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La vita spericolata del banchiere internazionale

Ripenso a Vasco Rossi e alla sua vita spericolata mentre leggo  un recente intervento di Már Guðmundsson, governatore della banca centrale islandese (“Cross-border banking – where do we stand?”) e ovviamente mi stupisco nel rilevare assonanze fra due modelli di vita che sembrano agli antipodi: la vita di un rocker e quella di un banchiere che lavori su scala internazionale.

Eppure, proprio come Vasco, il banchiere globale, non dorme mai e ha una vita piena di guai che prima o poi è chiamato a risolvere. O che magari risolverà qualcun altro. Esattamente come un rocker, il banchiere convive con l’ala della disgrazia al suo fianco, vicino ai facili e inebrianti guadagni che la sua professione può procurargli, perfetta conseguenza dei rischi morali, se non addirittura mortali, che continuamente corre.

Penserete che esagero. Che è tipico di un mio certo divagare associare un cantante spericolato a un banchiere compassato. Eppure, vedete: aldilà della forma e dell’abbigliamento, del pantalone di pelle griffato del primo a di quello di alta sartoria del secondo, quello che accomuna questi due personaggi della nostra attuale commedia umana è il rischio. Rischiano grosso.

Il mestiere di banchiere, infatti, è per sua natura estremamente rischioso. E le nostre società ci hanno messo secoli per imparare a contenerlo. Pensate solo a cosa significhi, in un modello di banca che prevede la riserva frazionale, dover far fronte ogni volta con il problema che i banchieri chiamano della maturity e della transformation che implicano un costante rischio di liquidità.

Esemplifico per quelli che, come me, non fanno di mestiere il banchiere. Una banca prende a prestito una certa somma, che per lei rappresenta un debito a breve termine, a volte addirittura a vista, e lo investe in prestiti, che per lei sono crediti, a medio-lungo termine. Un bravo banchiere riesce sempre a sincronizzare i suoi pagamenti. Che significa che è in grado di far corrispondere gli incassi dei prestiti che ha concesso con i le uscite dei prestiti che deve restituire, riuscendo persino a farci dei profitti. Per riuscire nell’impresa deve essere quindi in grado di gestire opportunamente la maturity e la transformation delle sue obbligazioni.

Lo aiuta il fatto che non deve accantonare una somma pari a quella che ha preso a prestito, prima di prestare a sua volta, ma solo una frazione di essa a mo’ di riserva (riserva frazionale). Ciò implica che in ogni momento, vuoi per una crisi di fiducia, vuoi per un problema nella tempistica dei pagamenti che la banca fa e riceve, la banca si possa trovare letteralmente a secco. Mancare di liquidità.

Le banche centrali sono nate apposta per svolgere il ruolo di prestatori di ultima istanza, ossia di fornitori di liquidità, proprio per evitare che una banca magari sana ma incappata in un brutto momento fallisca. E neanche questo è bastato.

L’esperienza degli anni ’30 del XX secolo ha mostrato come basti poco per innescare un bank run, ossia una corsa agli sportelli. Sicché gli stati, che sono i prestatori di fiducia di ultima istanza delle banche centrali, ossia dei prestatori di liquidità di ultima istanza, hanno ritenuto di elaborare la normativa di assicurazione dei depositi per garantire a certe categorie di risparmiatori il rimborso dei loro depositi in caso di problemi finanziari di una banca.

Questi processi hanno impegnato secoli. Ma adesso siamo tornati sostanzialmente al punto di partenza. Le banche internazionali, il cosiddetto cross-border banking, ricordano per certi versi le vecchie banche ottocentesche, tanto redditizie quanto pericolose e fragili. E ciò spiega bene perché i regolatori di mezzo mondo siano al lavoro per capire in che modo replicare per via internazionale ciò che è stato fatto a livello nazionale.

La domanda del banchiere islandese, perciò, a che punto siamo con il cross border banking, riveste un indiscutibile interesse.

Un paio di esempi aiutano a focalizzare il problema.

All’inizio della crisi finanziaria del 2008 l’eurozona mostrava un current account pressoché in equilibrio, tuttavia pochi avevano notato che le banche europee avevano costruito grosse posizioni denominate in dollari che hanno provocato scompensi in termini di maturity dopo il crack Lehman, quando ci fu una fuga dal dollaro che diminuì notevolmente il valore di questi asset. In sostanza le banche europee si trovarono spiazzate in conseguenza della perdita di valore degli asset denominati in dollari, che misero a rischio la loro capacità di ripagare le loro uscite.

