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Ritorno in grande stile per le cartolarizzazioni Usa


L’unico insegnamento della storia è che non insegna nulla. Questa dolorosa consapevolezza mi sorprende mentre scovo un report di S&P che mostra come il mercato delle cartolarizzazioni negli Usa abbia ripreso vigore, non paghi evidentemente gli americani, e con  loro il resto del mondo, di essersi bruciate le penne con questi strumenti solo pochi anni fa.

Un grafico, nel quale peraltro non vengono considerati gli RMBS, fotografa benissimo questa tendenza. Ricordo ai non appassionati che RMBS sta per residential mortgage backed securities, ossia gli strumenti che sono stati fra i grandi protagonisti dei problemi di otto anni fa.

S&P ipotizza che il 2016 sarà un anno ottimo per le cartolarizzazioni. Al netto degli RMBS, la finanza strutturata quest’anno dovrebbe produrre emissioni di titoli per poco meno di 500 miliardi di dollari. Se invece si considerano anche i RMBS, si dovrebbe arrivare a 537 miliardi di dollari. Siamo ancora lontani dal picco del 2007, quando al netto degli RMBS si arrivò a oltre 600 miliardi di emissioni, ma ciò che conta rilevare è che la giostra è ripartita e sembra in ottima forma, oliata da un settennio di denaro pompato senza parsimonia alcuna dalla Fed e dalle altre banche centrali.

In alcuni segmenti degli ABS (asset back security) il livello del 2006 è stato in effetti già raggiunto. In particolare, gli ABS che hanno sotto debiti correlati alla vendita di auto hanno già raggiunto i 194 miliardi nel secondo quarto del 2015, quindi al livello pre-crisi, quotando il 19% del totale dei debiti esistenti per questa categoria. Al contrario, altri settori, come gli ABS che hanno sotto debiti dalle carte di credito, o i CMBS, ossia le cartolarizzazioni con sotto mutui commerciali, stanno ancora il 20-30% sotto il livello pre crisi. Ma anche qui, la notizia non è tanto questa. Ciò che rileva è che abbiano ripreso a correre. Considerate che nel 2010 il totale di tutte le cartolarizzazioni superava di poco i 100 miliardi ed era ancora sotto i 200 l’anno successivo.

L’inversione di tendenza si osserva nel 2013. Le politiche monetarie della Fed, il cui QE prevedeva fra l’altro l’acquisto massiccio di MBS, hanno di sicuro contribuito a far tornare la fiducia su questi strumenti. E in effetti si osserva che, sempre al netto degli RMBS, superavano i 400 miliardi di emissioni già nel 2014. S&P nota che in Europa il mercato delle cartolarizzazioni è rimasto indietro rispetto a quello statunitense, ma auspica che i regolatori inizino ad incoraggiare l’uso di questi strumenti “per diversificare le fonti di finanziamento e promuovere l’espansione economica”. Anche gli argomenti a favore delle cartolarizzazioni, quindi, ricordano quelli del passato. All’epoca si magnificava questo strumento perché consentiva di impacchettare rischi diversi, al fine evidente di diluirli, e smerciarli nel mercato all’ingrosso, potendo contare sui grandi investitori che, incoraggiati dalle triple A generosamente elargite da agenzie di rating come S&P, compravano questa carta ignorando sostanzialmente cosa ci fosse sotto. Il gioco è durato finché c’è stata abbastanza liquidità ad alimentare la girandola di compravendite. Poi, quando la liquidità si essiccò, il sistema mostrò le sue falle e collassò. Diluire i rischi non era servito a farli scomparire, come raccontava la vulgata, ma semplicemente a renderli sistemici.

Torniamo a oggi. La lunga release di S&P contiene anche altre informazioni che è utile sottolineare. Una categoria di prestiti che sta conoscendo un buon livello di cartolarizzazioni è quella degli ABS con sotto i debiti studenteschi. Nel 2009 questi ABS quotavano circa 240 miliardi, a fronte di un totale di debiti studenteschi di 832 miliardi. Nel secondo quarto del 2015 gli ABS sono arrivati a 211 miliardi, ma nel frattempo la montagna di debiti studenteschi è cresciuta smisuratamente, sollevando parecchie preoccupazioni fra i regolatori americani: S&P calcola in 1.360 miliardi di dollari i debiti globali degli studenti Usa a primo trimestre 2015. Questa montagna da tempo è sorvegliata speciale, visto che si è notata una crescita significativa dei tassi di insolvenza. Magari i prossimi subprime saranno gli studenti.

Altrettanto interessante è notare l’andamento degli RMBS. Questi ultimi si dividono in non agency e agency/GSE. La differenza è sostanzialmente nelle garanzie. I RMBS agency hanno alle spalle le Government sponsored enterprise (GSE): la Government National Mortgage Association (GNMA o Ginnie Mae), la Federal National Mortgage (FNMA o Fannie Mae), e la Federal Home Loan Mortgage Corp. Quindi hanno il governo che copre le loro perdite, come è successo dopo il crack dei sub prime. Gli ABS non agency sono emessi da istituzioni finanziarie e non hanno la garanzia del governo alle spalle.

