Etichettato: mortgage backed security
Le bugie dei Grandi Numeri: la rimozione dell’incertezza
Dubitare delle statistiche è atto profondamente eversivo, ed è facile capire perché. I grandi numeri sono la base del ragionare economico contemporaneo, e osservare, pure timidamente, che non c’è alcuna certezza che non sia ipotetica nelle astrussime rilevazione dei istituti che se ne occupano, è capace di far franare la costituente stessa delle nostre economie, basate sul calcolo e la congettura, visto che per calcolare e congetturare servono dati certi.
Ora parrà a molti che questo argomentare appartenga alla percezione dilettantesca di chi, come me, sfogli a volo d’uccello questioni così complesse. Eppure, vedete: non è così. Ci sono fior di studiosi che si occupano di questa roba e fra i tanti ne ho scovato uno, Charles F. Manski, che ha pubblicato un Paper per il NBER eloquente già dal titolo: “Communicating Uncertainty in Official Economic Statistics”.
Capirete la mia sorpresa quando ho scoperto che le mie intuizioni malfondate sono meritevoli di disamina “scientifica”, e addirittura di conclusioni così disarmanti: “Non sappiamo essenzialmente nulla su come il processo decisionale (quindi della politica, ndr) potrebbe cambiare se le agenzie di statistica comunicassero con trasparenza e con regolarità l’incertezza statistica”.
Già, l’incertezza.
Perché, vedete, il problema è che tutta la statistica, e la comunicazione che se ne fa, si basa su una sistematica rimozione proprio dell’incertezza di tali rilevazioni, che, al contrario, vengono vissute come stime puntuali sulle quali basare le proprie decisioni. Ciò spiega perché il nostro autore proponga alcuni metodi per rilevare tale incertezza e imparare a comunicarla, al fine di evitare errori.
Ma non è questo il punto focale. Ciò che conta rilevare è che “le agenzie governative di statistica riportano i dati come stime puntuali senza accompagnarle con misurazioni degli errori che possono contenere”.
Ne consegue che “le notizie pubblicate che comunicano le statistiche ufficiali al pubblico presentano le stime con poche o addirittura nessuna menzione sulle possibilità di errori”.
Il dibattito, perciò, spesso si costruisce su dati lanciato in pasto all’opinione pubblica senza un minimo di caveat che potrebbero ridurli a ciò che sono, ossia congetture, e quindi cambiare la natura stessa del dibattito.
Faccio un esempio. Di recente l’Istat ha rilasciato il dato sul Pil del primo trimestre 2014, registrando un calo dello 0,1%, che misurato in valore pesa circa 1,5 miliardi di euro di prodotto in meno. Per giorni non si è parlato di altro, in maniera alquanto demenziale, con le borse terremotate insieme alla salute del governo. Lo stesso copione al contrario l’abbiamo visto quando l’Istat ha rilasciato il dato del Pil del quarto trimestre 2013, quando invece l’indice segnava un aumento dello 0,1%. In quel caso furono applausi e sospiri di sollievo.
Ma cosa sarebbe successo se l’istituto avesse messo come caveat che il valore di uno 0,1% di un Pil, distribuito sull’insieme delle voci del prodotto, può facilmente equivalere proprio al margine standard dell’errore statistico di misurazione?
Come vedete, la rimozione dell’incertezza è funzionale al governo delle nostre società. Perché se dubitassimo dei numeri, non potremmo articolare alcun discorso politico sui numeri, dimostrandosi con ciò che l’economia, che si costruisce sulla statistica, è di per sé un atto politico, in barba ai tanto decantati principi di neutralità e scientificità.
Vale la pena, perciò, continuare a leggere il paper di Manski, se non altro per sentirsi meno soli, quando si pensano certe cose.
Tipo quando scrive che “riportare i dati statistici come stime puntuali è una tendenza comune a molti analisti che tendono a proiettare incredibile certezza (il corsivo NON è mio, ndr), incoraggiando i policy makers e il pubblico a credere che gli errori sono piccoli e senza conseguenza”.
Notate il verbo credere.
“In assenza di un’agency guidance – continua – le persone che capiscono che le statistiche ufficiali sono soggette ad errori devono autonomamente congetturare la magnitudine di questi errori. Così chi utilizza le statistiche ufficiali può mal interpretare le informazioni che le statistiche forniscono”. E questo, aggiungo io, nel migliore dei mondi possibili. Quello, vale a dire, dove uno che legga i dati non si accontenti del numeretto, ma si vada a leggere le definizioni che sostanziano i dati e che spesso dicono cose molto diverse da quello che uno pensa.