Circostanza simile si verificò per le banche islandesi, i cui asset quintuplicarono fra il 2003 a la metà del 2008, portandosi a dieci volte il Pil. Gran parte di questa esplosione fu possibile proprio in virtù dei prestiti cross border. “Ciò fu facilitato – spiega – dalla membership dell’Islanda con l’area economica europea, quindi Ue, Lichtenstein e Norvegia, che rese possibile l’acquartieramento di banche islandesi in tutta la regione, e poi anche in virtù delle condizioni globali del credito, abbondante ed economico“.

Tanto è vero che, prima del crollo, le banche islandesi avevano asset in valuta straniera per quasi 7,5 volte il Pil, “con un significato disallineamento della maturity fra asset e debiti”, mentre la banca centrale islandese aveva riserve complessive pari al 21% del Pil.

Dopo il crack Lehman, nell’autunno 2008, il panico provocò una fuga generalizzata dai debiti denominati in valuta estera, che non degenerò in un crack generalizzato del sistema solo perché la banca centrale islandese poté contare su diversi accordi di swap in dollari che impedirono l’essiccarsi della liquidità. In sostanza, furono condotte una pluralità di quelle che si chiamano LOLR operation, dove l’acronimo sta per Land of last resort, ossia restatori di ultima istanza. Per chi non lo ricordasse, gli swap sono sostanzialmente prestiti a breve termine.

In sostanza, i disallineamenti di maturity hanno generato un rischio di liquidity, che è stato gestito con operazioni di LOLR a livello nazionale e globale, con la Fed nel ruolo di grande fornitrice di liquidità. In un certo senso, la banca centrale americana è diventata la prestatrice globale di ultima istanza.

Basta ricordare che a dicembre 2008 gli swap in dollari avevano raggiunto il picco di 580 miliardi.

Tale esperienza non implica, nota il banchiere, che abbiamo risolto il problema delle operazioni di finanziamento cross border. “Intanto – spiega – perché ci sono varie perplessità sull’utilizzo degli swap quale strumento permanente di gestione e prevenzione degli crisi”. Secondo punto dirimente è che la crisi ha dimostrato il sostanziale fallimento del “safety net”, ossia di quella complessa ragnatela di meccanismi che avrebbe dovuto, da un parte, prevenire l’azzardo morale nelle operazioni cross border, e al contempo assicurare protezione, potendo contare su istanze regolatori e i famosi swap d’emergenza.

A proposito di swap, il banchiere ragiona anche di come si potrebbe/dovrebbe arrivare a una sorta di loro istituzionalizzazione che, almeno in teoria, dovrebbe passare dal Fmi che al momento dispone di circa un trilione di dollari di capacità di prestito, di solito però orientato a medio lungo termini, ma non della rapidità ed elasticità di una qualunque altra banca centrale nella gestione di questi fondi. Quindi occorrerebbero delle modifiche sostanziali per fare del Fmi l’autentica banca centrale mondiale che tanti preconizzano debba diventare. “Ma questo non è molto probabile, in futuro”, ammette il nostro banchiere.

Che fare dunque? In punta di principio la risposta è semplice: l’azione del mercato e il contesto pubblico di riferimento devono essere meglio allineati. “Ciò può avvenire attraverso due canali – spiega – o attraverso una riduzione delle operazioni bancarie transfrontaliere in modo che le reti nazionali di sicurezza dei grandi paesi siano sufficienti, o attraverso l’espansione internazionale di reti di sicurezza”.

Il solito vecchio dilemma fra squilibrio o depressione, insomma. Atteso che minor prestiti transfrontalieri implicano meno opportunità di business e più prestiti più rischi.

Ovviamente il nostro banchiere, che ben conosce i vantaggi di una vita spericolata, ha le sue preferenze. “Dobbiamo sperare – dice – che l’estensione del contesto pubblico, attraverso una cooperazione internazionale e regionale, sia una parte della storia”. Ma quel che è certo è che i progressi devono essere fatti a tutti i livelli: nazionali, regionali, internazionali.

Insomma, par di capire che l’unica ricetta sia la cooperazione, anche se molti vorrebbero semplicemente tornare indietro (ma è difficile in un mondo dove i capitali circolano liberamente), altri procedere per conto proprio e altri ancora stringere a livello globale le maglie della regolazione.

E i passi avanti che si sono compiuti finora – si pensi all’Unione bancaria nella zona euro, o i piani di integrazione bancaria nella regione Asean – lasciano credere che i banchieri centrali abbiano ben chiaro il percorso, ricordando che “una unione monetaria senza una unione bancaria è potenzialmente molto rischiosa”.

Ed ecco che il rischio torna a far capolino e con esso la “maledizione” della vita del banchiere, che deve correre i rischi, ma non riesce a farseli piacere.

I rocker, da questo punto di vista, sono un filo meno ipocriti.

