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L’Ocse continua a importare inflazione dalla Turchia

Gli ultimi dati sull’inflazione turca, con l’indice in crescita del 61,4% a marzo su base annua, confermano la drammatica crescita dei prezzi nel paese, che ormai ha preso un andamento alquanto progressivo. I dati degli ultimi mesi lo manifestano chiaramente.

Gli osservatori temono che l’attuale contesto internazionale, che favorisce i rincari a cominciare da quelli energetici, che incidono pesantemente sulle importazioni turche, provocherà ulteriori peggioramenti per l’inflazione, anche se il governo sembra ancora convinto che la politica di svalutazione perseguita scientemente finirà col generare l’equilibrio del conto corrente, ossia degli scambi con l’estero.

Possibile, ma non probabile, stante l’attuale corso della politica internazionale e la costituzione dell’economia turca, profondamente di trasformazione. Non è certo un caso che l’inflazione sia schizzata dopo che la banca centrale ha abbassato e tenuto fermi i tassi di interesse.

Per quel che ci riguarda più da vicino, gli andamenti dell’inflazione turca finiscono col gravare sull’indice di inflazione complessivo dei paesi Ocse, che a febbraio scorso è risultato in crescita del 7,7% su base annua, in crescita rispetto al 7,2 di gennaio, confrontandosi col dati anno dell’1,7% di febbraio 2021.

“Questo incremento – nota l’istituto parigino – riflette in parte un altro notevole aumento dell’inflazione in Turchia”. E se ricordiamo (vedi tabella sopra) che a febbraio il dato mostrava un accelerazione dei prezzi del 54,4%, possiamo tranquillamente inferire che il dato di marzo di Ocse sarà più elevato di quello di febbraio, che già rappresentava il massimo raggiunto da dicembre 1990. Prima, ossia, che iniziasse la Grande Moderazione degli anni ’90.

Cosa dobbiamo dedurne? Se guardiamo al dato core, ossia depurato da cibo ed energia, osserviamo che comunque è in crescita di mese in mese: dal 5,1% di gennaio al 5,5% di febbraio. E se spostiamo il punto di vista, dai paesi Ocse al G20, notiamo che cambia poco: dal 6,5% di gennaio (sempre annuo) al 6,8% di febbraio, con l’Argentina stavolta a recitare il ruolo della Turchia, che ormai “esporta” soprattutto inflazione nell’area Ocse.

Tutto ciò conferma che la tendenza inflazionistica è robusta e ben incardinata. Dobbiamo augurarci che le aspettative rimangano bene ancorate. Perché l’alternative non sarebbe piacevole. Per nulla.

L’inflazione galoppa sempre più veloce in Turchia

L’ultima release dell’istituto turco di statistica certifica che l’inflazione nel paese continua ad accelerare, avendo ormai superato il 55% su base annua a febbraio, superando quindi il livello di gennaio. Quel mese, infatti, l’inflazione annua aveva superato di poco il 48%, aggiornando il record di dicembre, quando aveva toccato il 36%.

Se si considera che a febbraio non sono ancora visibili le tensioni che intanto stanno deflagrando dopo l’attacco russo all’Ucraina, è del tutto ragionevole temere un ulteriore accelerazione dei prezzi. La qualcosa rischia di rivelarsi insostenibile per il popolo turco.

Se si guarda l’impatto dell’inflazione sui diversi settori, si capisce bene le grandi difficoltà che stanno vivendo i turchi.

Notate gli incrementi superiori al 60% su alimenti, trasporti e forniture per le famiglie. In sostanza tutto ciò che occorre per vivere è rincarato enormemente.

E’ chiaro che il movimento inflazionistico turco risente dell’influenza internazionale, ma se si osserva l’andamento della curva dei prezzi, visibile nel primo grafico, si capisce che l’innesco dei questa esplosione arriva negli ultimi mesi dell’anno, quando sono state compiute alcune scelte di politica monetaria che hanno condotto a una pesante svalutazione della moneta. E poiché molta parte dell’industria turca è di trasformazione, ecco che l’inflazione importata ha determinato la spirale alla quale stiamo assistendo.