I numeri raccolti da S&P ci dicono che i non agency/RMBS, che nel 2009 quotavano 1,9 trilioni di dollari su un totale di 10 trilioni di debiti, nel primo quarto 2015 erano a 943 miliardi di dollari su 9.855 miliardi di debiti totali. Gli agency/GSE sono rimasti stabili, al contrario, con la conseguenza che la quota dei mutui sponsorizzati dal governo è salita dal 52% del 2009 al 61% di oggi, mentre i mutui in pancia alle banche sono diminuiti da 2.693 miliardi a 2.407. Un pezzo di rischio sistemico, insomma, si è spostato dal privato al pubblico, in un mercato, l’immobiliare americano, che già si segnala per la più alta presenza del governo dopo Singapore, secondo quanto rilevato dal Fmi.

Insomma: che una americano compri un’auto, faccia un debito con la sua carta di credito, cerchi un prestito da studente o compri casa, i suoi debiti sono destinati a finire nel tritacarne delle cartolarizzazione e smerciato chissà dove. All’epoca di Lehman scoprimmo che le banche europee erano zeppe di questa carta, e sappiamo cose successe dopo. Oggi sappiamo solo che il gioco è ripartito alla grande. Solo che il mondo se ne accorgerà quando finirà male.

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Le bugie dei Grandi Numeri: la rimozione dell’incertezza


Dubitare delle statistiche è atto profondamente eversivo, ed è facile capire perché. I grandi numeri sono la base del ragionare economico contemporaneo, e osservare, pure timidamente, che non c’è alcuna certezza che non sia ipotetica nelle astrussime rilevazione dei istituti che se ne occupano, è capace di far franare la costituente stessa delle nostre economie, basate sul calcolo e la congettura, visto che per calcolare e congetturare servono dati certi.

Ora parrà a molti che questo argomentare appartenga alla percezione dilettantesca di chi, come me, sfogli a volo d’uccello questioni così complesse. Eppure, vedete: non è così. Ci sono fior di studiosi che si occupano di questa roba e fra i tanti ne ho scovato uno, Charles F. Manski, che ha pubblicato un Paper per il NBER eloquente già dal titolo: “Communicating Uncertainty in Official Economic Statistics”.

Capirete la mia sorpresa quando ho scoperto che le mie intuizioni malfondate sono meritevoli di disamina “scientifica”, e addirittura di conclusioni così disarmanti: “Non sappiamo essenzialmente nulla su come il processo decisionale (quindi della politica, ndr) potrebbe cambiare se le agenzie di statistica comunicassero con trasparenza e con regolarità l’incertezza statistica”.

Già, l’incertezza.

Perché, vedete, il problema è che tutta la statistica, e la comunicazione che se ne fa, si basa su una sistematica rimozione proprio dell’incertezza di tali rilevazioni, che, al contrario, vengono vissute come stime puntuali sulle quali basare le proprie decisioni. Ciò spiega perché il nostro autore proponga alcuni metodi per rilevare tale incertezza e imparare a comunicarla, al fine di evitare errori.

Ma non è questo il punto focale. Ciò che conta rilevare è che “le agenzie governative di statistica riportano i dati come stime puntuali senza accompagnarle con misurazioni degli errori che possono contenere”.

Ne consegue che “le notizie pubblicate che comunicano le statistiche ufficiali al pubblico presentano le stime con poche o addirittura nessuna menzione sulle possibilità di errori”.

Il dibattito, perciò, spesso si costruisce su dati lanciato in pasto all’opinione pubblica senza un minimo di caveat che potrebbero ridurli a ciò che sono, ossia congetture, e quindi cambiare la natura stessa del dibattito.

Faccio un esempio. Di recente l’Istat ha rilasciato il dato sul Pil del primo trimestre 2014, registrando un calo dello 0,1%, che misurato in valore pesa circa 1,5 miliardi di euro di prodotto in meno. Per giorni non si è parlato di altro, in maniera alquanto demenziale, con le borse terremotate insieme alla salute del governo. Lo stesso copione al contrario l’abbiamo visto quando l’Istat ha rilasciato il dato del Pil del quarto trimestre 2013, quando invece l’indice segnava un aumento dello 0,1%. In quel caso furono applausi e sospiri di sollievo.

Ma cosa sarebbe successo se l’istituto avesse messo come caveat che il valore di uno 0,1% di un Pil, distribuito sull’insieme delle voci del prodotto, può facilmente equivalere proprio al margine standard dell’errore statistico di misurazione?

Come vedete, la rimozione dell’incertezza è funzionale al governo delle nostre società. Perché se dubitassimo dei numeri, non potremmo articolare alcun discorso politico sui numeri, dimostrandosi con ciò che l’economia, che si costruisce sulla statistica, è di per sé un atto politico, in barba ai tanto decantati principi di neutralità e scientificità.

Vale la pena, perciò, continuare a leggere il paper di Manski, se non altro per sentirsi meno soli, quando si pensano certe cose.

Tipo quando scrive che “riportare i dati statistici come stime puntuali è una tendenza comune a molti analisti che tendono a proiettare incredibile certezza (il corsivo NON è mio, ndr), incoraggiando i policy makers e il pubblico a credere che gli errori sono piccoli e senza conseguenza”.

Notate il verbo credere.

“In assenza di un’agency guidance – continua – le persone che capiscono che le statistiche ufficiali sono soggette ad errori devono autonomamente congetturare la magnitudine di questi errori. Così chi utilizza le statistiche ufficiali può mal interpretare le informazioni che le statistiche forniscono”. E questo, aggiungo io, nel migliore dei mondi possibili. Quello, vale a dire, dove uno che legga i dati non si accontenti del numeretto, ma si vada a leggere le definizioni che sostanziano i dati e che spesso dicono cose molto diverse da quello che uno pensa.

