Quando i giovani italiani trovavano lavoro (sottopagato)
Sembra un tempo lontanissimo, quello in cui i giovani italiani avevano un tasso di occupazione che superava il 70% e riuscivano a trovare lavoro nello spazio di due tre anni. E in effetti è un tempo remoto. Non tanto perché parliamo di un ventennio fa, ma perché nel frattempo è intervenuta una crisi devastante che ha dilatato la percezione stessa del tempo. La crisi ha provocato nella nostra rappresentazione della realtà un prima e dopo il cui senso e significato è assai più profondo della semplice scansione della linea temporale. Il 2006 è davvero un altro mondo rispetto al 2008, pure se sono separati da appena un biennio.
E’ talmente remoto, questo tempo prima della crisi, che ormai l’abbiamo dimenticato. Perciò è strano leggere Bankitalia ricordarci in un recente e interessante studio (The generation gap: a cohort analysis of earnings levels, dispersion and initial labor market conditions in Italy, 1974-2014) che “lungo il decennio prima del 2008-9 le opportunità di impiego per i giovani italiani migliorarono considerevolmente”. E questo grafico lo mostra con chiarezza. “Fin dal 1995 dopo l’introduzione di accordi più flessibili sul lavoro e la ripresa seguita alla la svalutazione della lira il tasso di occupazione dei giovani migliorò notevolmente”. Si arrivò al 70% per i diplomati e quasi all’80 per i laureati, quasi il doppio di com’era a metà dei ’90. Oggi per i diplomati siamo tornati sotto la punta minima dal ’75, mentre per i laureati è andata leggermente meglio, ma il crollo delle opportunità è più che visibile.
Dietro il lato luminoso di questo straordinario aumento della partecipazione, però, si nasconde un dettaglio poco osservato, ossia quello relativo alla “qualità di queste opportunità in termini di stipendio, stabilità e sviluppi di carriera”. L’aumentata partecipazione al lavoro, insomma, è stata pagata dai giovani con stipendi più bassi e minori opportunità di aumentarli? Il senso comune suggerisce di sì. E anche la memoria. Ma è interessante seguire il punto di vista dell’economista. “Diversi studi – sottolinea – hanno concluso che le riforme del 1992-93 mentre hanno supportato la creazione di nuove opportunità di impiego hanno contribuito a generare un mercato del lavoro duale segmentato secondo le età, aprendo un gap fra i guadagni dei vecchi incumbent e quelli che entravano nel mercato del lavoro”. Non c’è da stupirsi: la stessa cosa è avvenuta per le pensioni, con la riforma Dini, che data il 1995, a segnare una profonda discontinuità previdenziale fra gli occupati prima e dopo il 1996.
Si potrebbe pensare a una sfortuna circostanziale. Ma il fatto è che ormai più di un’osservatore parla di “deterioramento strutturale delle opportunità di lavoro” per i più giovani. E il fatto che la crisi abbia eroso notevolmente l’occupazione giovanile sembra confermare questo timore.
In dettaglio, lo studio raccoglie una lunga serie di dati, pure se con alcune limitazioni, che comunicano alcune informazioni interessanti non solo relative ai tassi di partecipazione ma anche ai livelli di retribuzione. Perché un’altra notevole differenza fra ieri e oggi sono i livelli salariali di ingresso che proprio a partire dalla prima metà degli anni ’90 “hanno iniziato a cadere”. Questo trend ribassista ha continuato il suo andamento fino allo scoppiare della Grande Crisi. Quindi all’aumentare della opportunità di impiego ha corrisposto un continuo deterioramento dei livelli retributivi.
Più grave il fatto che “le carriere successive non sembrano aver compensato il declino nei salari d’ingresso, conducendo a una perdita di lungo periodo, se non permanente, delle retribuzioni”. Vale la pena sottolineare che un andamento simile è stato osservato anche in Canada: i redditi annuali sembrano esser cresciuti fino ai tardi ’80 per poi cadere del 30% nella prima metà dei ’90. In sostanza ai giovani, dalla metà dei ’90 in poi, sono stati offerti salari più bassi e, in prospettiva, pensioni più basse.
Nel nostro paese si osserva che mentre nel corso dei ’90 i salari medi stagnavano, quelli di ingresso cadevano drasticamente. Fra i primi ’90 e il 2014 i disallineamento fra i vecchi lavoratori e i nuovi ha toccato il 15%. “Questi sviluppi hanno generato un gap generazionale nei salari“. Questo gap, peraltro, è stato amplificato da altri sviluppi. Intanto ai salari bassi si è associata una “frammentazione delle esperienze lavorative dei giovani”. Insomma, il lavoro è diventano discontinuo, se non addirittura occasionale. “Le ore lavorate sono diminuite di un terzo dai primi anni ’90”. Poi il calo dei salari di ingresso ha aumentato la deviazione standard dei livelli salariali, ossia in sostanza aumentando la dispersione, e quindi favorendo profonde diversificazioni fra stesse coorti di lavoratori. Terzo punto, i bassi salari di ingresso non sono stati compensati da successivi aumenti.
La conclusione di questa storia è quella che abbiamo sotto gli occhi. Le nuove regole sul lavoro, scritte fra gli anni ’90 e nei primi 2000 “hanno notevolmente migliorato la flessibilità, ma solo ai margini. Solo nel 2012 e nel 2014 la legislazione ha iniziato a bilanciare il peso della flessibilità su tutti i lavoratori modificando anche la protezione dei contratti a tempo indeterminato”. Quindi non è che la flessibilità è diminuita: è stata estesa a tutti. Nel frattempo però chi ha cominciato a lavorare nella seconda metà dei ’90 ha potuto consolarsi, almeno fino a prima della crisi, con l’aumento delle opportunità di lavoro, pure se al prezzo di stipendi eternamente bassi e lavori frammentari. Oggi, dopo la crisi, non ha neanche più questa consolazione. I tassi di partecipazione giovanili sono crollati. E i giovani di oggi, senza lavoro e senza salario, saranno i vecchi di domani. Inevitabilmente senza pensione.