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La deframmentazione dell’eurozona
Fra i tanti talenti che vado scoprendo nei nostri banchieri centrali quello più insospettabile è la loro eloquenza, cui si accompagna anche una robusta loquacità. Costoro amano parlare almeno quanto sono avvezzi a calcolare. E mi stupisco ogni volta della loro capacità di inventare, novare o anche semplicemente utilizzare parole sorprendenti a sostegno dei loro teoremi economici.
D’altronde perché stupirsi? Essendo l’economia una raffinatissima forma di retorica, è del tutto logico che i banchieri centrali, che dell’economia sono i riconosciuti sacerdoti, siano anche perfetti retori. Retori calcolatori, ma sempre retori. Quindi capaci di notevoli allocuzioni, che mi infliggo pressoché quotidianamente, perché, come diceva sempre la mamma, devo imparare dai migliori.
Sicché stavo leggendo uno speech di Benoît Coeuré, banchiere della Bce del 19 maggio scorso, (Completing the single market in capital) quando mi è apparsa sotto gli occhi una parolina magica: deframmentazione.
Subito mi si è richiamato alla memoria l’odioso cracracra che fa l’hard disk del mio pc ogni volta che lo deframmento, e se non bastasse il rumore, la lentezza disarmante delle sue prestazioni durante l’operazione che serve, persino gli informatici dilettanti come me lo sanno, a spostare i file sparsi casualmente nell’hard disk raggruppandoli in una parte concentrata in modo da diminuire il loro tempo di accesso e lettura, aumentando in tal modo la produttività del lavoro.
Il fatto che Coeuré si riferisse al sistema finanziario europeo e non a un hard disk non sposta una virgola. I linguaggi ormai sono totalmente omologati, piegati alla logica dell’efficienza, esattamente come le persone.
La frammentazione dell’eurozona, infatti, ha rischiato di mandare in crash l’eurozona esattamente come farebbe un hard disk pieno di buchi col vostro pc. Ed esattamente come accade anche a un hard disk, la deframmentazione dell’eurozona è un processo lungo e delicato, dove qualcosa può andar male e finire peggio e che perciò richiede attenzione e pazienza per essere condotta a buon fine.
Fine che, nel caso auspicato da Couré, è appunto il completamento del mercato unico del capitale, uno dei pallini dei nostri banchieri centrali. Che, sempre per usare la metafora informatica, equivale a una profonda formattazione dell’area. O, a volerla guarda in positivo, a un definitivo upgrade.
E allora vale la pena chiedersi con Couré: cosa stiamo cercando di ottenere con le deframmentazione del mercato europeo?
Anche qui, bisogna sfatare il mito di un’altra parolina magica che ci ha accompagnato nell’ultimo decennio: la convergenza. Abbiamo fatto tutto quel che poteva per convergere no?
Ebbene, abbiamo sbagliato obiettivo.
“Dobbiamo tenere a mente – spiega il nostro gentile banchiere – che la convergenza non è la stessa cosa dell’integrazione”, dice. “Abbiamo visto convergere i prezzi sostanziali nel primo decennio dell’euro solo per trovarci di fronte a una frammentazione finanziaria quando la regione è stata colpita dalla crisi”. Perciò, sottolinea “la convergenza è un processo benvenuto, ma non garantisce di per sé una profonda e resiliente integrazione”.
Non dovevamo cercare la convergenza, quindi, ma l’integrazione. Tale sottigliezza parrà a molti finemente sofistica, e in parte – retoricamente – lo è. Ma è parecchio sostanziale. “La convergenza – spiega – puà anche essere un segno di problemi a venire”. E ce lo dicono adesso?
Anche i banchieri centrali, evidentemente, hanno qualcosa da imparare e la lezione dello spread pare sia ormai stata acquisita. Addirittura, dice ancora “la convergenza può essere un indicatore di instabilità finanziaria e quindi di disintegrazione“.
