Etichettato: EME
La fragile calma dei mercati internazionali
Dovremmo, come suggerisce il buon senso, rimanere vigili, di fronte all’ennesimo allerta diffuso dalla Bis nella sua quaterly review di dicembre, o dovremmo semplicemente goderci la festa finché dura?
Che poi la festa altro non è che una calma fragile, come l’hanno opportunamente definita gli studiosi di Basilea. Cela profonde perturbazioni che si manifestano in esplosioni di volatilità rapide ed improvvise, che poi rientrano lasciando gli investitori sconcertati.
Una calma, di conseguenza, fragile anch’essa, come i mercati. Esposta ai colpi di vento che un sopracciglio alzato, di questa o quella banca centrale, scatena in un battibaleno facendo vibrare i cuori di mezzo mondo, come è accaduto anche di recente dopo le ultime decisioni della Bce.
Ma poi i cuori si placano. La volatilità rientra e il battito dei mercati torna regolare. Ciò non vuol dire che l’ansia sia diminuita. ” I mercati finanziari hanno fatto una breve pausa. E hanno aspettato. Hanno aspettato con il fiato sospeso”, come nota Claudio Borio, capo del dipartimento monetario della Bis commentando le cronache dell’ultimo trimestre. L’attesa cui Borio fa riferimento è quella che accompagna l’indecisione della Fed, che ormai sembra vicina a rialzare i tassi, esacerbando le divergenza monetaria con le altre banche centrali dei paesi avanzati che sembra fatta apposta per alimentare, domani, nuovi batticuore, sempre più violenti.
Anche perché, osserva ancora Borio, “dietro la calma ostentata dai mercati si scorgevano segnali di disagio. Ancora una volta è stato evidente il contrasto perenne fra il ritmo frenetico dei mercati e quello al rallentatore delle forze economiche più profonde, quelle che contano davvero”.
E le forze che contano davvero ci descrivono un mondo dove “le prospettive di breve periodo delle economie emergenti (EME)”, ossia delle economia che sono più a rischio in questa fase tormentata, “sono rimaste pressoché invariate” e dove “i prezzi delle materie prime, compresi petrolio, rame e minerali ferrosi, sono precipitati a nuovi minimi“, aggiungendo tali ribassi complessità proprio alle economie emergenti che dalle commodity traggono buona parte del loro sostentamento.
Se dal breve periodo guardiamo al medio, scopriamo che anche qui “le prospettive non sono cambiate – e come avrebbero potuto? Le vulnerabilità finanziarie nelle EME, in particolare, non sono venute meno. Lo stock di debito denominato in dollari, che dagli inizi del 2009 è quasi raddoppiato a più di 3.000 miliardi di dollari, non è diminuito. Anzi, in termini di moneta nazionale il suo valore è addirittura aumentato parallelamente all’apprezzamento del dollaro USA, andando a gravare sulle condizioni finanziarie e sui bilanci”. Tantomeno è diminuito lo stock di debito interno “cresciuto a dismisura dopo la crisi”.
Tali cambiamenti profondi si stanno incistando anche nei mercati a reddito fisso. “Sorprende ad esempio che, nonostante il più elevato rischio di credito che incorporano, negli Stati Uniti i tassi swap siano risultati persino inferiori ai corrispondenti tassi dei titoli del Tesoro”, ravvisandosi con ciò un “sintomo di debolezze più profonde”. A cominciare da quelle bancarie. “Le azioni bancarie vengono ancora scambiate a sconto rispetto al valore nominale – sottolinea – un chiaro segnale di mancanza di fiducia e di scetticismo. Nell’area dell’euro, in particolare, i crediti deteriorati sono eccessivamente alti. Occorrerebbe procedere risolutamente nel risanamento dei bilanci”. Che non è esattamente una cosa semplice.