La conseguenza di questa situazione è che si parla con la massima certezza di questioni che sono profondamente incerte. E questo lascia ampia margini alla conduzione retorica del ragionare economico, che in tal modo diventa strumentale a quello politico.
“Le agenzie statistiche potrebbero mitigare le interpretazioni sbagliate delle statistiche ufficiali se misurassero l’incertezza e la riportassero nelle loro news release e pubblicazioni tecniche”, visto che “la qualità delle decisioni può risentirne”.
Il problema è che misurare gli errori, campionari o no, (sampling error, o non sampling error) “è molto sfidante per le agenzie”. “Questi errori possono essere originati da molte fonti e non c’è consenso su come misurarli”. E tuttavia, “avere uno staff nelle agenzie che analizza gli errori avrebbe certo maggiore capacità informative che avere rapporti statistici che vengono considerati come verità”.
Ciò spiega perché il nostro studioso arrivi a ipotizzare addirittura tre tipi di incertezza statistica: transitoria, permanente e concettuale.
Ecco vedete: una volta rimossa la rimozione, l’incertezza mostra il suo volto di hydra dalle mille teste. Può dubitarsi di ogni cosa, pure di consuetudini mentali come il concetto di dato aggiustato per la stagione (seasonal adjustement) “che porta con sé un tipo di incertezza concettuale alquanto fastidiosa”, visto che “lo scopo della destagionalizzazione è facile da spiegare, ma assai meno da facile da realizzare”.
Nel dettaglio, nota Manski, la destagionalizzazione, nella sua definizione, si propone di rimuovere le influenze dei eventi prevedibili sugli andamenti stagionali, “ma non si specifica come”.
Sicché tocca agli econometristi trovare il modo, elaborando supercazzole (il testo cita il metodo X-12- ARIMA method) che nessuno ormai sa più spiegare.
E anche qui incontriamo un grande vulnus della statistica: le definizioni. Sappiamo già che sono le definizioni a delimitare l’ambito della rilevazione. Ma come si fa capire il senso di tali definizioni se queste ultime sono di per sé interpretabili?
Ciò spiega perché i tecnici tengano ben chiuso questo vaso di pandora: nessuno ha voglia di parlare di questioni statistiche, materia assai difficile, quando tutti possono parlare di economia, che non è meno difficile ma assai più popolare (e soprattuto remunerativa). In tal modo tutti insieme, appassionatamente, possono parlare di politica.
La lettura del paper di Manski, da questo punto di vista, è assai utile.
In sostanza, ad ogni forma di incertezza analizzata può corrispondere una diversa revisione del valor statistico, che l’autore sperimenta analizzando, fra gli altri, i dati (e i metodi) del Bureau of economic analysis americano che riporta i dati trimestrali del Pil.
Argomento attualissimo, visto che di recente il Bureau ha riportato la stima del Pil Usa nel primo trimestre 2014 americano registrando un inquietante -1%.
Leggendo Manski scopriamo però che nella stima iniziale del pil trimestrale, circa il 25% dei dati necessari al calcolo, specie quelli realtivi al settore dei servizi, non sono disponibili. Le revisioni successive possono essere significative, ma il punto è che “il dato della stima iniziale fornisce una fotografia dell’attività economica che somiglia ai primi secondi di un’immagine Polaroid nella quale l’immagine sia confusa”.
Chiaro no?
Col risultato, nel caso preso in esame dal paper, che una stima del Pil del +2,7, diventa, una volta rivista, del 2%. Il che significa un errore statistico dello 0,7%. Altro che il nostro misero 0,1%.
Solo che mentre si spendono fiumi di parole e di inchiostro sui dati statistici, solo pochi addetti lavori sprecano tempo a parlare di della loro incertezza. E a questo punto dovrebbe essere chiaro perché.
Ciò, malgrado tali errori abbiano conseguenze importanti sull’economia. E anche questo dovrebbe esser chiaro. “Fino ad ora – nota l’autore citando Croushore – gli studiosi di macroeconomia hanno ipotizzato che le revisioni dei dati statistici fossero di piccole entità ed episodiche, e che comunque non avessero effetti sui modelli economici, le analisi e le previsioni. Ma i ricercatori hanno mostrato quanto questa assunzione sia falsa e che le revisioni dei dati possono avere influenza per diverse ragioni”.
