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La bolla del debito privato atterra sulla Cina

La crisi greca oscura il cielo di questa primavera afosa come una grande nube nera carica di cattivi presagi. Così, mentre tutti corrono a cercare riparo, finisce che l’occhio esperto del meteorologo si perde i cumulonembi che si addensano sul cielo d’Oriente. Un po’ perché sono lontani da noi. Un po’ perché nell’ultimo decennio ci siamo abituati a guardare all’Est come certi personaggi delle fiabe, che nel Levante vedevano il ricetto vigoroso dei tormenti del Ponente, dissimulato da imponenti e inesauribili ricchezze.

Economie in potente crescita, e quindi invincibili, all’occhio sprovveduto del lettore distratto di statistiche sul prodotto.

Distratto perché se avesse avuto agio di farci caso, il nostro sprovveduto avrebbe notato che il male dell’Occidente, sotto una forma diversa eppure uguale, si sta addensando anche sopra il cielo grigio che sovrasta Pechino, la capitale millenaria del capitalismo contemporaneo, laddove l’utopia della crescita s’ibrida nel più vieto dei dispotismi, svelando perciò costei la sua più autentica costituzione spirituale.

A tale distrazione non sfugge un’altra caratteristica, che della vigorosa crescita cinese è il doloroso contrappunto: quella del debito. L’ultimo Global Economic prospects della Banca Mondiale dedica ampio spazio alla Cina, e un grafico in particolare rivela una situazione che sarebbe poco saggio non raccontarvi.

Il dato, nudo e crudo, ci dice che il debito del settore privato cinese, diviso fra famiglie e imprese, sfiora ormai il 200% del Pil, cresciuto quasi del doppio nello spazio di un pugno di anni.

Nel 2007, prima quindi della Grande Recessione, famiglie e imprese non cumulavano neanche il 120% del Pil di debiti. Oggi le famiglie sono quasi al 40%, mentre le imprese, che stavano sotto il 100%, ormai svettano verso il 160%.

Come abbiano potuto i cinesi raddoppiare i propri debiti privati in un settennio sarebbe impossibile capirlo, se non ci chiedessimo da dove sono arrivati tutti questi soldi.

La Banca Mondiale nota che “il debito privato è cresciuto rapidamente in alcune economie emergenti negli ultimi cinque anni”, spinto dal denaro a basso costo e dalla liquidità abbondante. Ma ci ricorda pure che in passato “simili accumuli di debito sono stati seguiti da gravi slowdown”.

La Cina non è sfuggita a questa bonanza. E se diamo un’occhiata anche veloce all’ultima Quaterly Review della Bis, che pubblica anche le statistiche bancarie, scopriamo anche perché.

“Gli impieghi transfrontalieri verso la Cina – nota la Bis – sono scesi di circa $51 miliardi nell’ultimo trimestre 2014, portando il tasso di crescita sull’anno precedente al 21%. A fine dicembre 2014 le attività transfrontaliere in
essere verso i residenti cinesi ammontavano a $1 000 miliardi, facendo della Cina l’ottavo maggior paese prenditore a livello mondiale”.

Quindi la Cina è diventata uno dei Grandi Prenditori delle banche d’Occidente, europee e nordamericane, evidentemente rassicurate dai suoi prodigi. Crediti a vista, però, o quasi, visto che gran parte del debito cinese ormai è a breve termine, essendo aumentata tale quota dal 59% di fine 2008 al 78%.

Ma non solo. La Cina attrae anche corposi investimenti di portafoglio, in gran parte dagli Usa, pure se l’esposizione cinese verso la valuta americana è scesa del 15%: dal 54% di fine 2008 al 39% di fine 2014.

Questa montagna di denaro è andata ad alimentare ciò che alimenta di solito: boom borsistici, che ormai preoccupano gli osservatori più attenti, e, soprattutto, boom immobiliari i quali, con i prezzi del mattone che continuano a calare, rischiano di trasformarsi in sboom finanziari. Tanto che la Banca centrale ha dovuto inventare una sua via cinese all’allentamento monetario per provare a tenere liquido il mercato.