Di tali problematiche profonde, la superficie dei mercati rilevata quotidianamente dalle varie borse, rivela solo sottili increspature che la volatilità trasforma in occasionali ondate di piena. Mentre, sullo sfondo, “i tassi di interesse hanno continuato a essere eccezionalmente bassi”: persino quando la Fed sembrava vicina a un rialzo, i rendimenti del decennale Usa oscillavano intorno al 2,2%, mentre nella zona euro, ormai quasi 2.000 miliardi di obbligazioni sovrane, circa un terzo del totale, vengono scambiati a tassi negativi. “I tassi di interesse correnti e attesi hanno proseguito giorno dopo giorno a mettere alla prova i confini dell’impensabile, e ciò malgrado il tono noncurante di buona parte degli osservatori. La familiarità ingenera compiacenza”.
Tale compiacenza, però, non è indice di buona salute, neanche mentale. ” Vi è una chiara tensione fra il comportamento dei mercati e le condizioni economiche di fondo – osserva ancora -. A un certo punto tale tensione dovrà risolversi. I mercati possono ostentare calma molto più a lungo di quanto pensiamo. Fino a quando, di colpo, non riusciranno più a farlo”.
E sarà allora che la fragile calma dei mercati metterà a dura prova la nostra.
L’emersione degli Emergenti diventa un emergenza
I rigori dell’autunno hanno iniziato a spirare assai prima di quanto comandasse il calendario sull’ampia panoplia che raccoglie i cosiddetti paesi emergenti. I disordini sui mercati cinesi, e adesso quelli che agitano il Brasile, sono solo la punta di un iceberg ben piantato sui fondali della finanza e che oggi le cronache riportano all’attenzione dei distratti, ossia tutti coloro che finora non hanno voluto vedere ciò che era evidente da diverso tempo.
Sicché si moltiplicano gli allarmi, e non a caso. L’ultimo l’ha lanciato la Bis nella sua quaterly review di settembre, che alle vulnerabilità delle economie emergenti dedica un approfondimento. E’ opportuno leggerlo per non dire, domani, che l’iceberg sul quale il Titanic dell’economia internazionale rischia di infrangersi non fosse chiaramente visibile.
Al momento l’emergenza degli Emergenti viene declinata nella possibilità di un rallentamento dell’economia globale, ossia l’evento che più di tutti si teme, visto che il calo del prodotto ha influenze nefaste sulla sostenibilità dei debiti. E giocoforza, poi, occuparsene, quando ormai si è alla vigilia di una sempre più ipotizzata inversione del lungo ciclo accomodante della politica monetaria Usa, alla quale così tanto devono i cicli finanziari di queste economie.
La cronaca ci racconta che la svalutazione cinese ha avuto un effetto analogo sulle principali valute dell’area asiatica, e poi di altri EME accrescendo insieme i timori degli investitori per la tenuta di queste economie a fronte di un paventano quanto probabile raffreddamento del gigante cinese.
A farne le spese, fra le altre cose, le quotazioni dei prezzi delle materie prime, petrolio in testa, spinte al ribasso dal timore di un rallentamento della domanda, da un lato, e da un aumento dell’offerta, dall’altro, a sua volta dovuto, secondo quanto ipotizza la Bis, anche a fattori di natura finanziaria, a cominciare dall’alto livello di debiti delle compagnie petrolifere.
Il calo delle materie prime ha aggravato il deprezzamento dei cambi, aumentando la pressione di molti paesi sul lato della bilancia dei pagamenti. L’apprezzamento del dollaro, valuta nella quale sono denominati circa 9.600 miliardi di debiti esteri gran parte dei quali in pancia di aziende degli EME, suscita non poche perplessità sulla capacità che avranno questa compagnie di servire i loro debiti, in un contesto di redditi declinanti, come il rallentamento della crescita lascia temere.
Ciò che ne risulta è un avvitarsi dei fattori di crisi che rischiano di spingere queste economie verso forme disordinate di deleverage.
