Etichettato: invecchiamento popolazione

Cartolina. La crescita italiana

Il suicidio sociale come conseguenza del welfare

Sembra di capire, leggendo un recente working paper della Bce (“Pension and fertilty, back to the roots”), che se la Germania ha uno dei tassi di fertilità più bassi al mondo è tutta colpa di Bismarck che, per primo, impiantò un sistema previdenziale e di welfare sul finire del XIX secolo, potendo contare sulle più che generose riparazioni di guerra imposte alla Francia sconfitta nel 1870 a Sedan.

Ma soprattutto sembra di capire che le nuove frontiere dell’economia, che ogni giorno si preoccupa di stupirci con le sue trovate, somiglino sempre più, queste sì, alle radici dalle quali tale malapianta ha germinato. Quelle che facevano dire a uomini considerati illustri come John Locke, nel XVII secolo,  che “il primo passo per mettere al lavoro i poveri è quello di ridurre la loro dissolutezza”, così come sarebbe stato opportuno che i giovani vagabondi sotto i quattordici anni  finissero in scuole professionali e lì “frustati con energia e tenuti a lavorare fino a sera”.

Perché dovremmo ricordarci, oggi che gli economisti si sono evoluti e parlano con la matematica per non farsi capire, quale sia l’origine della loro disciplina. E solo così comprendere che nel processo di Grande Redistribuzione che si sta delineando, gli economisti faranno quello che hanno sempre fatto: servire il principe con le loro teorie e guadagnarne provvidenze.

Mi guardo bene, com’è ovvio, dal sospettare i paziente economisti della Bce di secondi fini, ulteriori a quello di servire la loro triste scienza. Anche loro, come noi tutti, sono immersi nello spirito del tempo. Ma proprio per questo bisogna leggerli: per capirlo meglio.

E sembra di capire, scorrendo il paper, che le grandi masse occidentali debbano riscoprire la durezza del vivere per riprendere a far figli. Perché la troppa sicurezza ha un effetto deprimente sulla fertilità, conducendo sostanzialmente al suicidio sociale a cui stiamo assistendo, ove masse di anziani, peraltro assai costosi per i bilanci statali, diventano pletorici a fronte di sempre meno bambini, che dovrebbero diventare i lavoratori di domani, ossia coloro che tali fardelli saranno chiamati a sostenere. Le proiezioni immaginano società di vecchi, ormai in maggioranza, e quindi terminali, incamminate perciò lungo la strada dell’estinzione, e per giunta fiscalmente fallimentari. Una sorta di incubo malthusiano.

Ecco perciò che la ricerca teorica torna alle radici. Magari per dirci, un giorno o l’altro, che bisogna fare tanti figli per avere tanta forza lavoro in famiglia e perché, quando saremo vecchi, inabili al lavoro e squattrinati, baderanno a noi. Che è più o meno quello che dicevano i nostri antenati. Sempre a proposito di radici.

Potrei finirlo qui, questo post. Ma poiché vi so appassionati di numeri e ragionamenti, cedo il passo a persone assai più intelligenti di me, ossia ai nostri economisti della Bce.

Costoro hanno gioco facile a ricordare come “l’invecchiamento della popolazione sia considerato una delle principali sfide delle economie sviluppate”, e bisogna “fare i conti con i cambiamenti della popolazione e con le cause”, che “devono essere capite”. E una delle maggiori cause del cambiamento della popolazioni – ossia del loro invecchiamento – è il welfare state che, lamentano “ha ricevuto solo una piccola attenzione nel dibattito accademico”.

E tuttavia, dicono, la maggior parte degli economisti ha chiaro che la sicurezza sociale provoca cambiamenti nei comportamenti, “ad esempio nella decisione di offrire lavoro”. “Il collegamento fra sicurezza sociale e comportamento individuale è stato postulato nella cosiddetta social security hypothesis, e tuttavia è sorprendente che il collegamento fra la sicurezza sociale e altri comportamenti, come la fertilità, abbia ricevuto poca attenzione”.

