi vive e paga le tasse in Italia. E che perciò è saggio incoraggiare chi vuole venire da noi con buoni propositi. Fosse pure marziano. L’alternativa è avere, domani, sempre meno concittadini e ancor meno servizi pubblici. Questo non si dice un po’ perché non si può dire, un po’ perché s’ignora. Ma questo non impedisce che sia vero.

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