Le metamorfosi dell’economia: Il nuovo valore del lavoro
L’idea che il lavoro esprima un valore appartiene agli albori del pensiero economico moderno e nel tempo ha generato tentativi tanto generosi quanto disperati finalizzati a fare proprio del lavoro la misura stessa del valore economico. Da ciò si dedusse una teoria del capitale e dell’interesse – quella dello sfruttamento – che presto transitò nel discorrere politico, visto che le sue basi teoriche erano fragili almeno quanto forte era stata la passione che le aveva edificate.
Fu chiaro già sul terminare del XIX secolo che la teoria del valore-lavoro, enunciata da Smith e poi pedissequamente ripercorsa dai suoi coevi, non aveva senso alcuno. Anche Ricardo, che pure tale teoria aveva contribuito ad edificare agli albori del secolo, concluse la sua carriera di pensatore analitico ammettendo che era praticamente impossibile trovare una soluzione coerente al problema di una misura univoca del lavoro capace di quotare il valore.
Ciò non impedì a Marx di mettere tale principio alla base del primo volume del Capitale utilizzando quegli espedienti retorici che Eugen von Bohm-Bawerk ridicolizzerà nel secondo volume della sua opera monumentale sulla Storia e critica delle teorie dell’interesse e del capitale, nella quale fu dedicato un ampio capitolo proprio all’analisi della teoria dello sfruttamento. Ossia la teoria, poi divenuta la base del socialismo, che vedeva nell’appropriazione del plusvalore da parte del capitalista la dimostrazione del fatto che il lavoratore venisse spossessato di ciò che, sin dai tempi di Locke, veniva giudicato suo: il frutto del proprio lavoro e quindi il valore che da esso veniva generato.
Non serve qui riproporre gli argomenti dell’economista austriaco. Rileva assai più la sua conclusione sulla teoria dello sfruttamento giudicata “sconsiderata e precipitosa”, viziata da “presunzione, falsa dialettica, contraddizione interna e cecità di fronte ai fatti della realtà”. Il successo di tale teoria, notava ancora, veniva imputato alla circostanza “di aver portato la battaglia su un terreno sul quale di solito non solo ma la testa ma anche il cuore ha voce in capitolo”. “E’ facile credere a ciò che si vuol credere – notava -. La condizione delle classi lavoratrici è effettivamente in massima parte una condizione di miseria: ogni filantropo deve auspicarne il miglioramento. Molti profitti di capitale sgorgano da fonti poco limpide: ogni filantropo deve auspicarne che tali fonti siano prosciugate. E così, posto dinanzi a una teoria i cui risultati mirano ad alzare le pretese dei poveri e abbassare quelle dei ricchi, e che coincide in tutto o in parte con i desideri del proprio cuore, c’è chi si schiererà a priori dalla sua parte (..) perciò credono alla teoria dello sfruttamento perché vogliono crederci, sebbene sia falsa e ci crederebbero anche la sua motivazione teorica fosse peggiore di quella che è”.
L’invettiva di von Bohm-Bawerk ha il pregio di ricordarci ciò che lui stesso dimentica: nei fatti economici il cuore ha pieno diritto di cittadinanza, visto che l’economia ci riguarda e non riguarda astrattamente se stessa. L’economia è politica, sin dal suo sorgere, perché ha a che fare con la polis, ossia con la costruzione sociale di cui ognuno di noi è partecipe. E poiché siamo persone e non macchine, è del tutto naturale ragionare col cuore, oltre che con la testa, mentre cerchiamo di soddisfare la nostra pancia.
Tale evidenza è difficile accettarla anche ai giorni nostri, figuriamoci ai tempi di von Bohm-Bawerk, quando si coltivava l’idea di una teoria pura che trovasse nella logica la sua piena legittimazione esistenziale. E la logica della teoria dello sfruttamento era, come fu notato, quantomeno ballerina.
Ciò non vuol dire che il discorso non avesse un suo fondamento. Solo che, come poi è accaduto a gran parte dei pensieri dell’economia, era basato su un fraintendimento.