Senonché la letteratura di genere ha già acclarato che questo link esiste, e che anzi è una variante della social security hypothesis, secondo la quale, appunto, l’intervento dello stato in qualità di fornitore di assicurazioni, siano esse previdenzaiali o sanitarie, cambia la capacità del soggetto di provvedere in autonomia ai rischi che tali assicurazioni sottintendono. Come dire: lo stato allevia la durezza del vivere, e il cittadino la disimpara. Mannaggia.

Ebbene, il paper offre un contributo teorico illustrando come la sicurezza sociale, il welfare, impatti sulla fertilità e, di conseguenza sull’invecchiamento della popolazione, individuando un link microeconomico fra pensioni e tasso di fertilità, che poi viene testato partendo da dati storici risalenti, appunto, alla Germania imperiale di Bismarck, che hanno fornito “un’opportunità unica per l’analisi visto che copre l’intero periodo dall’introduzione della social security”.

Il modello contempla tre opzioni per provvedere agli anziani: risparmio privato, trasferimenti intra-familiari, e sistema pubblico di pensioni. Ma l’assunzione cruciale del modello – nota bene  – è la riduzione dell’offerta di lavoro che consegue alla decisione di una famiglia di avere figli.

“Tale ipotesi implica che c’è un costo-opportunità nel fare figli in termini di redditi futuri non ottenuti” e soprattutto inidividua una sorta di effetto sostituzione figli/pensione in cui la determinante è il tasso di rendimento della pensione stessa. Se il tasso di rendimento interno è alto, costa di più avere figli perché, rinunciando a lavorare si rinuncia non solo ai redditi futuri, ma anche alle relative prestazioni pensionistiche. Il contrario se il tasso di rendimento è basso.

Si potrebbe disquisire a lungo sulla filosofia sottintesa in questa impostazione, per la quale tutto è economico o non è, e quindi gli individui, ridotti a robottini d’accademia, prendono le decisioni solo sulla base del loro desiderio di profitto. Ma ormai avrete capito che non è questo lo scopo del gioco. Lo scopo del gioco è far digerire a tutti noi ciò che ci faranno ingurgitare: un sonoro dimagrimento del welfare, ma sempre per il nostro bene.

Ebbene, i dati tedeschi testati, fra il 1890 e il 1914 mostrano proprio che “un più alto tasso interno di rendimento del sistema pensionistico è associato con un più basso livello di nascite”. “Considerando che l’impatto della social security è aumentato piuttosto che diminuire nel tempo, l’impatto della sicurezza sociale sulla fertilità è diventato ancora più grande”. Talmente grande da non poter più essere sottovalutato.

“In particolare nel contesto di finanze pubbliche sotto stress e un diffuso bisogno di riforme strutturali, riconsiderare il disegno del welfare state sembra una promettente area di sviluppo”, conclude.

Dobbiamo ridurre le pensioni e in generale l’assistenza sociale, insomma, per tornare a far figli, visto che la prole è la ricchezza della nostre società, ormai vecchie e stanche.

Dobbiamo tornare proletari.

Tramonto finlandese

Pure i ricchi finlandesi piangono. Questo mal comune, che di sicuro consolerà gli amanti del mezzo gaudio, dovrebbe preoccupare al contempo non poco chi ha  cuore la stabilità economica. Perché quando un paese che, come ha ricordato di recente Seppo Honkapohja, componente della banca centrale finlandese, “è il solo dell’area euro con un rating sovrano a tripla A e un outolook stabile” suscita preoccupazioni, vuol dire che i rischi ai quali è sottoposta l’economia globale son ben lungi dall’essere superati.

Anche un piccolo paese come la Finlandia, può generare un rischio sistemico.

D’altronde non è una novità. La Commissione europea, nel maggio scorso, ha pubblicato la sua ultima In depth review (IDR) dedicata al piccolo paese nordico che, scrive “sta sperimentando squilibri macroeconomici che meritano di essere monitorati e richiedono azioni politiche”.

Quello che preoccupa, in particolare, è il “sostanziale deterioramento della posizione del conto corrente e la debole performace dell’export, provocata dalla ristrutturazione industriale e dalla perdita di competitività”. Tale situazione “indebolisce la posizione economica del paese compromettendone la futura prosperità, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione”.