 

I nuovi mostri: stupori e tremori nel mercato dei repo

Gli alpinisti finanziari, quelli che amano l’aria rarefatta che si respira sulle cime più elevate del capitale fittizio, gli scalatori – perciò  – delle montagne di denaro virtuale che il nostro sistema finanziario ama cumulare, si troveranno a loro agio passeggiando lungo i sentieri tortuosi  e a strapiombo del mercato dei repo.

Da lassù, da quota 10 trilioni di dollari – tanto cubano le transazioni americane di repo – si gode la vista invidiabile di un mondo frenetico e avido, dove le persone sono talmente piccole che non esistono. E anche se esistessero, sarebbero solo puntini luminosi su uno schermo, variabili calcolabili, e, in fin dei conti, ininfluenti. O, di sicuro, assai meno interessanti del liquido circolare di tanta ricchezza, che non ha senso alcuno se non per il suo stesso esserci. Perfetta autocontemplazione di potenza che non diventa, né può diventare, autentico atto economico.

Se poi i nostri alpinisti fossero europei dovrebbero contentarsi di una montagna appena meno irta, un 6.000 miliardi di euro o giù di lì, ma comunque ormai pullulante di vita geroglifica, puramente numeraria, che però tiene in piedi il vostro bancomat e il mio. Perciò gli dei ci scansino dal rischio che prima o poi questa montagna si decumuli, perché rovineremmo con essa, giù in fondo, fino a valle.

Così almeno ci dicono i nostri banchieri centrali, novelli ghostbuster, alla costante caccia dello spettro dispettoso che genera le crisi, inesperienti abbastanza dal capire quanto contribuiscano essi stessi all’evocazione, epperò saccenti dispensatori di allarmi e suggerimenti, sebbene mai una volta abbiano impedito agli alpinisti di provocar valanghe.

Curioso, mi sono inerpicato anch’io, con l’abbigliamento occasionale del turista di spiaggia, lungo i sentieri che conducono lassù dove vive questo nuovo mostro del nostro tempo. Tutt’altro che leggendario peraltro. Vive e lotta insieme a noi. Coi nostri soldi ridotti a carburante per scorrerie da corsari.

M’è venuto in aiuto un pregevole studio della Bundesbank, pubblicato nel montly report di dicembre scorso che mi indica la strada e mi guida e al quale mi affido con dantesca fiducia, iniziando il mio viaggio all’interno del repo-mondo.

Sappiamo già che il repo è una transazione nella quale due parti danno l’una alltra un titolo in cambio di denaro, impegnandosi, la cedente il titolo, a riacquistarlo a scadenza (cd “reverse-repo”). Questa pratica finanziaria, l’italiano “pronti contro termine”, la Buba la considera “la più importante e la più rilevante forma di transazione monetaria assicurata”, ossia basata sull’uso di un collaterale, vale a dire una qualunque obbligazione giudicata solida abbastanza da sostenere una transazione di solito operante nel breve termine. Come ad esempio , titoli di stato americani o gli Mbs, che abbiamo già visto  reggono il mercato Usa dei repo, con tutte le controindicazioni del caso.

Di solito questa transazione si svolgono bilateralmente. Ma se interviene una terza parte, ad esempio una clearing house o una banca di clearing, si parla di triparty-repo. Questa pratica, negli Stati Uniti occupa la maggior parte del mercato repo. Va sottolineato che la parte che ha preso il titolo in cambio di denaro può, fino a quando non deve restituirlo, utilizzarlo a sua volta per fare altre transazioni repo. Ciò provoca che la catena del credito/debito, possa allungarsi indefinitivamente fino alla scadenza, coinvolgendo altri soggetti.

Si parla, in questi casi, di “re-hypothecation”. L’allungamento della catena aumenta, proporzionalmente, il rischio di controparte (ossia che qualcuno non paghi). Per questo la Buba sottolinea che “può essere problematica per la stabilità finanziaria”. E’ in questa lunga catena che nascono e si consolidano i rapporti fra le banche e le banche-ombra, ossia il peggior incubo dei regolatori.

Le transazioni repo vengono utilizzate dalle istituzioni finanziarie, quindi innanzitutto le banche, dai commercianti di obbligazioni, come i broker, e in generale da tutti i partecipanti al mercato dei capitali, per gestire in maniera efficiente la liquidità. Che poi significa che chi si trova in eccesso di fondi li presta a chi ne è a corto, coprendo il rischio del prestito col collaterale.

Peraltro, essendo il monitoraggio dello stato globale della liquidità essenzialmente una questione di politica monetaria, il mercato dei repo riguarda direttamente l’attività delle banche centrali, che di tale politica sono le depositarie. E ciò spiega perché la Buba ci abbia regalato un approfondimento.