La conseguenza di questa situazione è che si parla con la massima certezza di questioni che sono profondamente incerte. E questo lascia ampia margini alla conduzione retorica del ragionare economico, che in tal modo diventa strumentale a quello politico.

“Le agenzie statistiche potrebbero mitigare le interpretazioni sbagliate delle statistiche ufficiali se misurassero l’incertezza e la riportassero nelle loro news release e pubblicazioni tecniche”, visto che “la qualità delle decisioni può risentirne”.

Il problema è che misurare gli errori, campionari o no, (sampling error, o non sampling error)  “è molto sfidante per le agenzie”. “Questi errori possono essere originati da molte fonti e non c’è consenso su come misurarli”. E tuttavia, “avere uno staff nelle agenzie che analizza gli errori avrebbe certo maggiore capacità informative che avere rapporti statistici che vengono considerati come verità”.

Ciò spiega perché il nostro studioso arrivi a ipotizzare addirittura tre tipi di incertezza statistica: transitoria, permanente e concettuale.

Ecco vedete: una volta rimossa la rimozione, l’incertezza mostra il suo volto di hydra dalle mille teste. Può dubitarsi di ogni cosa, pure di consuetudini mentali come il concetto di dato aggiustato per la stagione (seasonal adjustement) “che porta con sé un tipo di incertezza concettuale alquanto fastidiosa”, visto che “lo scopo della destagionalizzazione è facile da spiegare, ma assai meno da facile da realizzare”.

Nel dettaglio, nota Manski, la destagionalizzazione, nella sua definizione,  si propone di rimuovere le influenze dei eventi prevedibili sugli andamenti stagionali, “ma non si specifica come”.

Sicché tocca agli econometristi trovare il modo, elaborando supercazzole (il testo cita il metodo X-12- ARIMA method) che nessuno ormai sa più spiegare.

E anche qui incontriamo un grande vulnus della statistica: le definizioni. Sappiamo già che sono le definizioni a delimitare l’ambito della rilevazione. Ma come si fa capire il senso di tali definizioni se queste ultime sono di per sé interpretabili?

Ciò spiega perché i tecnici tengano ben chiuso questo vaso di pandora: nessuno ha voglia di parlare di questioni statistiche, materia assai difficile, quando tutti possono parlare di economia, che non è meno difficile ma assai più popolare (e soprattuto remunerativa). In tal modo tutti insieme, appassionatamente, possono parlare di politica.

La lettura del paper di Manski, da questo punto di vista, è assai utile.

In sostanza, ad ogni forma di incertezza analizzata può corrispondere una diversa revisione del valor statistico, che l’autore sperimenta analizzando, fra gli altri, i dati (e i metodi) del Bureau of economic analysis americano che riporta i dati trimestrali del Pil.

Argomento attualissimo, visto che di recente il Bureau ha riportato la stima del Pil Usa nel primo trimestre 2014 americano registrando un inquietante -1%.

Leggendo Manski scopriamo però che nella stima iniziale del pil trimestrale, circa il 25% dei dati necessari al calcolo, specie quelli realtivi al settore dei servizi, non sono disponibili. Le revisioni successive possono essere significative, ma il punto è che “il dato della stima iniziale fornisce una fotografia dell’attività economica che somiglia ai primi secondi di un’immagine Polaroid nella quale l’immagine sia confusa”.

Chiaro no?

Col risultato, nel caso preso in esame dal paper, che una stima del Pil del +2,7, diventa, una volta rivista, del 2%. Il che significa un errore statistico dello 0,7%. Altro che il nostro misero 0,1%.

Solo che mentre si spendono fiumi di parole e di inchiostro sui dati statistici, solo pochi addetti lavori sprecano tempo a parlare di della loro incertezza. E a questo punto dovrebbe essere chiaro perché.

Ciò, malgrado tali errori abbiano conseguenze importanti sull’economia. E anche questo dovrebbe esser chiaro. “Fino ad ora – nota l’autore citando Croushore – gli studiosi di macroeconomia hanno ipotizzato che le revisioni dei dati statistici fossero di piccole entità ed episodiche, e che comunque non avessero effetti sui modelli economici, le analisi e le previsioni. Ma i ricercatori hanno mostrato quanto questa assunzione sia falsa e che le revisioni dei dati possono avere influenza per diverse ragioni”.

Bello anche l’esempio: nel gennaio 2009, nel mezzo della crisi iniziata a settembre 2008, la stima iniziale sul Pil evidenziò un declino del 3,8% (a tasso annuale) nel quarto trimestre, ma un mese dopo il dato fu rivisto al ribasso del 2,4%, mostrando un declino del Pil reale del 6,2%. “La revisione di 2,4 punti fu la più ampia mai registrata sul dato trimestrale – nota – è questa larga revisione è arrivata proprio in un momento inopportuno”.

O forse no. Vi ricordo solo che due mesi dopo la Fed, già partita da fine novembre 2008 con il suo QE, aveva raggiunto quota 1,7 trilioni di acquisti di MBS, spinta certo dalle pressanti necessità di rivitalizzare l’economia.

Lungi da me voler fomentare la dietrologia. Ma – vedete – i grandi numeri offrono grandi opportunità.