La perdità di competitività è stata provocata, fra le altre cose, “dal significativo aumento del costo unitario del lavoro”, mentre, sul versante finanziario, la Commissione registra un preoccupante crescita dell’indebitamento, in particolare quello privato e quello estero.

Qualche numero aiuterà a capire.

Il saldo di conto corrente finlandese, che nel periodo 1992-2008 ha registrato un surplus medio del 4,2% del Pil, con un picco dell’8% nel 2008, dal 2009 in poi ha cominciato a calare trasformandosi in un deficit dell’1,3% nel 2011. Tale deficit si è allargato l’anno successivo all1,6%, ed è previsto in crescita fino all’1,8% nel 2014.

La crisi ha colpito il driver principale del Pil, ossia l’export che pesa circa il 40% sul prodotto del paese, che è peggiorato anche a causa della perdità di competività.

Nell’ultimo decennio, nota la Commissione, la Finlandia ha perso il 23% della sua quota mondiale di export. Ha pesato anche la ristrutturazione del settore industriale. La crisi della Nokia, intanto, ma anche dell’industria della carta, che sta delocalizzandosi in Asia e America Latina.

Come se non bastasse il paese soffre di una notevole dipendenza dalle importazioni di energia, che pesa circa il 20% dell’import.

A ciò si aggiunge l’aumento del livello di indebitamento. Il settore privato, escludendo quello finanziario, ha accumulato debiti fino al 179% del Pil, due terzi dei quali sono in pancia alle imprese. Al contrario il debito pubblico è previsto rimanga sotto la soglia del 60% fino al 2014 (a fronte della media del 46% fra il 1992 e il 2008), anche in virtù di un deficit contenuto. Va detto, tuttavia, che la Finlandia aveva un surplus di bilancio pubblico del 4,4% nel 2008, che è diventato un deficit del 2,5% nel 2010. Il consolidamento fiscale deciso dal governo lo ha ridotto allo 0,6%, ma la Commisione lo prevede nuovamente in crescita, anche se rimarrà sempre al di sotto del 3%.

Ma è l’unica nota positiva di uno spartito stonato.

Il debito delle famiglie, infatti, è un’altra fonte di preoccupazione. Anche se più basso di altri paesi nordici, negli ultimi anni è passato dal 65% del reddito al 118%.

Ma soprattutto è degno di nota che la crescita anno su anno dei debiti non consolidati del settore finanziario, nel 2011, abbia raggiunto il record del 30,8%.

Tale boom si deve per lo più ai movimenti di mercato del portafoglio dei derivati della Nordea bank, ossia la principale banca finlandese (che poi è una succursale di una banca svedese), conseguenza diretta dell’essere la Finlandia un “paradiso sicuro” per gli investitori.

E questo ci riporta al deficit di bilancia dei pagamenti, paradossalmente aggravato proprio dalla tripla A che attira capitali tramite investimenti di portafoglio e quindi, indirettamente, aumenta il debito estero, che era vicino a zero nel 2008 e adesso pesa circa l’1% del Pil.

Sembra poca cosa, ma considerate che nei primi anni del XX secolo la Finlandia era un prestatore netto e aveva crediti (dato 2003) superiori all’8% del Pil.

Tutto ciò si ripercuote sulla posizione degli investimenti esteri (NIIP). Le vicissitudini della Nokia pesano non poco sul flusso degli investimenti di portafoglio, che sono il driver principale dell’andamento della NIIP. “Il 75% delle azioni Nokia sono in mano agli stranieri  – scrive la Commissione – e dato il valore della capitalizzazione ciò ha un effetto rilevante sulla NIIP”. Per la cronaca, la Nokia valeva oltre 100 miliardi in borsa, nel 2007 (a fronte di un Pil di circa 189 miliardi nel 2011, a prezzi correnti), per poi crollare intorno ai 15 miliardi nei tempi recenti. Il calo di questa capitalizzazione ha avuto un effetto positivo sulla NIIP che è diventata leggermente positiva malgrado l’aumento dei investimenti di portafogli esteri in Finlandia e quelle degli investimenti diretti all’estero delle imprese residenti.