L’aumento dell’importanza relativa del mercato dei repo è una delle conseguenza della grande crisi del 2008. Prima i commercianti di liquidità si affidavano all”unsecured money per i loro fabbisogni, ossia ai prestiti non garantit da collaterali, ma poi il panico del 2008, seguito al fallimento di Lehman, che era una delle controparti di questo mercato, prosciugò letteralmente questo mercato, spingendo i partecipanti verso la secured money, ossia i repo.

Le nuove regole che spinsero verso l’uso delle Controparti centrali hanno travasato dal settore OTC a quello regolamentato su piattaforma elettronica gran parte di queste transazioni. Ciò anche in quanto “il volume dei repo OTC è significativo e il processo non è molto trasparente”. Questo, unito al crescente utilizzo di questo strumento, ha aumentato l’attenzione sulla sua evoluzione, anche in ragione della possibilità che subisca gli effetti dell’annunciata tassazione sulle transazioni finanziarie.

“In Europa – scrive la Buba – il mercato dei repo è cresciuto rapidamente in termini di valore”. Un grafico mostra che fino al 2001 le transazioni repo europee non arrivavano a cumulare neanche 2 trilioni di euro. Ma poi accade qualcosa: il mercato letteralmente esplode. La curva si impenna toccando l’apice dei 7 trilioni fra il 2007 e il 2008.

Sulle ragioni di tale esplosione si può solo congetturare e affidarsi ai dati della Buba, che nota come “per le banche multinazionali tedesche i repo sono considerabilmente più importanti che rispetto all’industria bancaria tedesca nel suo complesso”. Quindi di sicuro hanno contribuito non poco alla crescita del mercato. Dai dati emerge che prima della crisi questa multinazionali bancarie gestivano il 60% del totale delle transazioni repo tedesche, per poi crollare al 35%.

La crisi riduce il volume delle transazioni sotto i 5 trilioni nel 2009. Quindi la ripresa, fra il 2010 e il 2011, quando torna a 7 trilioni, e il ritracciamento, provocato dalla crisi degli spread nel 2011, che lo riporta al livello attuale, di circa 6 trilioni.

“Il business dei repo europei – sottolinea la Buba – è molto concentrato, con 20 istituzioni che trattano circa l’80% dell’intera attività”. Il problema, spiega, è che “l’infrastruttura di mercato è profondamente frammentata”, anche perché le infrastrutture di mercato operano sia a livello nazionale che internazionale.

Alle controparti centrali (CCps), infatti, ossia le principali ckearing house europee, si affiancano i sistemi di deposito accentrato, ossia i Central securities depositories (CSDs), che continuano a svolgere un ruolo rilevante nel mercato dei repo, in quanto custodiscono i titoli che collateralizzano queste transazioni. Queste ultime entità, che come anche i CCPs sono entità private, agiscono su un doppio livello, sia nazionale che internazionale (ICSDs). A quest’ultima categoria appartengono la belga Euroclear e la lussemburghese Clearstream. A entrambe l’unificazione monetaria ha fatto un gran bene, visto che hanno potuto rivolgere le loro gentili cure a tutti i titoli denominati nella valuta unica.

A luglio del 2013 le due ICSDs e le due CCPs più rilevante della zona euro, ossia Clearstream Banking Ag e Eurex Clearing AG, si sono accordate per far funzionare meglio le varie procedure. Vi risparmio il dettaglio tecnico. Lo scopo, ovviamente, è sempre lo stesso: far girare meglio i soldi per poterne fare di più.

L’integrazione europea del mercato dei repo, spinta dall’Unione monetaria da un parte, e dalla stretta cooperazione in fieri fra i colossi del clearing e del depository, ha alzato il livello di attenzione della Bce su tale mercato. anche perché la Banca centrale usa i repo a sua volta per la sua analisi sulla strategie da seguire nella politica monetaria. E fra gli strumenti che la Bce usa ci sono anche le operazioni di rifinanziamento, ossia la fornitura di liquidità alle banche commerciali in cambio di collaterale.

La Bce, insomma, è prima attrice nel mercato del repo, e questo potrebbe spiegare il grande sviluppo di questo strumento a far data dall’inizio dell’Unione monetaria. Sostanzialmente, quando una banca commerciale fa un repo con un’altra banca, non fa altro che replicare quello che, in origine, fa una banca centrale: immette liquidità nel mercato. Si può dire, anzi, che il mercato dei repo è un’invenzione delle banche centrali.

E in effetti è proprio così. La prima banca centrale che inventò i repo fu la solita Fed, nel 1917.

Non a caso in quel tempo l’America era in guerra.

(1/segue)