La grande convergenza sul paradigma dello squilibrio

Oggi proviamo a levare lo sguardo da ciò che ci è più prossimo per indirizzarlo verso ciò che appare distante. Un esercizio di osservazione che forse è più utile dell’ennesima riproposizione dei soliti punti di vista per scrutare ai fatti economici.
Cominciamo dai due problemi più urgenti che ci propone l’attualità: la crisi bancaria, che potrebbe diventare finanziaria, e quella inflazionistica, che ha già gravi ricadute sociali. Cosa hanno in comune queste due crisi? Sono frutto di un qualche squilibrio.
I manuali di economia, da tempo immemore, insegnano (vorrebbero almeno) che lo scopo dei sistemi economici è perseguire l’equilibrio. Questo pensiero parte da lontano e non è questo il luogo per ripercorrerne la genealogia. Tuttavia vale qui leggere le parole scritte su libro pubblicato un decennio fa.
“Probabilmente la concezione metafisica della realtà atemporale ha causato il danno più grave attraverso la sua influenza sull’economia. Il difetto fondamentale nel pensiero di molti economisti è la convinzione che il mercato sia un sistema con un unico stato di equilibrio. Esiste persino un teorema matematico che afferma che nello stato di equilibrio nessuno può essere reso più felice senza che qualcun altro diventi meno felice”.
Quindi, la conseguenza: “Se esiste un solo equilibrio stabile, non ci sono molte possibilità per l’azione umana e la cosa migliore da fare è lasciare libero il mercato di raggiungere quell’equilibrio. Se invece gli equilibri possibili sono molti, e nessuno è completamente stabile, allora l’azione umana deve partecipare e guidare la dinamica in base alla quale si sceglie un equilibrio tra i molti possibili”.
Prima di sapere chi ha scritto queste parole, conviene capirle bene. L’idea di equilibrio nasce da un paradigma – sostanzialmente quello newtoniano – nel quale spazio e tempo sono enti assoluti all’interno dei quali, conoscendo le condizioni iniziali, possiamo dedurre quelle finali applicando delle regolarità in forma matematica che vengono chiamate leggi. Da questo paradigma all’equilibrio generale di Walras il passo è molto breve.
La conseguenza di questo paradigma è una realtà pre-determinata, il cui ordinamento è affidato a una logica esterna – quella di mercato nel caso di Walras, quella di Dio nel caso di Newton – dove di fatto il futuro è determinato dal passato. Le condizioni iniziali, appunto.
Se il punto d’arrivo è l’equilibrio, tutto ciò che vi si oppone è un disturbo che deve essere eliminato, per la semplice ragione che non corrisponde allo stato ideale. Ogni realtà atemporale è deterministica quindi non crede nella libertà: il futuro è sostanzialmente scritto e deve solo essere scoperto.
Proviamo adesso a capovolgere il paradigma. Diciamo che lo stato di equilibrio è illusorio come l’idea che esista una realtà atemporale. Poiché viviamo nel tempo, dobbiamo convivere con lo squilibrio ed è in questo squilibrio che troviamo ogni volta le risorse per generare la nostra prosperità. Quindi lo squilibrio è nostro amico: l’equilibrio una pericola illusione.
Accettare la realtà dello squilibrio significa coglierne le opportunità grazie all’uso intelligente della nostra immaginazione, che ha notevoli capacità. Lo scopo del pensiero economico, non è insegnare a perseguire l’equilibrio, e tantomeno teorizzarlo, ma insegnare a gestire in maniera creativa lo squilibrio. Non esiste la dicotomia fra stato e mercato. Esistono persone che devono decidere e agire.
Quanto all’immaginazione, vale la pena leggere un’altra citazione presa dallo stesso libro. “Tutto il progresso delle civiltà umana, dall’invenzione dei primi strumenti alle nascenti tecnologie quantistiche è il risultato dell’applicazione disciplinata dell’immaginazione”. E poi confrontarla con quest’altra, che è più recente ed è stata scritta prima di conoscere la prima. “Un libro non è soltanto un mucchio di parole: è nutrimento per l’immaginazione, ossia il nostro superpotere. Ne abbiamo un gran bisogno per scrivere il nostro futuro”.