Bello anche l’esempio: nel gennaio 2009, nel mezzo della crisi iniziata a settembre 2008, la stima iniziale sul Pil evidenziò un declino del 3,8% (a tasso annuale) nel quarto trimestre, ma un mese dopo il dato fu rivisto al ribasso del 2,4%, mostrando un declino del Pil reale del 6,2%. “La revisione di 2,4 punti fu la più ampia mai registrata sul dato trimestrale – nota – è questa larga revisione è arrivata proprio in un momento inopportuno”.
O forse no. Vi ricordo solo che due mesi dopo la Fed, già partita da fine novembre 2008 con il suo QE, aveva raggiunto quota 1,7 trilioni di acquisti di MBS, spinta certo dalle pressanti necessità di rivitalizzare l’economia.
Lungi da me voler fomentare la dietrologia. Ma – vedete – i grandi numeri offrono grandi opportunità.
Basta saperle cogliere.
(2/fine)
Il mattone di carta americano torna a far danni
Siccome di rado impariamo dai nostri errori, specie quando sono remunerativi, tendiamo a ripeterli.
Siccome abbiamo la memoria corta, neanche ce ne accorgiamo.
Finchè non è troppo tardi.
Nel mio piccolo mi sembrava giusto, di conseguenza, farvi sapere, visto che ormai l’argomento è stranoto fra regolatori e istituzioni internazionali, che la finanza immobiliare made in Usa, con tutto il suo contorno di cartolarizzazioni e derivati, è tornata ad essere un rilevante rischio sistemico per la stabilità finanziaria internazionale.
Oggi, come nel 2007, gli investimenti sul mattone di carta garantiscono rendimenti stellari, anche fino al 15%, secondo il WsJ, trascurando, allora come oggi, che un tale rendimento porta con sé un rischio equivalente.
L’unica differenza fra ieri e oggi è che all’epoca dello sboom americano, che poi contagiò il resto del mondo, erano in gran parte le banche le dirette protagoniste del ballo del mattone finanziario.
Oggi sono altre entità, società finanziarie di quello shadow banking che tanto preoccupa i regolatori, che sostanzialmente replicano (con il sussidio delle banche, a cominciare dalla Fed e a finire da quelle di investimento) quello che facevano le stesse banche prima della grande crisi. Ossia prendono in prestito a breve termine per finanziare l’acquisto di obbligazioni a lungo termine, quindi molto remunerative, che hanno come sottostante mututi immobiliari.
Over and over, again.
Di questa simpatica deriva mi sono accorto leggendo l’ultimo Financial stability review rilasciato pochi giorni fa dalla Bce.
La nostra banca centrale, dopo aver ricordato la mole di rischi addensati sul capo dell’eurozona, rileva a un certo punto che “tuttavia, al contrario dell’anno scorso, i rischi macro-finanziari che corre la stabilità dell’eurozona sono originati fuori dall’area”.
Non sto a farvi l’elenco. Magari ne riparleremo. Qui mi limito a raccontarvene uno, che mi ha molto divertito.
“Negli Stati Uniti – scrive la Bce – un rischio alla stabilità finanziaria è legato alla rapida espansione dei Mortgage real estate investment trusts (Mreits), che sono vulnerabili alla crescita dei tassi d’interesse a causa della loro dipendenza verso i prestiti a breve termine per finanziare i loro acquisti di Mortgage backed security (Mbs). Una brusca svendita di Mbs, dovuta a un rialzo dei tassi, può esporre le banche a un calo del valore degli Mbs detenuti”.
In sostanza, la stessa storia del 2007. Con l’aggravante che il rischio tassi d’interessi, ossia di un loro aumento, è qualcosa di più di una semplice probabilità, in tempi di exit strategy e di rallentamento annunciato (e subito ritrattato perché catastrofico) di rallentamento, da parte della Fed, del programma di acquisto mensile di titoli cartolarizzati. Che poi sono proprio quegli stessi Mbs sui quali si concentra l’attenzione degli Mreits.
Un corto circuito perfetto: la Fed sostiene un mercato (quello degli Mbs) che tiene in vita, grazie ai tassi bassi sempre voluti dalla Fed, queste società d’investimento che emettono debito (sotto forma di obbligazioni proprie a breve termine garantite dalle banche, spesso collegate a tali società, che le vendono) per comprare debito altrui sotto forma di mutui a lungo termine più o meno cartolarizzati (Mbs).