Accantonata la convergenza, perciò, il nuovo sacro graal dell’eurozona è l’integrazione finanziaria, definita come una situazione dove non ci sono frizioni che discriminano un agente economico nell’accesso agli investimenti e al capitale. Che detto in parole nostre potrebbe tradursi come una situazione ideale in cui l’imprenditore italiano si indebita a tassi tedeschi e investe in Finlandia. Il migliore dei mondi possibili.
Ecco: per realizzare quest’ennesima eu-topia, non serve la bacchetta magica: è sufficiente finire di creare un mercato unico del capitale, esattamente come è stato fatto per le merci e i servizi. Il denaro definitivamente considerato come merce a livello eurozona.
Ovviamente siamo già avanti nel percorso. I capitali circolano liberamente, in barba alla spiacevole controindicazione che sovente ciò si accompagni a un aumento della disuguaglianza, e abbiamo persino una moneta unica che facilita i conteggi. La qualcosa in un’epoca dove il tempo è denaro è di per sé un vantaggio per il conto economico. Ma quello che fa la differenza, spiega Coeuré, è la qualità di questa integrazione, non l’intensità. E tale qualità si misura valutando il grado di qualità dell’allocazione delle risorse e della loro diversificazione.
La questione dell’allocazione deve fare i conti con quella della localizzazione dei debitori, ossia col posto dove abitano, che nell’eurozona frammentata in cui viviamo è più rilevante del loro merito di credito. Il nostro imprenditore italiano, perciò, farà fatica a indebitarsi a tassi tedesci, anche se è una degnissima persona. Ciò in quanto spesso le valutazioni delle banche sono influenzate dal rating dello stato in cui risiedono. Poveri noi, perciò. Ma anche se così non fosse, se cioé il rischio sovrano fosse zero in tutta l’area, “molte banche non sono strutturate per fare prestiti trans-frontalieri”. Basti considerare che tale quota di prestiti alle imprese non finanziarie non superano il 7,5% del totale.
La questione della diversificazione ha a che fare col rischio. L’eurozona non dispone di un sistema efficace di assicurazione cross-border, anche se, nota il banchiere, l’istituto Bruegel ha calcolato che la crisi del mercato dei capitali ha assorbito appena il 10% dello stock di pil dell’area a fronte dei due terzi dell’inter mercato negli Stati Uniti. E tuttavia c’è molto da fare qui da noi. E ancora una volta la parolina magica è integrazione.
Lo strumento principe di questa iintegrazione, ovviamente sarà l’Unione bancaria che dovrebbe provvedere a migliorare sia l’allocazione delle risorse che la loro diversificazione. Tale processo inoltre dovrebbe favorire anche l’integrazione delle banche retail, uno dei principali fattori di disintegrazione dell’area, facendo ripartire i processi di fusione e acquisizione che nei tempi della crisi si sono ridotti al lumicino: sono state compiute operazione per una decina di miliardi appena.
Il processo di integrazione bancaria dovrebbe servire anche a cambiare il volto dell’economia, tuttora bank-based ritagliando un ruolo nuovo e più pervasivo al mercato del capitale, che dovrebbe diventare lo strumento principe di funding delle imprese, al contrario di quello che succede adesso. All’uomo servirà l’evoluzione del sistema Target 2, che a giugno 2015 diventerà il nuovo sistema Target 2 S, ovvero la fase 3 del processo di unificazione finanziaria.
Malgrado tutto ciò, c’è ancra un vulnus, indibiduabile nella ancora carente attività di armonizzazione legislative all’interno dell’unione monetaria. Sulla materia sta lavorando la Commissione, ma nel frattempo toccherà alla Banca centrale dare una spinta all’evoluzione verso un più integrato mercato dei capitali dando un calcione al mercato degli Abs. Il famoso qualitative easing al quale sta lavorando la Bce e che ormai è vicino ad essere inaugurato, specie dopo il risultato delle elezioni europee.
Alla fine di tutti questi processi, conclude Coeuré, e se la deframmentazione andrà bene, avremo un autentico mercato comune dei capitali. A monte però bisogna che gli stati sistemino le loro finanze, sottolinea, visto che durante la crisi uno dei fattori peggiorativi è stato proprio la diversità delle posizioni fiscali.
