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La deglobalizzazione non ferma il commercio estero tedesco
Infischiandosene bellamente del ciclo degli scambi internazionali avverso e dell’antipatia crescente nei confronti del proprio successo, il commercio estero tedesco raggiunge un altro record ad agosto, mostrandosi l’export in crescita di quasi il 10% rispetto ad agosto 2015. I dati pubblicati pochi giorni fa dall’istituto tedesco di statistica dicono anche altro.
In particolare, è degna di nota la circostanza che la crescita del commercio internazionale tedesco in agosto abbia riguardato sia l’export (+9,8%) che l’import (+5,3%). A livello aggregato, nei mesi da gennaio ad agosto l’export ha superato i 795 miliardi, a fronte dei 789,7 dello stesso periodo del 2015, +0,8%. L’import invece è cresciuto zero rispetto al periodo gennaio-agosto 2015. La Germania sta esportando di più, insomma, ma non così tanto di più.
Sul versante del conto corrente, il saldo attivo sul conto delle merci (gennaio-agosto 2016) è arrivato a 185,4 miliardi, 22,2 dei quali solo ad agosto, a fronte dei 172,2 del 2015, 16,9 dei quali ad agosto 2015. Rimane negativo il saldo dei servizi, più o meno al livello del 2015 (-20,2 mld nel gennaio-agosto 2016 e a fronte dei -20,4 del 2015), mentre risultano in crescita i redditi primari, che misurano il rendimento degli investimenti esteri tedeschi, da 32,7 mld a 36. Risultato, il surplus di conto corrente aumenta ancora: a 17,9 mld nell’agosto 2016 a fronte dei 14,4 di agosto 2015, cumulando 175,4 mld da gennaio 2016 a fronte dei 156,5 di gennaio-agosto 2015.
Infine, vale la pena osservare come sia mutata la geografia dei partner tedeschi. Rispetto ad agosto 2015, la crescita ad agosto 2016 è stata del 10% rispetto all’Ue, con una maggior crescita per i non euro (11,8%) rispetto ai partner dell’EZ. Se guardiamo all’aggregato gennaio-agosto, si approfondisce il solco fra la crescita dell’export dell’UE fuori dall’euro (+4,3% vs +1,6%), e si rileva un calo dell’1,8% nei confronti dei paesi terzi, ossia non europei.
La fortuna della Germania, insomma, è dipesa in questo 2016 più dall’Europa che dal resto del mondo. E forse, paradossalmente, questo è un altro segno della deglobalizzazione, non il contrario.
Verso la globalizzazione 2.0
Il fenomeno ormai è talmente visibile che nessuno prova neanche più a minimizzarlo: l’idea stessa della globalizzazione, prima ancora delle pratiche che la incarnano, è definitivamente entrata in crisi nel mondo dopo il 2008. La cronaca si incarica di confermare queste evidenza praticamente ogni giorno. Da ultima l’Ocse, pochi giorni fa, ha elaborato l’ennesimo rapporto che evidenzia il sostanziale regresso del commercio internazionale, ossia una delle costituenti della globalizzazione, mentre l’altra, la libera circolazione dei capitali, viene seriamente questionata da osservatori insospettabili e blasonati.
Comprensibile che molti si stiano ponendo il problema di invertire questa tendenza verso la disgregrazione provando a immaginare una nuova evoluzione del concetto di globalizzazione che sia in qualche modo ulteriore rispetto a quella che abbiamo visto sinora. Una globalizzazione 2.0, per usare la dizione che Benoit Couré, componente del board della Bce ha recentemente utilizzato in uno speech recitato a margine di una conferenza a Parigi da titolo di per sé assai eloquente: “Rethinking Capital Controls and Capital Flows“.
Diventa perciò interessante leggere l’opinione di Couré, che in qualche modo sommarizza pensieri e preoccupazioni di tutto un mondo che la globalizzazione ha promosso e voluto e che adesso si trova a doverne gestire le conseguenze non previste. “La crescita della globalizzazione – ricorda – è un fenomeno che ha caratterizzato gli ultimi 30 anni e che all’indomani della crisi è entrata in stallo”. Non è ancora chiaro, dice, “se i recenti episodi caratterizzino una nuova era di minore integrazione, segnalando l’inizio di un trend di deglobalizzazione, o se sia semplicemente una pausa”. Ma rimane il fatto che il consenso prevalente fra gli economisti e le organizzazioni internazionali, per lungo tempo, fosse sulla circostanza che “la globalizzazione finanziaria fosse desiderabile”. A differenza di allora, adesso gli stessi sostenitori riconoscono che in presenza di mercati imperfetti e pratiche regolatorie inadeguate “gli afflussi di capitale alimentano costosi cicli di boom e bust” che finiscono col danneggiare l’economia.