Tutto ciò mentre la curva degli investimenti, che sono stati il driver principali del boom delle costruzioni, rimane piatta intorno al 50% del Pil, con i consumi anch’essi piatti, poco sotto e paralleli, a significare delle difficoltà cinesi a trasformare la ricchezza che arriva dall’Occidente in una maggiore domanda per l’estero, sfogandosi infine in pura e semplice inflazione degli asset.

Tutto ciò basta a spiegare perché il generoso Occidente guardi spaventato all’ipotesi di un rallentamento del prospero Oriente. Il timore di un atterraggio brusco dell’economia cinese, il cosiddetto hard landing, “per quanto improbabile”, nota la Banca Mondiale, potrebbe fare esplodere tutte le vulnerabilità della finanza cinese.

In linea di principio, sottolinea ancora, “le autorità hanno sufficienti buffer per ricapitalizzare le banche e le corporation” che dovessero finire nei pasticci, visto che il debito/pil del governo è inferiore al 60%, pure includendo la montagna di debito celata nei bilanci dei veicoli sponsorizzati dai governi locali. Senza contare che i controlli sul conto capitale cinese impedirebbero comunque le fughe dei capitali nazionali.

Ma il problema della Cina non è certo il rischio che possa fallire. Questa montagna di debiti, che fra privato e pubblico cumula oltre il 250% del Pil, rischia semmai di trasformare la Cina nella versione aggiornata della stagnazione giapponese iniziata più di vent’anni fa.

L’esito giapponese del miracolo cinese.

In tal caso gli occidentali potrebbero far accelerare la fuga dei capitali a breve termine “nonostante i controlli sui capitali”, come nota la Banca Mondiale. E senza i capitali a breve forniti da Occidente, cosa ne sarà dei boom cinesi?

Speriamo di non scoprirlo mai.

Il freddo vento dell’Ovest che soffia sull’India

Gli auruspici dei disastri di là da venire compilano ormai ogni giorno la classifica del primo che cadrà, una volta che l’Occidente americano smetterà di emettere liquidità a tassi negativi. Costoro, in gran parte in avida contemplazione dei guadagni che lucreranno da tali rovine, ormai da mesi hanno rivolto i loro occhi rapaci verso i paesi emergenti, e in particolare quei Brics che nel tempo buono vennero inventati per piazzare al meglio qualche obbligazione.

Sembrano passati secoli, ma invece è poco più di un decennio. Quei campioni oggi spompati, erano il lievito di ogni discussione sul futuro della domanda globale. I perfetti succedanei di un Occidente stanco e spopolato di giovani, assai più preoccupato di mantenere i suoi vecchi che non di produrre nuove mitologie di consumo. L’automobile, per dire, doveva essere cinese o indiana, o non essere più.

Cosa è rimasto oggi, che il freddo vento dell’Ovest ha già iniziato a spolverare di neve i saldi commerciali dei Brics? Chi sarà il primo a cadere, si chiedono i traders, che muovono assurdi finanziari sotto forma di denaro?

Ecco l’India, segnalarsi con preoccupazione non come candidata ideale al sacrificio, che pure si attaglierebbe bene, questo ruolo, alla sua mistica. Ma come prima rivelazione di quanto le menzogne dell’Ovest siano e siano state profonde.Una versione aggiornata del vecchio colonialismo.

Si scopre questo e dell’altro, leggendo l’ultimo staff report del Fondo monetario dedicato proprio all’India. Si scopre ciò che già si sapeva, ossia come l’alta inflazione, avendo ridotto i rendimenti reali degli investimenti indiani, abbia contribuito notevolmente a un deficit di conto corrente della bilancia dei pagamenti senza precedenti, aggravatosi con l’aumento di importazioni di oro. A farne le spese è stato il risparmio indiano e, una volta che il vento freddo dell’Ovest ha iniziato a soffiare, la valuta, depressa da costanti deflussi di quegli afflussi che nei bei tempi dei Brics popolavano la contabilità internazionale indiana.