Per scoprirlo dobbiamo tornare ancora una volta a Smith. Stavolta invece di citare dal suo testo, attingo all’orazione funebre che Friedrick von Wieser dedicò al padre della scuola austriaca, Carl Menger, che pose su nuove basi la teoria del valore. Ho preferito questa citazione all’originale di Smith perché credo sia utile vedere come alla fine del XIX secolo fossero stati assimilati gli insegnamenti del filosofo scozzese. “Il lavoro – scrisse von Wieser – secondo quanto afferma Smith esige dall’uomo un sacrificio in termini di riposo, libertà e felicità, e il possesso di prodotti del lavoro acquista necessariamente valore, agli occhi degli individui per il fatto che tale possesso risparmia loro un ulteriore sacrificio di valore”. Quindi secondo questa interpretazione, ciò che dà valore ai prodotti è che, possedendoli, i soggetti possono evitare di dover lavorare per averli/produrli. E questo ci riporta al fatto essenziale: dovendo dedicare tempo al lavoro, io devo sottrarlo ad attività più piacevoli.
L’idea che il lavoro sia il tormento dell’uomo appartiene alle radici profonde del nostro immaginario, derivando da un pensiero sostanzialmente religioso – basta ricordare la nostra cacciata dal paradiso raccontata nella Bibbia – che poi è diventato sentire sociale. Ci sia o non ci sia, per molti il lavoro è un problema. E questo perché ci richiede tempo, ossia la nostra vita. Dobbiamo spendere tempo per lavorare in cambio di un salario. Dobbiamo scambiare il nostro denaro esistenziale per una contropartita di denaro sociale.
Possiamo tentare però un’altra interpretazione del pensiero di Smith. Non è il lavoro in sé che dà valore agli oggetti, ma è il tempo che dedico alla loro realizzazione. Il lavoro, in fondo, non è altro che tempo impiegato in una certa attività. Il lavoratore tende di solito a valorizzare questo tempo più di quanto gli frutti in unità di salario. L’utilità del salario, insomma, è inferiore a quella del tempo speso per guadagnarlo.
Ciò spiega perché il lavoro sia spesso vissuto come un tormento. Avendo i soldi, si farebbe altro. E anche perché i ricchi siano così tanto invidiati. Non tanto (o non solo) per i beni materiali di cui dispongono. Ma per la libertà di tempo che possono comprarsi col loro denaro.
Le diseguaglianze distributive, sospetto, sarebbero meno avvilenti se alla loro base non ci fosse l’unico e autentico sfruttamento: quello di chi può disporre pienamente e liberamente del proprio tempo a spese di chi non può perché deve lavorare, occupando il suo tempo in attività che giudica poco utili per se stesso. Per questo molti preferirebbero avere un reddito certo, anche se modesto, e il proprio tempo libero, piuttosto che un reddito elevato ma nessuna libertà.
Ovviamente ci sono anche le eccezioni. Ma il grande successo dei piani di previdenza sociale che da oltre un secolo contribuiscono alla felicità di molti anziani dimostra che sono solo questo: eccezioni. Ogni uomo sogna (salvo poi scoprire che non gli piace) di essere padrone del suo tempo, ma ovunque è in catene, come direbbe Rousseau.
Se seguiamo questa linea di ragionamento, arriviamo a una semplice conclusione: ognuno dovrebbe dare valore al proprio tempo. Questo è il modo economico per dire che dovrebbe dar valore innanzitutto a se stesso. E quindi scegliere un lavoro che sia produttivo di valore per lui e, indirettamente, per chi ne fruisce. Non è necessario che la prestazione lavorativa sia collegata a un corrispettivo monetario. Quest’ultimo, lo vedremo, potrà affluire da altre fonti. E’ necessario però che l’impiego del tempo tramite il lavoro generi valore sociale e contribuisca quindi all’aumento del capitale sociale.
Ne consegue che questo nuovo valore del lavoro è capace di creare ricchezza sociale anche per il tramite della gratuità. Non tutti i beni e i servizi prodotti da un lavoro siffatto saranno prezzati dal mercato. Ma tutti avranno un valore socialmente riconosciuto. Ciò implica che chiunque abbia prodotto questo valore dovrà essere retribuito. Perché il cuore, prima ancora della testa, non accetta che si sia costretti alla schiavitù di un lavoro che ci avvilisce o alla miseria del tempo liberamente impiegato fuori dal mercato senza avere un reddito. Questo non è un esito solo del pensiero economico, ma della storia. Se tutto il benessere che abbiamo costruito nelle nostre società ha un senso non può essere che questo.
Tracce di questa evoluzione, in effetti, si intravedono da tempo. Solo che è difficile scorgerle.
(20/segue)