La soluzione allora è tornare ai controlli di capitale? “Credo – risponde – che ridurre l’integrazione finanziaria riduce i sintomi, senza però risolvere il problema alla radice. Peggio ancora, il rimedio del protezionismo finanziario a, proprio come quello del protezionismo commerciale, genera effetti avversi che riducono la crescita potenziale. Per questa ragione non serve una deglobalizzazione, ma una globalizzazione 2.0”.
Questa nuova globalizzazioni dovrebbe declinarsi lungo tre parole d’ordine: “Efficient, enduring ed equitable”, che potremmo tradurre con efficace, resiliente ed equa. Le tre E della globalizzazione 2.0. In teoria sembra tutto molto semplice. Avere una globalizzazione finanziaria efficiente vuol dire favorire i flussi di capitale che si indirizzano verso usi produttivi, piuttosto che su strumenti che favoriscono i boom e i bust. Renderla resiliente significa monitorare questi flussi e avere la capacità di modificarli, se necessario. Infine, equità va intesa nel senso di evitare che abbiano effetti distributivi non desiderabili, che finiscano ad esempio con l’aumentare la diseguaglianza. In pratica, tutto il contrario di quanto è avvenuto finora.
Rimane da chiedersi se il fatto che i nostri massimi decisori abbiano raggiunto questa consapevolezza voglia dire pure che siano in grado di fare tutto ciò che è necessario, per citare il vecchio brocardo di Mario Draghi. E soprattutto se dispongono degli strumenti per riuscire. Couré ricorda le misure di gestione dei flussi di capitale (capital flow management measures CFMs), che includono anche un più stringente uso della regolazione finanziaria, già all’indomani della crisi utilizzati dai vari policy maker. Gli stessi che oggi guardano più benignamente all’ipotesi di restrizioni temporanee ai flussi di capitale.
L’utilizzo di queste pratiche, dice Couré, ha condotto a una diminuzione dei flussi bancari transfrontalieri, anche se è lecito domandarsi se a tale effetto non abbiano contribuito le crisi di fiducia assai più delle misura di contenimento della varie autorità. In ogni caso è apparso chiaro che la globalizzazione finanziaria somigliava poco al magnifico film che nei primi anni 2000 veniva proiettato in ogni dove. Più che un romanzo rosa a lieto fine, somigliava a un film horror a finale aperto.
E così arriviamo ad oggi. Queste autorità, se vorranno ancora avere un senso politico – e la Bce che da almeno due anni lotta con poco successo contro un’inflazione azzerata è fra queste – dovranno essere in grado, oltre a proporre una nuova narrazione, e in fondo questa è la globalizzazione 2.0 – di sviluppare una nuova azione, i cui contorni finora sono appena delineati. La retorica delle tre E (efficient, enduring ed equitable) può andar bene per i titoli dei giornali, ma rischia di rimanere lettera morta. Ciò in quanto alla base di questa nuova visione ci sta la capacità dei singoli paesi di “migliorare la loro capacità di assorbimento”. Che somiglia molto al vecchio concetto di tenere la casa in ordine. “Nell’eurozona in particolare – osserva – le riforme strutturali devono supportare la crescita e migliorarne il potenziale, e questo può succedere solo allocando il capitale nei settori più produttivi. Un ragionamento simile può essere fatto a livello globale, con la differenza che il contesto istituzionale può essere migliorato prima che i flussi finanziari siano liberalizzati”.