Ma scopriamo anche che l’Occidente non ha di che preoccuparsi: finisca pure di mettere al sicuro i suoi soldi, prestati inopinatamente, per pura avidità, al sub continente: “Uno shock che si origini in India – scrive il Fmi – ha implicazioni globali contenute, ma molto serie per alcune economie sudasiatiche”. L’Occidente, insomma, può star tranquillo.

L’India un po’ meno. “La riduzione della liquidità – scrive il Fmi – ha aumentato le pressioni esterne e appesantito gli squilibri macroeconomici dell’India (alta inflazione, grande deficit di conto corrente, e deficit fiscale) e la sua debolezza strutturale”. Quest’anno la crescita dovrebbe arrivare al 4,6%, il livello più basso dell’ultimo decennio, a causa di una contrazione della domanda estera e dell’anemia di quello interna, che non riesce a decollare.

Il deficit di conto corrente è previsto migliori, ma l’India ha poco margine, a parte usare le sue riserve, per fare politiche controcicliche. E le riserve, ammesso che le tensioni finanziarie internazionali si normalizzino, serviranno innanzitutto a tenere in piedi la rupia, che, spiega il Fondo, dovrebbe essere sostenuta da un aumento corposo dei tassi a breve in caso di torbidi esterni.

La qualcosa, come è noto, ha l’effetto di comprimere la domanda, in un momento in cui il Fmi esorta a procedere con un consolidamento fiscale, visto che il deficit è ancora previsto al 4,8% del Pil nel 2013/14. Insomma: l’India sta transitando dai Brics ai PIIGS.

Chi segue questa roba non si stupirà più di tanto. La creazione di un PIIGS, prevede il copione, comincia con l’afflusso di denaro gratis e finisce con un deflusso che lascia il paese pieno di debiti e in piena crisi fiscale/valutaria. L’abbiamo visto tante volte, questo copione negli ultimi trent’anni. E la cosa incredibile è che ancora ci si caschi.

E come ogni volta, anche per l’India, il grilletto che ha innescato la fase terminale della crisi è stato l’annuncio di maggio della Fed che presto sarebbe partito il tapering. Gli investimenti di portafoglio in India hanno cominciato a diventare fantasmi alla disperata ricerca di una sostanza sotto forma di nuovi prestiti.

Gli investitori “scoprirono” l’alto livello di inflazione che l’India esibisce ormai da un decennio, e si accorsero persino dell’instabilità politica. E’ incredibile cosa possa far dimenticare il denaro della Fed.

Il paese reagì allentando i limiti agli investimenti diretti dall’estero, introducendo controlli sui movimenti di capitale e addirittura un dazio sulle importazioni di oro. Ma, come al solito, fu la retromarci della Fed a svolgere l’effetto desiderato. I mercati si calmarono e il governo indiano di conseguenza.

Oggi che il tapering sembra un’ipotesi benigna, all’orizzonte ma non troppo, l’India si trova nuovamente di fronte ai suoi dilemmi storici: l’inflazione, la domanda interna strozzata e gli investimenti ancora bloccati, col saldo commerciale migliorato un pochino, ma solo perché il mondo là fuori è tornato a spendere. Ma fino a quando?

Il mantra delle riforme strutturali non poteva risparmiare perciò un paese che già ai tempi buoni era stato a a dir poco refrattario. E’ pur vero che nell’ultimo biennio le politiche monetarie e fiscali sono state coerenti con il consiglio del Fmi, ma questo non è stato sufficiente a incardinare l’India in un percorso sostenibile di sviluppo. Ancora troppo esposta ai marosi internazionali. Ancora troppo indiana.

La crescita si prevede in aumento al 5,4% nel periodo 2014/15, ma “l’inflazione CPI – scrive il Fondo – si prevede ancora vicina alla doppia cifra nei prossimi anni”. Un po’ perché l’inflazione da cibo non accenna a diminuire, un po’ perché si trasferisce con rapidità ai salari, un po’ perché la valuta ha prospettive di ulteriore indebolimento, un po’ perché i prezzi energetici sono previsti in crescita.