Non illudiamoci perciò. Magari un giorno avremo mercati finanziari unici, dalla moneta alle banche al regolamento dei titoli, ma i debitori se la passeranno comunque male. “Un mercato unico dei capitali richiede non soltanto un’unione bancaria, ma anche un’unione fiscale ed economica”.
Chi dice che bisogna uscire dall’euro dovrebbe ricordarselo.
La Bce prepara il qualitative easing
Sempre perché dobbiamo distinguerci, noi dell’eurozona, abbiamo messo i nostri banchieri centrali di fronte all’ennesima innovazione di politica monetaria: il qualitative easing.
Si tratta di quella strana via di mezzo fra il quantitative easing angloamericano e il qualitative and quantitative easing giapponese. O, per dirla con le parole di Benoit Coeuré, che ne ha discusso qualche giorno fa (“Asset purchases as an instrument of monetary policy”), si tratta di adeguare le politiche non convenzionali che la Bce ha detto di essere pronta a mettere in campo alle specificità dell’eurozona.
Questoimplica che il problema non sia “aumentare il bilancio della Bce”, come hanno fatto la Fed e la BoJ, ma trovare il giusto strumento per allentare le condizioni monetarie laddove serve, agendo sui tassi di lungo termine, come tutte le politiche non convenzionali si propongono di fare.
Sempre perché dobbiamo distinguerci, noi dell’eurozona, abbiamo creato un mercato finanziario estreamente frammentato, dove non solo sono diversi i tassi d’interesse, ma anche i tassi di inflazione. Il che complica ulteriormente l’individuazione del tasso reale a cui dovrebbe mirare una politica monetaria che, a differenza di quanto accade per le singole giurisdizioni, è per sua vocazione unitaria. O almeno dovrebbe esserlo.
Senonché la realtà è molto diversa dal migliore dei mondi (finanziari) possibili immaginato dai teorici dell’eurozona.
Il problema è noto: il rischio deflazione. A complicarlo, la circostanza che alcune aree dell’eurozona hanno già mostrato chiari segni di deflazione, segnatamente i PIIGS, e anche l’ultimo outlook del Fmi ne ha parlato diffusamente.
Il Fmi, infatti, ha quotato il rischio deflazione nell’euroarea fra il 20 e il 25%, notando però che alcuni paesi, Spagna, Grecia e Irlanda, stanno nella fascia “alto rischio”.
A tal proposito, le previsioni del nostro banchiere centrale non si discostano, ovviamente, da quelle di bottega: ossia un periodo prolungato di inflazione più o meno bassa (per l’intera area) cui seguirà il ritorno ai valori di inflazione previsti dal target della Bce, quindi il 2%.
Il problema è cosa fare nel frattempo.
La forward guidance ha già chiaramente illustrato che i tassi rimarranno bassi tutto il tempo necessario. Adesso, dopo l’ultima riunione del board dei governatori, si è approvata all’unanimità l’ipotesi di politiche non convenzionali, creando così ulteriori aspettative nei mercati.
A tal proposito, Coeuré sottolinea che l’unanimità è relativa all’uso di politiche non convenzionali, non sulle loro modalità. In particolare “se l’acquisto di asset possa essere la misura non convenzionale più opportuna”. E anche qualora si raggiungesse l’unanimità sul fatto che sia la più opportuna, “la questione diventa allora come si possa effettuare una tale politica in modo che sia utile e che sia conforme con il nostro mandato”.
Insomma: si apre un mondo. Con l’aggravante che gli scenari sono complicati dall’estrema varietà di sottoscenari presenti, ossia i singoli paesi dell’area euro, o almeno le varie aree assimilabili dell’eurozona. Per non menzionare le complicazioni del trattato europeo, che se pure rende possibili gli acquisti di titoli negoziabili deve tener conto del divieto di distorcere l’allocazione delle risorse nei mercati e insieme di creare effetti redistributivi. “Questo significa – spiega – disegnare un programma che funzioni sulla base delle caratteristiche dell’eurozona, dove ad esempio l’intermediazione bank-based è predominante e dove l’impatto dell’equity e del mercato immobiliare sulla ricchezza è meno importante che nel mercato americano”.