Il secondo passo è migliorare la qualità dei flussi di capitale, favorendo quelli a lungo termine, che si immaginano produttivi, invece di quelli a breve termine, che si sospettano speculativi. Ma questo, come sa chiunque abbia conoscenza della storia, è un tema vecchio e mai risolto. Se ne parlava già all’inizio degli anni ’30, e si replicava alla fine dei cinquanta, quando le monete europee divennero convertibili. Oggi, a differenza di allora, si immaginano soluzioni tecniche nuove. Couré, ad esempio, si domanda se non sia il caso di promuovere, tramite le istituzioni internazionali, dei bond indicizzati al tasso di crescita, di cui hanno discusso nel febbraio scorso gli economisti del PIIE. In sostanza si tratta di scambiare flussi di capitale “buoni” con flussi “cattivi”. Ciò per far comprendere che non è il flusso in sé il problema, ma il tipo di flusso che si fa circolare.
Infine, bisogna vigilare per garantire l’equità, altro grande tema che ormai getta benzina sul fuoco che sta consumando la globalizzazione. Piaccia o meno, molte opinioni pubbliche sono convinte che la globalizzazione abbia nuociuto loro, e questo alimenta la voglia di de-globalizzare. A monte del fatto ci sta la constatazione. che Couré non ha difficoltà a riconoscere, che “apertura del commercio e globalizzazione finanziaria sono interconnesse”. Quest’ultima ha reso molto facile a molte multinazionali “di spostare i propri profitti nei paesi a bassa tassazione e agli individui più ricchi di spostare fondi non dichiarati in conti bancari nei paesi off shore”. “Di conseguenza – sottolinea – i paesi hanno visto erosa la loro base di tassazione e hanno avuto meno risorse a disposizione per redistribuire i guadagni che sono derivati dall’integrazione dei commerci”. Anche qui, la soluzione è la cooperazione internazionale.
A ben vedere, quindi, la globalizzazione 2.0 si fonda su un ruolo rafforzato e raffinato degli organismi internazionali, ossia esattamente il contrario di ciò che la vulgata della deglobalizzazione vuole perseguire. Quest’ultima vuole lasciare, i primi vogliono raddoppiare: chi la spunterà? Si accettano scommesse.
L’estate laterale che prepara un autunno obliquo
L’epilogo di quest’estate somiglia alla curva degli indici di borsa che s’agitano convulsi per non muoversi affatto, risolvendosi infine in una linea piatta, ossia la migliore manifestazione possibile dell’incertezza, che, complice il tempo delle vacanze, è divenuta indifferenza. L’estate laterale, come si è connotata quella del 2016, smentisce persino il timore dei rivolgimenti che ancora a luglio scuotevano gli inchiostri dei commentatori e degli analisti. Chi si aspettava il peggio, ha dovuto rassegnarsi alla noia, che forse è peggio del peggio.
E tuttavia sbaglieremmo a distrarci. L’irrisolto si è annidato e già s’avvedono le coordinate lungo le quali andrà a rivolgersi l’inquietudine di fine settembre, quando tutti si sveglieranno del tutto dal sogno zuccheroso delle vacanze. Intanto la grande paura delle banche, che a luglio ci tormentava, oggi pare svanita e anzi si gode dei rialzi effimeri delle borse, che pure l’indomani si trasformano in ribassi, come se gli squilibri profondi dei bilanci pubblici e privati anch’essi fossero in vacanza. Cosa che ovviamente non è. L’estate laterale prepara un autunno obliquo, ed è saggio ricordarlo in questo post che inaugura la quinta stagione del blog. Rimane solo da vedere quale sarà l’angolo di questa obliquità, ma a ben vedere è solo un dettaglio.
Gli unici fatti che hanno una qualche dignità d’osservazione sono le decisioni della Fed, in odore di rialzo dei tassi, e il probabile aborto dei negoziati sul TTIP, dopo che un paio di ministri tedeschi e francesi anno detto che la trattativa di fatto è interrotta. Un altro segnale del disentaglement strisciante che i fatti britannici hanno inaugurato e che dorme in attesa delle elezioni americane.
Di tutto ciò hanno discusso i leader del G20, riuniti in Cina ai primi di settembre, in uno di quei vertici che servono soltanto a mostrare lo iato fra quello che si dovrebbe e quello che si può fare. Ossia poco o nulla. Sollevata all’attenzione internazionale la questione dell’acciaio, che adesso andrà a riempire le cartelle degli sherpa in attesa di una qualche forma di accordo, i cosiddetti grandi sono riusciti solo a ricordarci che l’economia rallenta, concludendo la constatazione che servirà uno sforzo rinnovato, come si ripete da alcuni vertici a questa parte.