Lato esterno, il deficit di conto corrente, che aveva raggiunto il record del 4,8% nel 2012/13 si è ridotto notevolmente, spinto ai ribasso dai dazi su alcune importazioni (l’oro) e dall’aumento delle importazioni, ma anche perché, da bravi PIIGs, la domanda interna di beni è crollata sotto il peso della crisi.

Quest’anno il Fmi si aspetta un deficit di conto corrente di 61 mld, pari a circa il 3,3% del Pil, con prospettive al miglioramento grazie anche all’effetto del deprezzamento della rupia di questi ultimi tempi. A tranquillizzare i creditori c’è anche l’ammontare ancora soddisfacente di riserve (296 miliardi di dollari a dicembre 2013 previste in crescita a 314 per marzo 2015).

Ma rimane vagante il rischio più grosso: ossia che la liquidità globale torni ad essere scarsa, combinando così  la debolezza esterna con quella interna. “Le riserve sono ampie – nota il Fondo – ma la recente esperienza evidenzia che, con la normalizzazione della politica monetaria americana, l’impatto della volatilità del mercato globale può essere distruttivo. Con un bisogno di finanziamenti esteri ancora significativo, quindi, l’India è esposta al rischio di una salita dei tassi di interessi e a quello del deflusso dei capitali”.

Questa pressione può mettere in tensione i mercati domestici, indebolire i bilanci di banche (per le quali si prevede un’ampia necessità di capitali freschi in accordo con Basilea III) e imprese, tagliare la crescita del credito e forzare una tensione prociclica sulle politiche monetarie e fiscali”. Tutto ciò “può innalzare il costo dei finanziamenti, provocare deflussi di portafoglio e aggiustamenti disordinati del tasso di cambio e dei prezzi degli asset”. In pratica l’ingresso a pieno titolo fra i PIIGs.

Sicché gli indiani, una volta saggi, ora si attrezzano a scrutare le nuvole che arrivano da Ovest. Dopo l’esperienza di Lehman Brothers, quando il paese passò da un deficit di conto corrente finanziato interamente dagli investimenti esteri a un periodo in cui non coprivano neanche un quarto, i metereologi indiani hanno capito che il sole, se vuole continuare a splendere, non potrà contare solo sulla benevolenza altrui, anche se tale benevolenza rimane fondamentale. Dalla sua l’India ha il fatto che “la flessibilità del cambio potrebbe continuare a essere un punto di risposta fondamentale alle volatilità estere”.

Almeno questo vantaggio gli indiani ce l’hanno. Basti ricordare che fra il 22 maggio e il 2 settembre (ossia da quando la Fed iniziò a parlare di tapering) la rupia si è deprezzata del 18,8%, per poi rivalutarsi del 6,5% dal 2 settembre al 5 dicembre.

Il problema è che non sanno come affrontare la prossima turbolenza.

Sono in buona compagnia però.

Non lo sa nessuno.

Nessun paese del sud, tantomeno un subcontinente, è attrezzato per la grande glaciazione che si prepara.

Warfare/Welfare, andata e ritorno

Finora è stato un viaggio di sola andata quello che ha condotto dal warfare (guerra) al welfare (benessere). Una storia lunga un secolo, durante il quale le devastazioni delle guerre sono state più che compensate dall’incredibile aumento di benessere che ha riguardato i paesi avanzati. Nostro compagno, in questo lungo viaggio, è stato il debito, pubblico e privato.

