Pensioni e diseguaglianza. Il cuneo fiscale fuori moda

La lettura del rapporto annuale dell’Inps ci consente di fare ulteriori passi in avanti nella comprensione dei numerosi fattori che hanno contribuito a trasformare il nostro sistema previdenziale in una fabbrica di diseguaglianze, tanto potente quanto inosservata, malgrado lo spirito del tempo che sembra non si preoccupi d’altro. A parole. Perché poi nei fatti, e abbiamo visto come l’introduzione di Quota 100 sia andata esattamente nella direzione di aumentare questa diseguaglianza, le motivazioni politico-elettorali fanno premio su quelle dell’equità.

Anche qui servono alcune premesse, partendo dai dati che consentono di fotografare la situazione attuale della nostra spesa pensionistica e soprattutto delle sue prospettive future. I numerosi interventi di riforma della previdenza, iniziati nel lontano 1992, sono serviti soprattutto a mantenere costante il numero di prestazioni erogate fra il 2000 e il 2020, ma non hanno impedito una crescita della spesa complessiva, in aumento del 2,8% in termini nominali su base annua. Tale crescita va rapportata con quella del pil per avere una visione della sostenibilità del sistema.

Notate come la spesa si impenni nel 2008 e nel 2020, ossia in occasione di gravi crisi economiche che hanno determinato una brusca diminuzione del pil. Ma aldilà di questi eventi specifici, è evidente la tendenza alla crescita almeno fino al 2014, quando si è avuto un lieve miglioramento determinato dal moderato aumento del prodotto e insieme da una riduzione della spesa determinata da nuove riforme delle pensioni.

Questa relazione va letta insieme a un’altra che ci consente di capire meglio quale possa essere l’evoluzione del nostro sistema previdenziale, ossia il rapporto fra il numero dei pensionati e gli occupati. Questo indicatore “ha registrato un calo significativo a partire dal 2015, a seguito della crescita dell’occupazione per l’effetto congiunto di Jobs Act e decontribuzioni”. E tuttavia rimane inferiore a 1,5 lavoratori per pensionato, “un valore di gran lunga più basso del valore medio europeo”. Una conseguenza della nostra tendenza crescente all’invecchiamento della popolazione – siamo i più vecchi d’Europa – e anche del nostro basso tasso di occupazione. E forse, aggiungiamo noi, anche della nostra tendenza pronunciata ad anticipare la pensione con ogni possibile espediente. Il grafico sotto analizza questo indicatore.

Anche l’aumento del rapporto, che si vede a partire dal 2020, è una conseguenza della pandemia, che ha provocato un brusco calo dell’occupazione. Ma in ogni caso rimane la tendenza di fondo, che è collegata a un’altra altrettanto rilevante: quella fra l’importo delle pensioni e il numero degli occupati.

Questo indicatore è cresciuto del 70% fra il 2001 e il 2020. Ora si è attestato intorno ai 13.000 euro di spesa pensionistica per ogni lavoratore, una crescita determinata dal mancato incremento dell’occupazione. Insomma: poiché non sono aumentati i lavoratori, quelli in servizio hanno dovuto accollarsi il peso delle pensioni in essere. E non tanto perché siano aumentate le prestazioni, diminuite anzi del 2%, ma perché è aumentato l’assegno medio di un notevole 68%. Anche questo determina il cuneo fiscale che tanto fa soffrire i redditi e quindi alimenta le lamentazioni sulla diseguglianza. Ma parlarne non è alla moda.

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