Ma aldilà delle dichiarazioni d’intenti, una cosa sembra ormai chiara. La politica, sia essa nazionale o sovranazionale, è semplicemente impotente rispetto alle sfide del nostro tempo. Otto anni e passa di crisi sono troppi per concedere ai policy makers persino il beneficio del dubbio. Sicché l’unica acquisizione che ormai le popolazioni hanno maturato nella parte nascosta della loro coscienza, è che chi comanda non ha la forza di trasformare l’irrisolto in soluzione. Si prende tempo, lubrificando il sistema con la liquidità – le ultime decisioni della Bce sono lì a confermarlo – e si aspetta che questa soluzione arrivi chissà da dove. In questa perdita di fiducia, che poi si riverbera sugli indicatori macroeconomici e finanziari, si individua il vero problema che ne genera un altro, che stavolta è politico: non si cercano più le soluzioni, ma i risolutori.
Chiunque sarà in grado di ristabilirla, questa fiducia, potrà far tesoro del consenso che il popolo, finalmente rassicurato, vorrà tributargli, pure se a costo di chissà quale prezzo. La richiesta di un’economia forte, in una società disgregata come la nostra, finisce sempre col generare la domanda di una politica forte. Pure a costo di sacrificare la libertà al benessere. La domanda di sicurezza economica, proprio come quella di sicurezza tout court, ha poco riguardo per i modi con i quali tale bisogno verrà assicurato.
Buon inizio di stagione.
La fine (illusoria) della globalizzazione
Legami profondi si stanno allentando nel tessuto delicato dell’economia e della politica internazionale. La Crisi, che si declina in continue crisi locali, ha indebolito la cerniera che in questi decenni ha unito gli stati sotto la narrativa incessante della globalizzazione. E se ne vedono le conseguenze. Brexit, per dirne una. Ma poi le varie elezioni europee, che ormai si connotano come un costante referendum pro o contro l’Europa istituzionale. O le elezioni americane, con i loro echi isolazionisti. Poi c’è la Turchia, che mette sul piatto le sue relazioni economiche con l’Europa, mentre decide nel suo modo essenzialmente asiatico di reprimere la sua dissidenza interna. E infine ci sono gli altri paesi emergenti, cui qualcuno di recente ha persino consigliato di usare i controlli sui capitali per limitare le influenze nefaste delle politiche monetarie occidentali.
Sopra ogni cosa campeggia la paura: del terrorismo, delle migrazioni, dello straniero che non ci somiglia, delle banche mezze fallite, della finanza periclitante. In una parola: del futuro. Questi sono fenomeni che raccontano di una semplice tendenza: la disgregazione e l’isolamento. L’esito del bad equilibrium, tema narrativo della quarta stagione del blog che oggi si conclude, è tutto qui.
In gioco ormai è il destino stesso della globalizzazione, ossia l’idea che il contesto istituzionale odierno favorisca l’integrazione internazionale dei mercati e per loro tramite delle nostre società. Questa narrazione è stata declinata con un lessico tipicamente sociologico, che ha impedito di cogliere la natura più autentica del fenomeno. E’ passato il messaggio che la globalizzazione sia solo un fenomeno economico che ha ricadute sociali e politiche. Ma non è così, o almeno non solo. La globalizzazione obbedisce a una pulsione assai più profonda. Per comprenderla non serve la lingua della socio-economia ma quella della fisica. Paradossalmente l’economia contemporanea, che vuole così disperatamente somigliare alla fisica per sentirsi scienza, ha evitato accuratamente di servirsene.
Un concetto, in particolare, descrive assai meglio di altri la sostanza del nostro mondo: l’entanglement. Le relazioni fra le entità socioeconomiche, proprio come accade con le particelle, si sovrappongono implicando correlazioni a distanza illimitate tra le loro quantità fisiche. Il limite estremo di questa rappresentazione è la teoria del caos, che determina il carattere non locale, ma appunto globale, degli eventi che noi percepiamo. Questi ultimi sono rappresentazioni che il nostro intelletto ordina secondo il principio di causalità proprio per renderceli intellegibili, e quindi potenzialmente manipolabili. In tal modo a una realtà sostanziale caotica si sovrappone una verità ordinata secondo la nostra logica, proprio come la pellicola di un film ne rappresenta l’ordito senza però essere il film. E’ solo lo strumento che noi costruiamo e tramite il quale percepiamo il film. In tal senso la globalizzazione è stata la rappresentazione filmica contemporanea dell’entanglement. Ma questo non vuol dire che sia l’unica possibile.