E’ opinione comune fra gli storici che la prima guerra mondiale abbia interrotto la prima grande ondata di globalizzazione del mondo, iniziata dopo la fine del conflitto franco-prussiano, nel 1870, e durata fino alla crisi dell’estate del ’14, quando le grandi potenze si infilarono nella Grande Guerra. Fino ad allora la globalizzazione, spinta dallo sviluppo delle infrastrutture, aveva prodotto una crescita tumultuosa del commercio internazionale i cui benefici, tuttavia, venivano goduti solo da una piccola popolazione di rentier e da pochi uomini d’affari, che potevano contare su valute stabili e quindi prestavano volentieri i propri soldi agli stati. All’epoca erano molto in voga i titoli permanenti, ossia senza scadenza. Una volta iscritti nel gran libro del debito di questo o quello stato, i soldi del rentier producevano interessi sicuri, al riparo anche dall’inflazione che il mondo avrebbe patito solo durante e dopo la prima guerra mondiale.

La prima globalizzazione vide anche sorgere l’alba del welfare, prodotto culturale dei grandi moti sociali del XIX secolo. Fu Bismarck, nel 1892, a tratteggiare il primo sistema statale di pensioni per i dipendenti pubblici tedeschi. Un modo, spiegò, assai efficace per tenerli sotto controllo, prima, durante e persino alla fine della loro carriera. Molti altri stati seguirono l’esempio. L’idea di usare il welfare per attenuare le tensioni sociali viene da lontano.

In generale, tuttavia, gli stati dell’epoca dedicavano gran parte delle loro risorse alla politica espansionista, al Grande Gioco, che grazie alla leva del debito prosperava. Più tardi, ai primi del XX° secolo, si dedicarono con decisione agli armamenti. Il viaggio dal warfare al welfare era ancora all’inizio.

Anche in questa fase il debito giocò un ruolo fondamentale. La storia del mercato dei bond governativi a cavallo fra la fine del XIX° e la vigilia del conflitto meriterebbe un libro.

Con la guerra le finanze pubbliche dei paesi coinvolti esplosero insieme al sistema monetario. L’inflazione che ne conseguì decretò la fine del rentier, come ebbe a scrivere Keynes, e del ceto medio che viveva di pensioni e stipendi, ma non certo del mercato finanziario, che al contrario prosperò. La Gran Bretagna tramontava, la Francia aveva il suo daffare, la Germania e l’Austria erano piegate dall’iperinflazione, la Russia aveva fatto la rivoluzione e ripudiato il suo debito. Ma c’era un gran lavoro per i banchieri. Bisognava solo trovare nuove forme di impiego.

Il sistema finanziario trovò il suo nuovo baricentro a New York. La sbornia americana degli anni Venti, gli anni ruggenti del Jazz e della grande speculazione immobiliare in Florida, fu alimentata da risorse in libera uscita dall’Europa, specialmente dall’Inghilterra, che alla fine trovarono un’ottima allocazione nella borsa di New York. Wall Street  produceva rialzi spaventosi spingendo anche i privati cittadini ad indebitarsi per inseguire la bolla.

Di nuovo il debito, stavolta privato, fu il grande protagonista della straordinaria crescita di ricchezza di quegli anni negli Usa, e, contemporaneamente, la causa della Grande Depressione che l’America prima e il mondo poi, sperimentarono dal 1929 in poi. Ma l’America non era ancora attrezzata per il Welfare, come si vide con chiarezza durante la crisi.

Solo gli amari anni ’30 indussero gli Stati Uniti a fare leva sulle cosiddette politiche keynesiane per uscire dalle secche della depressione. La bacchetta magica della spesa pubblica avrebbe sortito il miracolo della ripresa e, insieme, tenuto lontano il popolo dalle pulsioni totalitaristiche che stavano sconvolgendo parte dell’Europa.

Col New Deal gli americani misero in piedi strutture e politiche che ancora oggi fanno parte del patrimonio pubblico. Si decise, ad esempio, di fare in modo che ciascuno potesse avere una casa di proprietà e per riuscirci il governo creò, letteralmente dal nulla, il mercato finanziario immobiliare istituendo due agenzie, Freddie Mac e Fannie Mae, che avevano l’incarico di  riuscire a fare arrivare il credito alle famiglie “comprandosi” i mutui dalle banche e rivendendoli alle famiglie stesse a tassi e condizioni agevolati. Il New Deal fu un’altra tappa importante del viaggio verso il Welfare.