Basta saperle cogliere.

(2/fine)

Leggi la prima puntata

I nuovi mostri: l’economia di guerra della Fed e i suoi danni (ai) collaterali


Prendiamo fiato un attimo e mettiamoci qualcosa di pesante. Qui, a quota 6 trilioni di euro, dove finisce il mercato europeo dei repo, l’aria inizia a farsi frizzantina e magari pulsano le orecchie per l’altura e i polmoni, ormai in debito d’ossigeno, bruciano. Ma non spaventatevi, siamo a buon punto. Rimane l’ultima vetta, quella più ostica. Dobbiamo arrivare lassù, dove tutto è cominciato quasi cent’anni fa e dove tutto, necessariamente, finirà: il mercato americano: quota 10 trilioni di dollari.

Mentre la guerra infuria nella vecchia Europa, nel 1917, la Fed, che un nugolo assai ristretto di banchieri americani, fra i quali importanti attaché del mitico J.P Morgan, avevano disegnato sette anni prima nell’ormai celebre vertice svolto a Jeckyl Island, celebra il suo quarto compleanno.

Gli storici si compiaceranno di notare, anni dopo, l’incredibile rassomiglianza fra il progetto di Jeckyl Island e lo statuto della Fed. Ma a noi europei, ormai rotti alla consuetudine che siano i banchieri a scrivere le leggi che li riguardano, tale singolarità parrà ingenua.

Nel 1917, quindi, la Fed, celebra il suo quarto compleanno e insieme inaugura una nuova tecnica bancaria, al fine, scrive pudica la Bundesbank nel suo studio sul mercato dei repo, “di far arrivare prestiti alle banche”. Il repo, come abbiamo visto, è uno degli strumenti della politica monetaria. Serve a far arrivare liquidità a breve ai mercati e, indirettamente, influenzare i tassi. Perché mai allora dovremmo stupirci?

Perché nel 1917 anche l’America era in guerra, non soltanto l’Europa. Se inventare i repo doveva servire solo a far arrivare prestiti alle banche perché allora non pensarci prima?

Gli eventi storici ci danno una chiara spiegazione. Il 4 aprile 1917 presidente americano Wilson presentò al Congresso la proposta di entrare in guerra; il 6 aprile gli Stati Uniti dichiararono guerra alla Germania. E cosa fa la Fed?

Fra l’aprile e il giugno del 1917 i Bills, cioé i titoli del Tesoro Usa a breve termine, scontati dalla Fed aumentarono del 526%. Quelli acquistati direttamente del 192%. Per converso gli acquisti di titoli di Stato diminuirono del 44%. In pratica la banca centrale inizio ad accettare titoli a breve come collaterale scambiandoli con liquidità. Ecco l’atto di nascita del mercato dei repo. Che tutt’oggi, non a caso, si fonda in larghissima parte proprio sui Treasury. Un’altra conferma della vocazione delle banche centrali a fare economia di guerra.

Tanta liquidità servì al governo americano a finanziare la guerra pure al prezzo della prevedibile inflazione, e pure a vincerla, evidentemente. E siccome lo strumento si dimostrò efficace, le Fed e le banche continuarono ad usarlo per tutto il decennio successivo, i ruggenti anni Venti del credito a go go. Grazie ai repo, si poterono originare i prestiti che condussero alla straordinaria crescita di Wall Street prima del ’29.

Perché, vedete, alla fine questo straordinario strumento di politica monetaria e, conseguentemente di circolazione finanziaria, porta con sé la solita spiacevole controindicazione: alimenta l’appetito. Essendo il modo più semplice e veloce per far girare i soldi, anche perché assicurato dal collaterale, è anche, inevitabilmente il più pericoloso perché induce la convinzione che i propri collaterali troveranno sempre un qualche fornitore di liquidità. Mentre, e lo abbiamo visto anche di recente, la liquidità a volta, quasi magicamente, scompare. E perciò un mercato costruito per essere liquido rischia di essere distrutto, da un evento del genere. L’essiccarsi della liquidità, infatti, distrugge gravamente il valore dei collaterali che, non trovando acquirenti, si deprezzano, richiedendo aumento dei margini di deposito, quindi altri collaterali, fino ad un avvitarsi distruttivo che abbiamo visto all’opera nel 2008, quando venne giù quasi tutto.

Il danno collaterale dei repo, insomma, sono i danni ai collaterali. Quando dopo il crollo di Lehman del 2008, che era molto attivo nel mercato dei repo, si perse la fiducia nei collaterali che non fossero ad alto rating, successe che, non essendovene a sufficienza, le transazioni repo si congelarono, distruggendo altro collaterale e contribuendo alla distruzione di asset di quegli anni.

Ma facciamo un altro passo indietro. L’ondata di moralismo che colpì gli Stati Uniti durante la Grande depressione, fece finire fuori moda i repo per tutti gli anni ’30 e persino durante la Seconda Guerra mondiale. La Fed li tirò fuori di nuovo solo nel 1949. Ma fu solo nel 1951, dopo che il Congresso approvò il Treasury Federal Reserve Accord, che sanciva l’indipendenza della Banca centrale assegnandole la responsabilità della politica monetaria, che “i repo divennero nuovamente attrattivi”, come nota la Buba.