Chi pensasse che tutto ciò ci riguardi fino a un certo punto, dovrebbe notare che lo stesso giorno che l’istituto di statica turco rilasciava il suo aggiornamento del dato di febbraio, usciva l’aggiornamento Ocse sui dati di gennaio, che registrava un aumento dell’inflazione nell’area del 7,2% su base annua, il più elevato dal 1991, superando il già elevato 6,6% di dicembre. “Questo aumento riflette in parte un altro forte aumento nell’inflazione in Turchia. Escludendo la Turchia, l’inflazione nell’area OCSE è salita al 5,8%, dopo il 5,5% di dicembre 2021”. E, ricordiamolo, parliamo di gennaio.

A febbraio il peso del peggioramento turco sarà ancora più evidente. In pratica l’area Ocse sta importando inflazione dalla Turchia. E’ come se avessimo un potenziale Venezuela dentro casa, e che dobbiamo per giunta tenerci stretto, visto i tempi che corrono. Non è un buon momento per i nervi delle banche centrali.

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Prima o poi, a furia di evocarla, l’inflazione arriva. E quando vi accorgerete che il vostro conto corrente vale meno e lo stipendio pure poi non dite che non lo sapevate. Provate a calcolare quanto cumula il 2% di inflazione annuo, che poi è il target che dovrebbe centrare la Bce, dopo vent’anni e scoprirete quanto varrà il vostro Btp che oggi vi rende un nulla percento.

Dopodiché ripetete con me: l’inflazione è una cosa bella. L’inflazione ci fa star bene. L’inflazione guarisce le nostre malattie e cura i nostri redditi. E soprattutto i debiti. La sapete la storiella: ce la raccontano da una vita perculandoci pure: tipo aumentare i salari nominali mentre la banca centrale pompa l’inflazione. Trovata geniale di qualche economista defunto che nei bei tempi andati invitava i governi a far salire l’inflazione anziché tagliare i salari perché i lavoratori non ne accorgevano che li stavi fregando. Evito di menzionare il genio perché sennò si scatenano i madonnari. Ore mi direte, maccheccefrega? Di fondo nulla, se non fosse che nell’area Ocse l’inflazione ormai è arrivata al 2,8% e quindi inizia a mostrare la corda la favoletta che possiamo continuare a produrre denaro e distribuirlo come ci pare perché tanto l’inflazione è ferma.

Ecco l’istogramma rosso come l’allarme dei pompieri è quello dei beni energetici che le rassicuranti politiche internazionali hanno fatto schizzare alle stelle. Ma pure se guardate l’indice aggregato, il segnale è chiaro: i prezzi stanno salendo e anche le banche centrali (compresa la nostra che ha annunciato la fine del QE e inizia a ragionare sui tassi a zero) ne prendono atto. Per dire: poco fa persino la Banca d’Inghilterra s’è decisa ad aumentare i tassi dallo 0,50, dove stavano da un’infinità, allo 0,75.

L’estate calda non dovrebbe farci dimenticare che prima o poi finisce, e il risveglio dell’inflazione, unito alle prudenti restrizioni monetarie che si preparano, dovrebbe iniziare a inquietarci, atteso che aumenterà il costo del nostro debito e perdiamo punti anche nell’unica voce che finora ci ha tenuto in piedi. Noi italiani intendo: il commercio. I dati del Pil dell’ultimo trimestre certificano il contributo negativo offerto dall’export alla crescita. E questo, unito alle genialate cui costantemente ci espone il governo del cambiamento spiega bene perché a un certo punto della giornata lo spread sul bund sia tornato a quota 250 dopo aver vivacchiato per giorni fra i 220 e i 230.

Dite che gufo? Per niente. Sono molto fiducioso. Specie da quando ho scoperto che secondo Fimaa e Nomisma, aumentano le compravendite di case vacanze (+3,5% sul 2017) anche se certo i prezzi barcollano (-2,5%). Il fatto che gli italiani spendano ancora per le seconde case nell’anno del Signore 2018 è più che un segnale di ottimismo. E’ pura rassegnazione.

A domani.