Ma ci volle un’altra guerra per oltrepassare il punto di non ritorno. I trionfatori americani americani, esportatori netti di valuta e capitali, ebbero gioco facile a “suggerire” il modello inaugurato da Roosvelt negli anni ’30 ai paesi liberati. Liberati anche dal debito enorme accumulato durante la guerra, ancora una volta polverizzato dall’inflazione. Gli stati europei e il Giappone poterono ripartire, grazie agli aiuti americani, lancia in resta verso il sol dell’avvenire capitalistico. Il traguardo era il welfare che, nelle intezioni dei teorici, inglesi come giapponesi, doveva accompagnarti dalla culla alla tomba come un tenero abbraccio materno.

Il miraggio divenne realtà nel ventennio fra i ’50 e i 60, quando ci fu l’unica parentesi di crescita economica accompagnata da un basso livello di indebitamento. Anche perché si partiva sostanzialmente da zero e con i bilanci ripuliti. Gli stati occidentali misero in piedi programmi di welfare ambiziosi con lo scopo, fra gli altri, di garantirsi un’adeguata pace sociale proprio mentre imperava la guerra fredda. Il warfare “raffreddandosi” si stemperava verso un welfare pacioso e amichevole, che però cresceva al ritmo forsennato del rock and roll.

Il social spendig divenne una medaglia d’onore per gli stati. I dati Ocse mostrano che in Europa la spesa sociale è passata da una media del 10% del Pil nel 1960 al 15% del ’70. In quegli anni peraltro si incardinarono leggi e abitudini, quelli che oggi chiamiamo diritti, che produrranno i loro effetti negli anni a venire e che oggi hanno fatto salire la spesa media dell’Ue per il welfare al 25% del Pil. Una tendenza simile è visibile anche negli Stati Uniti e in Giappone.

I semi del Welfare piantati nel dopoguerra misero radici e nell’arco di un ventennio divennero una quercia robusta e famelica che doveva essere nutrita con dosi sempre maggiori di spesa pubblica. Per sostenere questi livelli di spesa gli stati dovettero tornare a indebitarsi assai al di sopra delle proprie possibilità.

In Italia le varie leggi di spesa incardinate negli anni ’70, fecero schizzare il debito pubblico al 90% del Pil a fine anni ’80, quando nei primi anni ’60 veleggiava sotto il 40%, per poi superare rapidamente il 100% e il 120 nel ’92. Dove siamo più o meno ancora adesso.

All’apice del suo successo, il Welfare innescò la sua crisi, ormai da molti ritenuta terminale. A livello teorico, la reazione contro le politiche keynesiane cominciò addirittura sul finire degli anni ’70 per raggiungere il culmine politico nei primi anni ’80, quelli di Reagan e della Thatcher. Lo Stato non è la soluzione, si disse. Semmai il problema. Ma per quasi trent’anni il social spending continuò la sua corsa forsennata, sempre a debito, in Europa, ma anche negli Usa e in Giappone.

La curva del Welfare imbocca la sua china discendente solo con la crisi del 2007, dopo essere stata pompata fino allo sfinimento da politiche economiche sempre più basate sul deficit.  Il salvataggio (obbligato) del sistema finanziario dà il colpo di grazia alle finanze pubbliche. Solo pochi mesi fa il presidente della Bce Mario Draghi ha detto a chiare lettere che questo modello di Welfare non possiamo più permettercelo.

Siamo al punto che le ricche terre d’Occidente, ingrassate all’ombra del debito, devono abbandonare il paradiso del Welfare e non sanno più dove andare. Il sogno delle magnifiche sorti progressive si è infranto e adesso coltivano la tentazione di tornare indietro, avendo anche smarrito la memoria. Ma indietro c’è solo il Warfare.

Oggi si parla chiaramente di guerra economica. Ma il viaggio non è ancora terminato.