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Migliorano i conti con l’estero dell’Italia, ma lo scenario si complica

L’ultimo bollettino economico di Bankitalia osserva il miglioramento dei conti esteri italiani nel primo trimestre 2024, spinti al rialzo della crescita delle esportazioni (+0,6%), avvenuta malgrado lo scenario internazionale non sia dei migliori, come mostra il rallentamento rispetto al quarto trimestre 2023 (+1,2%).

La buona notizia, che si può osservare dalla tabella sopra, è la decisa crescita delle esportazioni di servizi “soprattutto di quelli alle imprese”, nota la Banca, che però non riesce ancora a trasformare questa componente in un attivo del conto corrente.

Quella meno buona è che l’export di beni ha rallentato, insieme alla frenata del commercio internazionale. Nessuna sorpresa: l’Italia è un paese che deve gran parte della sua crescita alle esportazioni nette, visto che la domanda interna non riesce a esprimere, un po’ come accade in tutta Europa, una grande dinamicità.

L’export di beni è diminuito intanto verso i paesi dell’EZ, “in particolare verso la Germania”, sottolinea Bankitalia. E in qualche modo il saldo netto è aiutato dal deciso calo dell’import, sia di beni che di servizi, che è una mezza buona notizia, visto che potrebbe segnalare un indebolimento della domanda e quindi delle produzioni future.

Sul lato delle nostre importazioni, si segnala un aumento dell’import dai paesi dell’eurozona, e un deciso calo dell’import dal resto del mondo, “in particolare da Cina, Asia orientale e Medio Oriente”, dice la Banca, anche a causa delle difficoltà logistiche generate dalla crisi del Mar Rosso.

Bankitalia stima che anche nel secondo trimestre l’export dovrebbe mostrare numeri positivi, ma sottolinea altresì che la debolezza della domanda estera lascia una pesante ipoteca sul futuro prossimo.

Complessivamente l’avanzo corrente è migliorato, per una serie di ragioni che comprendono anche un peso meno gravoso dei redditi primari, di cui abbiamo già parlato. Si tratta di fattori esposti al vento cangiante della stagionalità, però, e che non dovrebbero lasciarsi troppo tranquilli.

Se guardiamo il lato finanziario, infatti, osserviamo che c’è stata una grande domanda di titoli pubblici italiani dall’estero (42,6 miliardi nel trimestre) che se è una buona notizia perché segnala fiducia nel nostro paese, è anche un monito circa il fatto che questi debiti dovranno essere serviti ai tassi attuali, che non sono quelli di due anni fa. Peraltro anche il settore privato ha goduto di questa domanda estera di debito. Ciò significa che la voce dei redditi da capitale genererà passività crescenti in futuro che non è detto saranno compensate dagli attivi sui nostri investimenti esteri.

A tal proposito, ci rassicura il fatto che la nostra posizione netta sia migliorata rispetto alla fine del 2023. Siamo creditori netti dell’estero per 165,2 miliardi, il 7,9% del pil, in aumento di 189,5 miliardi rispetto a fine anno, Un po’ ha contribuito il saldo corrente, un po’ gli aggiustamenti di valutazione dell’oro, che denomina molta parte delle riserve di Bankitalia. Siamo fatti così. Un po’ all’antica.

Cartolina. Quando eravamo rentier

Sembra davvero tramontata l’epoca in cui i nostri conti esteri potevano trarre qualche beneficio dalle rendite dei nostri investimenti finanziari. Ormai dalla metà del 2023, complici una serie di fattori che non serve qui riepilogare, si è interrotta la lunga serie di saldi positivi dei redditi primari che contribuivano a stabilizzare il nostro saldo corrente, ossia uno dei principali sostegni della nostra economia. Poiché non riusciamo a “sfondare” nel settore dei servizi e i redditi sono andati, sono rimaste solo le merci ad alimentare il nostro attivo con l’estero. E va bene così, ma era meglio prima. Quando eravamo rentier.

L’Italia torna creditrice estera, bolletta energetica permettendo

Il bollettino economico di Bankitalia osserva che l’Italia, dopo lo sprofondare del proprio conto corrente negli anni della pandemia – ricordo che il conto corrente della bilancia dei pagamenti misura gli andamenti degli scambi con l’estero – quest’anno è tornata ad essere creditrice netta, seppure in un contesto a dir poco complicato.