Conclusione: “Al momento – scrive la commissione – il deficit di conto corrente è contenuto e la sostenibilità esterna è ancora forte, ma si sta indebolendo: anziché accumulare riserve se le sta mangiando”. Il contrario di quello che dovrebbe fare un paese con una popolazione che invecchia.

Nota a parte merita l’analisi del settore bancario, che nel 2012 ha accumulato asset per il 308% del Pil.

Le banche hanno reagito bene alla crisi scoppiata nel 2009, quando il Pil crollò dell’8,5%. Non hanno avuto bisogno di supporto statale e hanno avuto l’accortezza di esporsi solo limitatamente ai PIIGS. A oggi le banche hanno una buona profittabilità, con un return on equity (ROE) di circa il 10% e  una buona capitalizzazione.

E tuttavia tanta salute nasconde i germi di una nascente fragilità.

L’esplosione di indebitamente registrato nel 2011 (+30,8% sul 2010) “merita un esame attento”, secondo la Commissione, anche perché insieme agli asset sono praticamente raddoppiati anche i debiti del sistema bancario dalla fine degli anni ’90 in poi.

Poi c’è la questione del mercato immobiliare. I prezzi reali sono aumentati del 92% dal ’97 al 2007, meno di altri paesi. Ciò non esclude che “il mercato immobiliare possa rappresentare un rischio per l’economia finnica, anche perché certe caratteristiche del mercato tendono ad amplificare la volatilità”.  E questo, stante l’alto livello d’indebitamento delle famiglie, ha un effetto indiretto sullastabilità del sistema finanziario, vista la quantità di mutui che le banche hanno in portafoglio.

Un’altra fragilità sta nel fatto che “il settore bancario finlandese è altamente concentrato, con Nordea Bank Finlandia che possiede due terzi del totale degli asset”, un caso eccezionale in Europa. La Nordea finlandese, che è una sussidiaria della Nordea svedese, pesa per circa la metà del totale della crescita dei debiti nel settore finanziario e la crescita dei suo portafoglio di derivati, arrivato a valre 166 miliardi a fine 2011,  pesa circa un terzo del totale della crescita dei debiti del settore finanziario finnico. Una fonte di rischi, spiega la Commissione, peraltro concentrata in una banca che è più che sistemica, nella finanza finnica.

Ancora. Sempre lo stato di “paradiso sicuro” della Finlandia ha attirato parecchio depositi dall’estero, che nel 2011 sono cresciuti di 67 miliardi, arrivando per lo più da altri paesi dell’area del Nord che hanno depositato in Finlandia, unico paese “vichingo” aderente all’euro, le loro eccedenze denominate nella valuta unica.

Il totale di queste fragilità nascenti fa concludere alla Commissione che sia necessario “un attento monitoraggio” per i notevoli rischi di contagio e, soprattutto, sui rischi derivanti da improvvisi richiami di capitali dall’estero.

Un deflusso di capitali esteri sarebbe fortemente destabilizzante per la banche.

Cosa ci dicono questi numeri?

Che la Finlandia sta ancora godendo dei suoi frutti della sua lunga estate economica, ma il sole tramonta e l’inverno ormai è alle porte.

Il terribile inverno del Nord.

Il paese sta consumando le sue riserve e aumentando i suoi debiti, mentre la popolazione invecchia e perde quote di mercato estero, ossia la fonte primaria del suo benessere. Segno evidente che i i tassi di crescita medi del 3% registrati fra il 1992 e il 2008 sono ormai un bel ricordo.

Il bilancio pubblico dovrà farsi carico di tutto ciò, in un modo o in un altro, come ricorda bene anche mister Honkapohja nel suo intervento dell’ottobre scorso, secondo il quale “l’economia finlandese soffrirà più altre economie europee gli effetti dell’invecchiamento della popolazione”, che poi significa welfare, quindi pensioni e sanità. E dovrà fare i conti anche con profonde riforme struttruali, innanzitutto del mercato del lavoro, per contenere la perdità di competitività e l’andamento demografico.

“Dobbiamo evitare che siano le pressioni del mercato a forzare il governo a prendere le decisioni necessarie”, ha esortato il nostro banchiere centrale.

Devono evitare, insomma, che accada a loro quello che accade in Italia da vent’anni e nel resto dell’europa del Sud da cinque.

Auguri.