Il resto del mondo arrivò ai repo solo molto più tardi. Nel 1970 alcuni paesi iniziarono a fare transazioni repo per fare politica monetaria. Nella Gran Bretagna i primi repo che usavano come collaterale obbligazioni del governo avvenero nel 1997, proprio come in Giappone, e un anno dopo ci arrivò anche la Svizzera. L’Eurosistema iniziò a farne uso sin dal 1999, quindi dal primo istante di vita dell’Unione monetaria. E ciò spiega perché il mercato europeo dei repo sia così fiorente. E quindi fonte di grandi rischi.

Oggi i repo sono uno strumento fondamentale della politica monetaria, tramite il quale le banche centrali gestiscono la liquidità e orientano il tasso a breve. Il perché è evidente. Essendo la banca central la prima fornitrice di liquidità del mercato, se fa un repo con un soggetto finanziario a un certo tasso x, tutti gli altri operatori dovranno avvicinarsi a questo tasso per le loro operazioni simili. Inoltre, molte banche centrali usano i repo per gestire le loro riserve. Insomma: sono il passato, il presente e il futuro.

Dovremmo inquietarci per questo?

Non so voi, ma quando leggo nello studio della Buba che “durante la crisi questo processo (di trasmissione monetaria, ndr) si è quasi interrotto, costringendo il consiglio della Bce ad adottare misure straordinarie” un po’ m’inquieto. Mi prende quel capogiro che ogni tanto viene ad alta quota, e mi vorrei disteso sulla spiaggia a prender sole, piuttosto che vagare a certe altitudini.

Comunque sia, queste misure decise dalla Bce, ossia la fissazione di tassi fissi per i rifinanziamenti e l’allargamento dei collaterali ammessi per i repo, hanno avuto come controindicazione che si è ridotto il turnover nel mercato dei repo. Ossia che si sono fatti meno contratti. Ed è facile capire perché: se posso attingere direttamente alle Bce a prezzo fisso e con collaterale meno pregiato, non mi metto certo a cercare una controparte commerciale per trovare la mia liquidità. Ecco un altro caso di “glaciazione”, prodotto dall’azione della banca centrale.

Ma eccoci quasi arrivati: s’intravede quota 1o trilioni, circa il 70% del Pil americano. Quassù, ci dice la Buba, il mercato dei repo è pressoché predominato dai Treasury Usa, ma c’è spazio anche per gli Mbs. Asset verso i quali la Fed non fa mai mancare la sua amorevole assistenza, conscia che una turbolenza sui Treasury o sugli Mbs avrebbe effetti peggiori di quella vissuta dalla carta commerciale nel 2007. Potrebbe distruggere una quantità inusitata di collaterale.

La dipendenza del mercato americano dei repo dai titoli di stato americani è fonte di grande preoccupazione per i regolatori. Ed è facile capire perché: una fibrillazione dei Treasury, come quando c’è stato lo shut down, ha effetti immediati su queste transazioni.

Il mercato repo americano si distingue da quello europeo perché si basa in larga parte sul tri-party repo (circa due terzi) con, quindi sull’interposizione di un mediatore fra le due parti che contrattano l’operazione. In Europa tale ruolo viene svolto da Controparti centrali.

In America dalle banche. Il tri-party repo, scrive la Buba, “è la più importante fonte di finanziamento per le banche d’investimento e i broker, tramite il quale ottengono la liquidità a breve per finanziarie le loro obbligazioni di portafoglio”. Le particolarità di funzionamento del repo americano ha come conseguenza “l’emergere di rischi notevoli di contagio fra operatori, come si è visto nel caso Bear Stears”, scrive la Buba. E tanto basta per caire che stiamo ballando, anche noi europei, sulla solita soglia del vulcano. D’altronde perché stupirsi: a quota 1o trilioni non si può essere al sicuro.

Rilevo una curiosità Nel try-party repo solo due banche sono autorizzate a fare da clearing house. Fra queste c’è l’onnipresente J.P Morgan, che è sempre quella di Jeckyl Island.

E così il cerchio si chiude. L’arma da guerra, il repo, diventa strumento principe della guerra del nostro tempo: quella contro la paura dell’illiquidità e la difesa dei collaterali.

Una volta le armi servivano a difendersi dal nemico.

Oggi quel nemico siamo noi.

(2/fine)

I nuovi mostri: stupori e tremori nel mercato dei repo


Gli alpinisti finanziari, quelli che amano l’aria rarefatta che si respira sulle cime più elevate del capitale fittizio, gli scalatori – perciò  – delle montagne di denaro virtuale che il nostro sistema finanziario ama cumulare, si troveranno a loro agio passeggiando lungo i sentieri tortuosi  e a strapiombo del mercato dei repo.

Da lassù, da quota 10 trilioni di dollari – tanto cubano le transazioni americane di repo – si gode la vista invidiabile di un mondo frenetico e avido, dove le persone sono talmente piccole che non esistono. E anche se esistessero, sarebbero solo puntini luminosi su uno schermo, variabili calcolabili, e, in fin dei conti, ininfluenti. O, di sicuro, assai meno interessanti del liquido circolare di tanta ricchezza, che non ha senso alcuno se non per il suo stesso esserci. Perfetta autocontemplazione di potenza che non diventa, né può diventare, autentico atto economico.