Oggi il bad equilibrium, generando crisi, sta lacerando questa pellicola e messo perciò in discussione il film della globalizzazione, che le società e gli individui iniziano a percepire come un’evoluzione nociva di cui liberarsi, come se isolandosi possano proteggersene. Ma tale illusione, che abbiamo vissuto non più tardi di ottant’anni fa, è perniciosa. Trascura la profondità subatomica dell’entanglement sociale. E’ vero che le relazioni degli individui e delle società sono soggette a rotture traumatiche. Ma questo non vuol dire che a tale rottura corrisponda una separazione autentica. Nessun uomo è un’isola, come scriveva John Donne nel 1624, e tantomeno una società.
Le forze dell’entanglement, una volta dissolta una cornice istituzionale – come nel caso della globalizzazione economica appunto – troveranno altre vie per esprimere la loro potenza. Negli anni Trenta al tentativo autarchico, che stracciò il tessuto delle relazioni economiche fra gli stati, seguì molto presto il conflitto globale. L’entanglement riannodò la società mondiale sotto l’egida delle armi. Ciò in quanto le società evolute sono destinate ad essere interconnesse, per un canale o per un altro. Nessuno può sapere quale sarà il prossimo film che ci racconterà la realtà, ma tutti dovremmo ricordare che verrà proiettato e introiettato dentro ognuno di noi. L’illusione del disentanglement prepara un nuovo ordine istituzionale globale: una nuova manifestazione dell’entanglement.
Si potrebbe discorrere a lungo se l’alba alla quale stiamo assistendo, e che occuperà la quinta stagione del blog da metà settembre in poi, sia l’effetto del bad equilibrium, o semplicemente il suo proseguimento. Ma così facendo ricadremmo nella trappola della causalità, che così tanto ha nuociuto alla nostra intelligenza dei fatti. Sicché l’unico strumento che possiamo utilizzare per raccontare questa evoluzione, pur riconoscendone i limiti – sempre in omaggio a un altro concetto della fisica, ossia il principio di indeterminatezza – è quello dell’osservazione, ricordando però l’insegnamento di Goethe. Non ci proponiamo di perseguire l’esattezza della matematica che, come scriveva nel 1917 Oswald Spengler nel suo Tramonto dell’Occidente, disegna solo forme morte, ossia il contrario di un corpo sociale, ma quella dell’immaginazione: un’immaginazione esatta.
La metafora, l’analogia, l’allegoria, il simbolo: strumenti di conoscenza che rimangono gli unici espedienti linguistici utili a raccontare la realtà e di conseguenza i principali protagonisti della nostra narrazione. Chi conosce la letteratura economica sa bene quanto estensivamente faccia uso di parabole per spiegarsi. Per cui non stupitevi se questo blog continuerà a utilizzarle. Le cronache, che sono meri epifenomeni, saranno come sempre la nostra guida: spie sintomatiche di linee di faglia. Ma dobbiamo discorrere del sostrato spirituale dei fatti economici, pure a costo di risultare fuori tema. E si comincia ricordando che qualunque costruzione matematica – nella quale oggi in fondo si risolve il nostro ragionare economico – implica una visione del mondo, e altresì la stessa scelta della matematica come ingrediente dei nostri ragionamenti. Perciò rompere lo specchio narcisistico nel quale si rispecchia il nostro intelletto quando guarda ai fatti socioeconomici dovrebbe essere lo scopo dell’economista, che però è a sua volta imprigionato in ciò che gli hanno insegnato a pensare, e perciò cieco.
Tale rottura, quindi, arriverà da altrove. Se sarà la violenza bruta dell’illusorio disentanglement a condurre a questa liberazione, o la pazienza illuminata dei più saggi, lo dirà soltanto il tempo. Noi possiamo solo testimoniarlo.
Bon Voyage.