La bilancia dei beni, infatti, ha recuperato ma in larga parte grazie alla “normalizzazione” delle importazioni energetiche, che si sono ridotte in valore, più che in volume dopo il raffreddarsi dei prezzi delle materie prime.

L’export, infatti, non ha espresso un grande tonicità. Al contrario: le esportazioni sono diminuite dell’1,4 per cento, in ragione anche del raffreddarsi della domanda globale e le importazioni dell’1 per cento in volume ma ben del 5,2 per cento in valore. Al contrario continua a crescere l’import di servizi, in buona parte correlata alla maggior spesa dei turisti italiani all’estero.

Il miglioramento della bilancia energetica spiega larga parte del ritorno in attivo del conto corrente, ma soprattutto solleva molte domande sulla resilienza di questa ripresa in un contesto di mercati energetici ancora molto volatili.

A tal proposito Bankitalia quantifica nel 5,4 per cento del pil il deficit energetico italiano nel 2022, ossia la nostra bolletta energetica, che si confronta con il 4,1 della Francia, il 3,8 della Spagna e il 3,6 per cento della Germania. Siamo quelli messi peggio, insomma, fra i grandi paesi europei. E la situazione è pure migliorata, nel terzo trimestre del 2022 abbiamo raggiunto il picco del 7,1 per cento del pil di deficit, che per fortuna si è ridotto al 3,6 nel primo trimestre di quest’anno.

Le stime di Bankitalia per l’anno in corso ipotizzano che la bolletta energetica dovrebbe migliorare di 2,2 punti rispetto all’anno scorso, con benefici crescenti per l’avanzo corrente, che dovrebbe portarsi all’1,7 per cento del Pil a fronte dello 0,8 osservato nel primo trimestre. Anche nello scenario avverso, che ipotizza prezzi simili a quelli del 2022, l’avanzo dovrebbe comunque stabilizzarsi al livello del primo trimestre, consentendo al paese di rimanere creditore dell’estero. Una circostanza che può solo far bene a un paese con una finanza pubblica fragile.

Ovviamente questa previsione non tratta il caso che lo shock possa arrivare da altri mercati, diversi da quello energetico. Ma conferma quello che sapevamo già: la buona salute della nostra economia dipende dalla nostra capacità di esportare e di far fruttare i nostri risparmi, visto che i redditi primari sono una componente positiva del conto corrente.

Parsimonia e laboriosità, insomma, sono ciò che ci far star bene. Su quello che ci fa star male, c’è l’imbarazzo della scelta.

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I sette anni che hanno cambiato il mondo

C’è tutta una tradizione sui settenni, sul valore simbolico del numero sette, sui suoi affastellati mistici o religiosi che però, esondando dagli argomenti di questo blog, vi risparmio. Mi limito a ricordare le proverbiali vacche magre cui di solito, dopo sette anni, seguono le vacche grasse, o viceversa se preferite.

Ci ho pensato sopra perché a un certo punto del mio peregrinare mi sono imbattuto in un un bellissimo grafico costruito dall’Istituto di statistica inglese ONS che riepiloga il settennio terribile (in realtà gli anni sono otto, ma non stiamo a sottilizzare) iniziato nel 2008 e finito nel 2014 dei paesi del G7, ossia le cosiddette economie avanzate, utilizzando come angolo di osservazione il contributo delle varie componenti del conto corrente della bilancia dei pagamenti.

Ricordo ai meno appassionati che il saldo di conto corrente, ossia la differenza fra entrate e uscite, ci dà una prima informazione generale sullo stato di un paese. Se, vale a dire, è complessivamente debitore o creditore relativamente alle partite che il conto corrente registra, che poi sono le transazioni di beni e servizi (bilancio commerciale o trade balance nel grafico) e i redditi, suddivisi in primari e secondari.

Quest’ultima classificazione merita di essere approfondita. I redditi primari sono sostanzialmente i redditi che derivano dal capitale e dal lavoro. I secondari sono le imposte, i contributi  e le prestazioni sociali e i trasferimenti personali. Chi volesse approfondire può trovare sul sito della Banca d’Italia tutti i riferimenti aggiornati secondo i nuovi standard internazionali.

Scusate la premessa, ma senza sarebbe stato difficile discutere ciò che il grafico sommarizza.