Il guadagno lo ricavano dalla differenza (spread) fra il rendimento dei titoli che comprano a lungo e il costo dei titoli che emettono a breve. Quelli bravi lo chiamano ROIC (return on invested capital).
Facile come fare due più due.
Tuttavia può essere utile fare un passo indietro.
Cominciamo da una definizione. Un Mreits è una società che investe in mutui residenziali. Una sorta di fondo comune di investimento.
Questa società prende a prestito soldi e con questi fondi compra mutui che vengono impacchettati in Mbs, ossia un’altra obbligazione, che ha un rendimento e una durata. Più è lunga la durata, più è alto il rendimento. La sostenibilità di questa obbligazione, e quindi la sua capacità di essere ripagata alla scadenza, dipende dai mutui che ha sotto.
Vi ricordate i famosi subprime? Ricorderete allora che erano impacchettati in Mbs e Cdo (collateralized debt obligation).
A differenza dei Reits (real estate investment trust) i Mreits non hanno quindi mattone reale sotto i loro investimenti, ma carta.
Soltanto quella.
La tassonomia finanziaria distingue i Mreits in due tipi: quelle che lavorano con gli agency loans e quelle che lavorano con i non agency loan.
I primi lavorano con debito garantito da entità governative, come Fannie Mae o Freddie Mac (le stesse che hanno collassato causa subprime). Poiché hanno la garanzie implicita del Tesoro, questi debiti hanno un rating di credito assimilato a quelli dei bond americani e quindi un rendimento basso.
I secondi (non agency) lavorano con debito “privato”, ossia senza garanzia governativa. Ovviamente, essendo meno garantiti, e quindi più rischiosi, queste debiti devono offrire un tasso più alto agli investitori per incoraggiarli a comprare le loro obbligazioni.
Ciò costringe gli emittenti a spingere sul pedale della leva finanziaria per ottenere un maggior ROIC, aumentando di conseguenza a loro volta i rischi.
Ovviamente lo stesso vale per il Mreits che usa questi asset.
Dopo la crisi, che evidentemente non ha insegnato nulla, queste entità sono letteralmente esplose per numero. La maggior parte stanno negli Usa. Ma ce ne sono anche alcune tedesche.
E così, nell’aprile scorso, i Mreits finirono nel mirino del FSOC, il Financial stability oversight council, un gruppo di regolatori costituiti in seno al Tesoro americano, che se ne sono occupati nell’ultimo annual report.
I tecnici notarono con preoccupazione che queste società di investimento avevano quadruplicato i propri asset fino a più di 400 miliardi dal 2009 in poi.
Secondo Fitch, che al tema ha dedicato un approfondimento nel giugno scorso, l’esposizione di questi veicoli nei confronti degli Mbs sarebbe addirittura di oltre 460 miliardi di dollari. Ma soprattutto è cresciuta enormemente la loro rilevanza sistemica.
Tanto è vero che la Reuters ha rilanciato la notizia pubblicata da Financial Times il 27 ottobre scorso, secondo il quale i Mreit sono finiti anche nel mirino dei regolatori della Fed di New York, dopo che, un mese prima, il Fondo monetario internazionali li aveva classificati come una delle componenti crescenti dello shadow banking.
Il problema è che il debito a breve dei Mreits, sponsorizzato dalle banche rivenditrici, si inserisce nel più vasto mercato dei repo, ossia dei pronti contro termine, che muove circa 4,5 trilioni di dollari.
Un’improvvisa svendita di Mbs, seguita magari a un rialzo dei tassi, può perciò avere conseguenze devastanti proprio per questo mercato, che è vitale per il funzionamento delle grandi banche, che vi si rivolgono per il proprio funding, ponendo come pegno i propri Mbs e altri titoli.
Una turbolenza nel mercato repo avrebbe lo stesso effetto, se non peggiore, di quella registrata nel mercato della carta commerciale agli albori della crisi del 2007.
Dal canto loro, i tifosi dei Mreits sottolineano che il loro lavoro ha contribuito a rilanciare il mercato immobiliare americano, favorendo la domanda di mutui a basso prezzo e, di conseguenza, la domanda di mattone. E infatti i prezzi in America hanno ripreso a salire.
Sempre per non dimenticare i subprime.
Tanto sarebbe bastato ai regolatori della Fed di New York per decidere di vederci chiaro.
Per la cronaca, la Fed di New York è una filiale della stessa Fed che ha contribuito (e contribuisce tuttora) a far crescere le Mreits e il mercato degli Mbs.
Fare pace col cervello no?