E veniamo, infine alle fonti. Le prime tre citazioni sono estratte dal libro “La rinascita del tempo”, di Lee Smolin, famoso fisico teorico statunitense che ha come sottotitolo “Dalla crisi della fisica al futuro dell’universo”. Quella sul superpotere l’ho estratta dal mio libro, “La Storia della ricchezza” che ha come sottotitolo “L’avvento dell’Homo Habens e la scoperta dell’abbondanza”. Non certo per vanità. Ma perché è interessante osservare come uno scienziato che studia la fisica arrivi sostanzialmente alle stesse conclusioni di uno storico dell’economia quanto agli strumenti da utilizzare e alla visione che dobbiamo coltivare di fronte all’idea del futuro. Significa che è in corso una straordinaria convergenza fra scienze della natura e scienze sociali che di fatto rende insignificante questa distinzione. Gli scienziati della natura somigliano sempre più a quelli sociali, e viceversa. Quindi non c’è ormai più nessuna differenza. Ciò che conta è, appunto, il paradigma.
Qualunque sia la disciplina da cui si proviene, oggi il problema non è capire se l’universo abbia undici dimensioni o se l’inflazione sia un fatto di squilibrio monetario. Il problema è se vogliamo scriverci il futuro da soli o farcelo scrivere da altri. Questo è l’autentico problema proposto da tutta la scienza.
Nel primo caso dobbiamo salutare lo squilibrio come fattore evolutivo, non averne paura e imparare a gestirlo. Nel secondo farci addormentare da una qualunque narrazione, come si dice oggi. Abbracciare la realtà o scegliere una favola. A noi la scelta.
La critica del paradigma dell’equilibrio che viene qui abbozzata sottolineando l’importanza della dimensione temporale, è zoppa, in quanto ignora la molteplicità conflittuale dei capitali individuali e, in definitiva, ragiona come se il capitale fosse un monolite. Tale critica, pur arrivando a capire con Hegel che, nelle varie fasi del ciclo, “la quiete è solo un caso limite della contesa”, non giunge a comprendere le cause effettive per cui si produce l’alterna supremazia ora dell’uno ora dell’altro capitale. All’immagine del capitale che viene al mondo grondando sangue da ogni poro – come scrivevano gli storici francesi del Settecento – si sostituisce la rappresentazione della crisi di squilibrio come opportunità da cogliere, riproponendo in chiave evoluzionistica una variante del paradigma armonicistico su cui si basa l’economia neoclassica. Si considera, in buona sostanza, solo quella parte della realtà del rapporto di capitale, che Marx descriveva, quando le cose vanno bene per la borghesia, come l’azione di “una vera massoneria nei confronti della classe operaia nel suo complesso”. Così facendo, si trascurano le ragioni per cui i capitalisti, quando si fanno concorrenza, si comportano come dei falsi fratelli. Così, proprio perché del capitale non viene colta sino in fondo l’interna conflittualità, sono destinate a restare senza risposta le domande pur giuste formulate all’inizio, concernenti il legame che intercorre tra il passaggio dalla crisi bancaria alla crisi finanziaria e la crisi inflazionistica. Ma se la questione dell’equilibrio è inesorabilmente presupposta, neppure si pongono le condizioni del ‘non equilibrio’ e della ‘crisi’ e tutto per la teoria procede regolarmente. In base a quest’ottica nessuna crisi può aver luogo, giacché l’equilibrio ipostatizzato nella teoria sarebbe sempre possibile nella pratica, in una maniera o nell’altra, differita (come nella variante qui proposta) o simultanea. Nell’universo economico del mercato libero in cui opera la cosiddetta “mano invisibile” non si dà, in senso proprio, crisi, poiché la sola forma possibile di squilibrio che si può ipotizzare rinvia alla accidentale sproporzione tra i diversi rami della produzione o tra il consumo improduttivo dei capitalisti e la loro stessa accumulazione.
"Mi piace""Mi piace"
Salve,
Lei vede tutto in termini di capitalismo. Io in termini di umanismo. E per me l’unico capitale autentico è la nostra immaginazione. Io non credo che lei abbia torto ma neanche che abbia ragione. La invito a fare lo stesso.
Grazie per il commento
"Mi piace""Mi piace"