Se non vi bastassero queste complicazioni eccovene un’altra: “Bisogna pensare in termini di tre diverse forme del tasso di interesse”. Per farvela semplice, ciò significa che allorquando la Banca centrale decide cosa comprare, deve tenere conto della maturità di questi asset, ossia quali scadenza privilegiare e delle differenze fra le singole giurisdizioni, per decidere quali privilegiare nell’acquisto.
Ciò spiega bene perché “il successo di queste strategie non può avere come indicatore la dimenzione del bilancio della Bce, ma l’effetto osservabile delle nostre operazioni sul premio di rendimento fra i mercati e le varie giurisdizioni”. “O, per metterla diversamente – specifica – gli acquisti di asset nell’euro area non devono basarsi sulle quantità, ma sui prezzi. Per questo dico che parlare di quantitative easing è fuorviante”.
Serve un qualitative easing, appunto, capace di abbassare i tassi reali agendo sui rendimenti, avendo cura di agire anche “politiche complementari”, come ad esempio la riparazione dei bilanci bancari, per evitare che si ripeta che che il calo degli spread, intervenuto dal 2012 in poi, abbia effetti pressoché nulli sulla concessione di credito.
Dove vuole arrivare Coeuré con tutta questa manfrina?
Provo a tradurre per come l’ho capita io, quindi di sicuro in maniera superficiale. La banca centrale comprerà asset finanziari, magari ABS, mirando laddove più necessità: ossia i paesi dove i tassi reali sono più alti, e quindi dove l’inflazione è più bassa o c’è addirittura deflazione.
Indovinati chi sono.
Comprerà asset sulla curva lunga dei rendimenti mirando più al mercato degli Abs che hanno sotto prestiti alle imprese più che mutui cartolarizzati (la famosa differenza fra noi e gli Usa).
A rafforzare questa convinzione ha contribuito un altro intervento, stavolta di Yves Mersch, anche lui del board della Bce (“Banks, SMEs and securisation”) del 7 aprile scorso, nel quale il banchiere svolge un notevole endorsement per l’avvio di un programma di cartolarizzazioni mirato sulle imprese medio piccole. Ossia quelle che hanno sofferto più delle altre per la restrizione del credito bancario, non avendo massa critica sufficiente ad attirare risorse dal mercato dei capitali.
Si dovrebbe in pratica agevolare la cartolarizzazione dei prestiti concessi dalle banche alle imprese medio piccole per favorire la concessione di credito a queste entità.
Mersch sottolinea i criteri assai stringenti che l’Eurosistema ha fissato per rendere potabili gli Abs all’interno dell’Eurozona, che hanno consentito di restringere il tasso di default di questi strumenti nel range dello 0,6-1,5% a fronte del 9,3-18,4% registrato in America. In tal modo si è arrivati alla costruzione di “cartolarizzazione di alta qualità”, che però devono poter godere di un trammento preferenziale a livello regolatorio (leggi bassi accantonamenti di capitale) per essere finalmente inseriti in più vasti programmi di securizzazione gestiti dalla Bce.
Se il Comitato di Basilea accoglierà l’appello di Mersch, il grosso del gioco sarà compiuto. Sarebbe sufficiente che la Bce e la BoE “facessero una dichiarazione congiunta su questo tema al prossimo meeting di primavera del Fmi per sottolineare l’intenzione europea di andare decisamente avanti”.
In sostanza, la Bce potrà comprare questa carta, magari dando la preferenza a quella emessa dai PIIGS, facendo attenzione a non esagerare per non fare innervosire gli azionisti di maggioranza.
Sembra una riedizione del programma di acquisto titoli di stato per i paesi in crisi (peraltro mai attivato e pure sanzionato dalla Corte federale tedesca), solo che anziché bond pubblici si comprano abs di qualità.
Il famoso qualitative easing, appunto.