Se poi i nostri alpinisti fossero europei dovrebbero contentarsi di una montagna appena meno irta, un 6.000 miliardi di euro o giù di lì, ma comunque ormai pullulante di vita geroglifica, puramente numeraria, che però tiene in piedi il vostro bancomat e il mio. Perciò gli dei ci scansino dal rischio che prima o poi questa montagna si decumuli, perché rovineremmo con essa, giù in fondo, fino a valle.

Così almeno ci dicono i nostri banchieri centrali, novelli ghostbuster, alla costante caccia dello spettro dispettoso che genera le crisi, inesperienti abbastanza dal capire quanto contribuiscano essi stessi all’evocazione, epperò saccenti dispensatori di allarmi e suggerimenti, sebbene mai una volta abbiano impedito agli alpinisti di provocar valanghe.

Curioso, mi sono inerpicato anch’io, con l’abbigliamento occasionale del turista di spiaggia, lungo i sentieri che conducono lassù dove vive questo nuovo mostro del nostro tempo. Tutt’altro che leggendario peraltro. Vive e lotta insieme a noi. Coi nostri soldi ridotti a carburante per scorrerie da corsari.

M’è venuto in aiuto un pregevole studio della Bundesbank, pubblicato nel montly report di dicembre scorso che mi indica la strada e mi guida e al quale mi affido con dantesca fiducia, iniziando il mio viaggio all’interno del repo-mondo.

Sappiamo già che il repo è una transazione nella quale due parti danno l’una alltra un titolo in cambio di denaro, impegnandosi, la cedente il titolo, a riacquistarlo a scadenza (cd “reverse-repo”). Questa pratica finanziaria, l’italiano “pronti contro termine”, la Buba la considera “la più importante e la più rilevante forma di transazione monetaria assicurata”, ossia basata sull’uso di un collaterale, vale a dire una qualunque obbligazione giudicata solida abbastanza da sostenere una transazione di solito operante nel breve termine. Come ad esempio , titoli di stato americani o gli Mbs, che abbiamo già visto  reggono il mercato Usa dei repo, con tutte le controindicazioni del caso.

Di solito questa transazione si svolgono bilateralmente. Ma se interviene una terza parte, ad esempio una clearing house o una banca di clearing, si parla di triparty-repo. Questa pratica, negli Stati Uniti occupa la maggior parte del mercato repo. Va sottolineato che la parte che ha preso il titolo in cambio di denaro può, fino a quando non deve restituirlo, utilizzarlo a sua volta per fare altre transazioni repo. Ciò provoca che la catena del credito/debito, possa allungarsi indefinitivamente fino alla scadenza, coinvolgendo altri soggetti.

Si parla, in questi casi, di “re-hypothecation”. L’allungamento della catena aumenta, proporzionalmente, il rischio di controparte (ossia che qualcuno non paghi). Per questo la Buba sottolinea che “può essere problematica per la stabilità finanziaria”. E’ in questa lunga catena che nascono e si consolidano i rapporti fra le banche e le banche-ombra, ossia il peggior incubo dei regolatori.

Le transazioni repo vengono utilizzate dalle istituzioni finanziarie, quindi innanzitutto le banche, dai commercianti di obbligazioni, come i broker, e in generale da tutti i partecipanti al mercato dei capitali, per gestire in maniera efficiente la liquidità. Che poi significa che chi si trova in eccesso di fondi li presta a chi ne è a corto, coprendo il rischio del prestito col collaterale.

Peraltro, essendo il monitoraggio dello stato globale della liquidità essenzialmente una questione di politica monetaria, il mercato dei repo riguarda direttamente l’attività delle banche centrali, che di tale politica sono le depositarie. E ciò spiega perché la Buba ci abbia regalato un approfondimento.

L’aumento dell’importanza relativa del mercato dei repo è una delle conseguenza della grande crisi del 2008. Prima i commercianti di liquidità si affidavano all”unsecured money per i loro fabbisogni, ossia ai prestiti non garantit da collaterali, ma poi il panico del 2008, seguito al fallimento di Lehman, che era una delle controparti di questo mercato, prosciugò letteralmente questo mercato, spingendo i partecipanti verso la secured money, ossia i repo.

Le nuove regole che spinsero verso l’uso delle Controparti centrali hanno travasato dal settore OTC a quello regolamentato su piattaforma elettronica gran parte di queste transazioni. Ciò anche in quanto “il volume dei repo OTC è significativo e il processo non è molto trasparente”. Questo, unito al crescente utilizzo di questo strumento, ha aumentato l’attenzione sulla sua evoluzione, anche in ragione della possibilità che subisca gli effetti dell’annunciata tassazione sulle transazioni finanziarie.

“In Europa – scrive la Buba – il mercato dei repo è cresciuto rapidamente in termini di valore”. Un grafico mostra che fino al 2001 le transazioni repo europee non arrivavano a cumulare neanche 2 trilioni di euro. Ma poi accade qualcosa: il mercato letteralmente esplode. La curva si impenna toccando l’apice dei 7 trilioni fra il 2007 e il 2008.

Sulle ragioni di tale esplosione si può solo congetturare e affidarsi ai dati della Buba, che nota come “per le banche multinazionali tedesche i repo sono considerabilmente più importanti che rispetto all’industria bancaria tedesca nel suo complesso”. Quindi di sicuro hanno contribuito non poco alla crescita del mercato. Dai dati emerge che prima della crisi questa multinazionali bancarie gestivano il 60% del totale delle transazioni repo tedesche, per poi crollare al 35%.