Il caso cinese, in tal caso, è icastico. Dopo un boom borsistico durato un anno, l’indice Shangai Shenzhen ha perso un terzo del suo valore fra il 12 giugno e l’8 luglio. Prima di allora, incoraggiato dall’allentamento monetario della Banca centrale cinese, il volume giornaliero delle contrattazioni era stato in media di 300 miliardi di dollari, ossia sei volte la media del 2014. Questo boom, per non dire bolla, è stato in gran parte alimentato dall’apertura, nella prima metà del 2015, di ben 56 milioni di conti di negoziazione aperti da investitori al dettaglio, che hanno portato il volume giornaliero a ben 360 miliardi ai primi di giugno.
L’esplosione della bolla, conclamatosi ad agosto, si è sommato alla decisione della banca centrale di svalutare lo yuan che se gli ottimisti hanno salutato come un passo in avanti verso l’inserimento della valuta cinese nel grande gioco del mercato dei capitali, altri hanno letto come la conferma che l’economia del gigante asiatico è soggetta a sinistri scricchiolii.
La borse, nei giorni successivi, hanno tramutato questi timori in vendite disordinate e in un notevole aumento della volatilità, che si estesa dai mercati azionari a quelli obbligazionari, valutari fino a quelli delle materie prime. Nulla che non fosse prevedibile.
“Se ora ci mettiamo comodi – ha detto Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis commentando la review di settembre – e guardiamo agli eventi come a un film, il loro significato diviene più chiaro. Nel grande ordine delle cose, gli eventi correnti erano già prefigurati dall’andamento precedente dell’economia mondiale”.
“I flussi di credito alle EME – osserva – avevano cominciato a rallentare il passo già nell’ultimo trimestre 2014, e in seguito si sono indeboliti ulteriormente, pur in presenza di un rafforzamento di quelli verso le economie avanzate. I dati evidenziano cioè una biforcazione della liquidità globale, con una debolezza particolarmente marcata del credito a Cina, Russia e, in misura minore, Brasile. A questo riguardo il credito denominato in dollari Usa gioca un ruolo fondamentale. Il credito totale in dollari a prenditori non bancari fuori dagli Stati Uniti è aumentato di oltre il 50% dagli inizi del 2009, portandosi a $9.600 miliardi a fine marzo 2015, ed è quasi raddoppiato, a più di $3.000 miliardi, nel caso delle EME. Esso è fluito in buona parte alle imprese, sollevando seri interrogativi riguardo alle vulnerabilità finanziarie che comporta e alle implicazioni per i movimenti autorafforzanti dei tassi di cambio e degli spread creditizi”.
Ma è la conclusione che dovremmo tenere a mente: “Da almeno il 2009, tuttavia, sono andate formandosi vulnerabilità all’interno di varie EME, comprese alcune delle maggiori, e in misura minore anche in alcune economie avanzate, soprattutto quelle esportatrici di materie prime. Più specificamente, questi paesi hanno evidenziato segnali di accumulo di squilibri finanziari sotto forma di boom eccessivi del credito accompagnati da forti aumenti dei prezzi delle attività, in particolare quelli immobiliari, favoriti da condizioni globali di liquidità insolitamente abbondanti. È all’inversione di questi boom, in presenza di vulnerabilità esterne, che dovremmo rivolgere la massima attenzione. Non stiamo assistendo a scosse isolate, bensì al rilascio di pressioni accumulatesi gradualmente nel corso degli anni lungo importanti linee di faglia”.
Il terremoto, perciò, cova più o meno silenzioso, nei bassifondi di una realtà “in cui i livelli del debito sono troppo elevati, la crescita della produttività troppo debole e i rischi finanziari troppo minacciosi”. Una realtà, per giunta “in cui i tassi di interesse sono straordinariamente bassi da tempi eccezionalmente lunghi e in cui i mercati finanziari hanno sviluppato una preoccupante dipendenza dalla minima parola o azione delle banche centrali, rendendo a loro volta più complessa la necessaria normalizzazione delle politiche monetarie. È irrealistico e pericoloso aspettarsi che la politica monetaria possa curare tutti i mali dell’economia mondiale”.
E’ irrealistico. Ma succede.