La crisi riduce il volume delle transazioni sotto i 5 trilioni nel 2009. Quindi la ripresa, fra il 2010 e il 2011, quando torna a 7 trilioni, e il ritracciamento, provocato dalla crisi degli spread nel 2011, che lo riporta al livello attuale, di circa 6 trilioni.

“Il business dei repo europei – sottolinea la Buba – è molto concentrato, con 20 istituzioni che trattano circa l’80% dell’intera attività”. Il problema, spiega, è che “l’infrastruttura di mercato è profondamente frammentata”, anche perché le infrastrutture di mercato operano sia a livello nazionale che internazionale.

Alle controparti centrali (CCps), infatti, ossia le principali ckearing house europee, si affiancano i sistemi di deposito accentrato, ossia i Central securities depositories (CSDs), che continuano a svolgere un ruolo rilevante nel mercato dei repo, in quanto custodiscono i titoli che collateralizzano queste transazioni. Queste ultime entità, che come anche i CCPs sono entità private, agiscono su un doppio livello, sia nazionale che internazionale (ICSDs). A quest’ultima categoria appartengono la belga Euroclear e la lussemburghese Clearstream. A entrambe l’unificazione monetaria ha fatto un gran bene, visto che hanno potuto rivolgere le loro gentili cure a tutti i titoli denominati nella valuta unica.

A luglio del 2013 le due ICSDs e le due CCPs più rilevante della zona euro, ossia Clearstream Banking Ag e Eurex Clearing AG, si sono accordate per far funzionare meglio le varie procedure. Vi risparmio il dettaglio tecnico. Lo scopo, ovviamente, è sempre lo stesso: far girare meglio i soldi per poterne fare di più.

L’integrazione europea del mercato dei repo, spinta dall’Unione monetaria da un parte, e dalla stretta cooperazione in fieri fra i colossi del clearing e del depository, ha alzato il livello di attenzione della Bce su tale mercato. anche perché la Banca centrale usa i repo a sua volta per la sua analisi sulla strategie da seguire nella politica monetaria. E fra gli strumenti che la Bce usa ci sono anche le operazioni di rifinanziamento, ossia la fornitura di liquidità alle banche commerciali in cambio di collaterale.

La Bce, insomma, è prima attrice nel mercato del repo, e questo potrebbe spiegare il grande sviluppo di questo strumento a far data dall’inizio dell’Unione monetaria. Sostanzialmente, quando una banca commerciale fa un repo con un’altra banca, non fa altro che replicare quello che, in origine, fa una banca centrale: immette liquidità nel mercato. Si può dire, anzi, che il mercato dei repo è un’invenzione delle banche centrali.

E in effetti è proprio così. La prima banca centrale che inventò i repo fu la solita Fed, nel 1917.

Non a caso in quel tempo l’America era in guerra.

(1/segue)

Il mattone di carta americano torna a far danni


Siccome di rado impariamo dai nostri errori, specie quando sono remunerativi, tendiamo a ripeterli.

Siccome abbiamo la memoria corta, neanche ce ne accorgiamo.

Finchè non è troppo tardi.

Nel mio piccolo mi sembrava giusto, di conseguenza, farvi sapere, visto che ormai l’argomento è stranoto fra regolatori e istituzioni internazionali, che la finanza immobiliare made in Usa, con tutto il suo contorno di cartolarizzazioni e derivati, è tornata ad essere un rilevante rischio sistemico per la stabilità finanziaria internazionale.

Oggi, come nel 2007, gli investimenti sul mattone di carta garantiscono rendimenti stellari, anche fino al 15%, secondo il WsJ, trascurando, allora come oggi, che un tale rendimento porta con sé un rischio equivalente.

L’unica differenza fra ieri e oggi è che all’epoca dello sboom americano, che poi contagiò il resto del mondo, erano in gran parte le banche le dirette protagoniste del ballo del mattone finanziario.

Oggi sono altre entità, società finanziarie di quello shadow banking che tanto preoccupa i regolatori, che sostanzialmente replicano (con il sussidio delle banche, a cominciare dalla Fed e a finire da quelle di investimento) quello che facevano le stesse banche prima della grande crisi. Ossia prendono in prestito a breve termine per finanziare l’acquisto di obbligazioni a lungo termine, quindi molto remunerative, che hanno come sottostante mututi immobiliari.

Over and over, again.

Di questa simpatica deriva mi sono accorto leggendo l’ultimo Financial stability review rilasciato pochi giorni fa dalla Bce.

La nostra banca centrale, dopo aver ricordato la mole di rischi addensati sul capo dell’eurozona, rileva a un certo punto che “tuttavia, al contrario dell’anno scorso, i rischi macro-finanziari che corre la stabilità dell’eurozona sono originati fuori dall’area”.

Non sto a farvi l’elenco. Magari ne riparleremo. Qui mi limito a raccontarvene uno, che mi ha molto divertito.

“Negli Stati Uniti – scrive la Bce – un rischio alla stabilità finanziaria è legato alla rapida espansione dei Mortgage real estate investment trusts (Mreits), che sono vulnerabili alla crescita dei tassi d’interesse a causa della loro dipendenza verso i prestiti a breve termine per finanziare i loro acquisti di Mortgage backed security (Mbs). Una brusca svendita di Mbs, dovuta a un rialzo dei tassi, può esporre le banche a un calo del valore degli Mbs detenuti”.

In sostanza, la stessa storia del 2007. Con l’aggravante che il rischio tassi d’interessi, ossia di un loro aumento, è qualcosa di più di una semplice probabilità, in tempi di exit strategy e di rallentamento annunciato (e subito ritrattato perché catastrofico) di rallentamento, da parte della Fed, del programma di acquisto mensile di titoli cartolarizzati. Che poi sono proprio quegli stessi Mbs sui quali si concentra l’attenzione degli Mreits.

Un corto circuito perfetto: la Fed sostiene un mercato (quello degli Mbs) che tiene in vita, grazie ai tassi bassi sempre voluti dalla Fed, queste società d’investimento che emettono debito (sotto forma di obbligazioni proprie a breve termine garantite dalle banche, spesso collegate a tali società, che le vendono) per comprare debito altrui sotto forma di mutui a lungo termine più o meno cartolarizzati (Mbs).

Il guadagno lo ricavano dalla differenza (spread) fra il rendimento dei titoli che comprano a lungo e il costo dei titoli che emettono a breve. Quelli bravi lo chiamano ROIC (return on invested capital).

Facile come fare due più due.

Tuttavia può essere utile fare un passo indietro.

Cominciamo da una definizione. Un Mreits è una società che investe in mutui residenziali. Una sorta di fondo comune di investimento.

Questa società prende a prestito soldi e con questi fondi compra mutui che vengono impacchettati in Mbs, ossia un’altra obbligazione, che ha un rendimento e una durata. Più è lunga la durata, più è alto il rendimento. La sostenibilità di questa obbligazione, e quindi la sua capacità di essere ripagata alla scadenza, dipende dai mutui che ha sotto.

Vi ricordate i famosi subprime? Ricorderete allora che erano impacchettati in Mbs e Cdo (collateralized debt obligation).

A differenza dei Reits (real estate investment trust) i Mreits non hanno quindi mattone reale sotto i loro investimenti, ma carta.

Soltanto quella.

La tassonomia finanziaria distingue i Mreits in due tipi: quelle che lavorano con gli agency loans e quelle che lavorano con i non agency loan.

I primi lavorano con debito garantito da entità governative, come Fannie Mae o Freddie Mac (le stesse che hanno collassato causa subprime). Poiché hanno la garanzie implicita del Tesoro, questi debiti hanno un rating di credito assimilato a quelli dei bond americani e quindi un rendimento basso.

I secondi (non agency) lavorano con debito “privato”, ossia senza garanzia governativa. Ovviamente, essendo meno garantiti, e quindi più rischiosi, queste debiti devono offrire un tasso più alto agli investitori per incoraggiarli a comprare le loro obbligazioni.

Ciò costringe gli emittenti a spingere sul pedale della leva finanziaria per ottenere un maggior ROIC, aumentando di conseguenza a loro volta i rischi.

Ovviamente lo stesso vale per il Mreits che usa questi asset.

Dopo la crisi, che evidentemente non ha insegnato nulla, queste entità sono letteralmente esplose per numero. La maggior parte stanno negli Usa. Ma ce ne sono anche alcune tedesche.

E così, nell’aprile scorso, i Mreits finirono nel mirino del FSOC, il Financial stability oversight council, un gruppo di regolatori costituiti in seno al Tesoro americano, che se ne sono occupati nell’ultimo annual report.

I tecnici notarono con preoccupazione che queste società di investimento avevano quadruplicato i propri asset fino a più di 400 miliardi dal 2009 in poi.

Secondo Fitch, che al tema ha dedicato un approfondimento nel giugno scorso, l’esposizione di questi veicoli nei confronti degli Mbs sarebbe addirittura di oltre 460 miliardi di dollari. Ma soprattutto è cresciuta enormemente la loro rilevanza sistemica.

Tanto è vero che la Reuters ha rilanciato la notizia pubblicata da Financial Times il 27 ottobre scorso, secondo il quale i Mreit sono finiti anche nel mirino dei regolatori della Fed di New York, dopo che, un mese prima, il Fondo monetario internazionali li aveva classificati come una delle componenti crescenti dello shadow banking.

Il problema è che il debito a breve dei Mreits, sponsorizzato dalle banche rivenditrici, si inserisce nel più vasto mercato dei repo, ossia dei pronti contro termine, che muove circa 4,5 trilioni di dollari.

Un’improvvisa svendita di Mbs, seguita magari a un rialzo dei tassi, può perciò avere conseguenze devastanti proprio per questo mercato, che è vitale per il funzionamento delle grandi banche, che vi si rivolgono per il proprio funding, ponendo come pegno i propri Mbs e altri titoli.

Una turbolenza nel mercato repo avrebbe lo stesso effetto, se non peggiore, di quella registrata nel mercato della carta commerciale agli albori della crisi del 2007.

Dal canto loro, i tifosi dei Mreits sottolineano che il loro lavoro ha contribuito a rilanciare il mercato immobiliare americano, favorendo la domanda di mutui a basso prezzo e, di conseguenza, la domanda di mattone. E infatti i prezzi in America hanno ripreso a salire. 

Sempre per non dimenticare i subprime.

Tanto sarebbe bastato ai regolatori della Fed di New York per decidere di vederci chiaro.

Per la cronaca, la Fed di New York è una filiale della stessa Fed che ha contribuito (e contribuisce tuttora) a far crescere le Mreits e il mercato degli Mbs.

Fare pace col cervello no?