Il primo paese del G7 nell’elenco è la Germania. Quest’ultima nel periodo considerato ha visto aumentare il saldo positivo di conto corrente, che ormai sfiora il 9% del Pil. L’analisi delle componenti ci rivela un’altra informazione, ossia che l’aumento dell’attivo è in gran parte dovuto all’aumento dei redditi primari, mentre il conto del commercio è sostanzialmente stabile, quindi dei ricavi dagli investimenti esteri. Ciò conferma una tendenza che era già emersa chiaramente: la Germania inizia a vivere delle proprie rendite.

Se guardiamo al nostro Paese, osserviamo che l’Italia è riuscita a trasformare il proprio deficit di conto corrente, che nel 2007 era di poco inferiore al 2% del Pil, in un attivo, che a fine 2014 si colloca intorno al 2%. La composizione di tale saldo ci dice altro. La prima cosa è che nel 2007 i redditi secondari erano positivi, anche se di poco, mentre nel 2014 sono diventati negativi. Ciò significa che paghiamo più rendite di quante ne incassiamo. E questo dipende probabilmente dalla quantità di debito estero che abbiamo cumulato nel frattempo.

Un’altra informazioni la troviamo guardando al conto merci. Nel 2007 era in deficit. Nel 2014 è in attivo per oltre il 3% del Pil. L’unico attivo, visto che la voce dei redditi, sia primari che secondari, è negativa. Ciò significa che il miglioramento della nostra posizione estera è dovuta interamente alla bilancia commerciale, e che tale tendenza dovrebbe consolidarsi, atteso che è presumibile che continueremo a lungo a pagare rendite ai nostri creditori esteri.

Il Giappone mostra un’altra curiosa evoluzione. L’attivo di conto corrente si è ridotto fortemente, da circa il 5% del 2007 a più o meno l’1%, con il conto delle merci in deficit, a mostrare come la crisi abbia notevolmente peggiorato la bilancia dei beni e servizi malgrado la notevole svalutazione dello yen.

Degno di nota anche il fatto che il residuo attivo di conto corrente è dovuto alla notevole crescita dei redditi primari, cresciuti di circa mezzo punto di Pil nel periodo. In pratica la posizione estera del Giappone si tiene in piedi grazie alle rendite percepite dall’estero.

Un’evoluzione simile a quella vissuta dalla Francia, che nel 2007 aveva un attivo sulla bilancia dei beni e servizi e un deficit su quella dei redditi primari, mentre nel 2014 la situazione è del tutto invertita. La bilancia del commercio è negativa, mentre quella dei redditi primari è attiva per oltre il 2%. Ciò non impedisce alla Francia di avere complessivamente un peggioramento del saldo, che era in deficit nel 2007, anche se di poco, nel 2014.

Anche il Canada ha cambiato la sua posizione. Da un saldo attivo nel 2007 vicino all’1%, nel 2014 ha superato il 2% di deficit. Tale situazione è stata determinata dal drastico peggioramento della bilancia di beni e servizi, prima attiva per il 2% del Pil, e ora in deficit.. Il Canada in pratica ha tutte le partite correnti deficitarie.

Gli Stati Uniti sono gli unici insieme alla Germania e all’Italia, ad avere migliorato il saldo corrente. Nel 2005 avevano un deficiti vicino al 5% e ora stanno poco sopra il 2%. A tale miglioramento hanno contribuito la diminuzione del deficit della bilancia di beni e servizi e l’aumento dell’attico dei redditi primari, cui certo non è estranea la particolare situazione monetaria di cui gli Usa godono per essere in pratica gli emittenti della moneta internazionale.

Infine, il Regno Unito, che è riuscito come il Canada a far finire in deficit tutte le partite correnti, con la conseguenza che il saldo è negativo per oltre il 5% del Pil quando nel 2007 era un po’ meno del 3%. Il peggioramento si deve allo sprofondamento dei redditi primari, che erano attivi per circa l’1% nel 2007 e sono diventati passivi per oltre il 2% nel 2014, e di quelli secondari che hanno più che compensato il miglioramento del deficit del conto trade.

Questa situazione mostra con evidenza come la crisi abbia cambiato il mondo delle economie avanzate, non sappiamo se in meglio o in peggio, e consente di trarre alcune considerazioni.

La prima è che i vari QE hanno premiato solo la posizione estera degli Stati Uniti, paese sui generis, mentre hanno penalizzato sia l’UK che il Giappone. La seconda è che gran parte del benessere di molti paesi avanzati (Germania, Giappone, Francia e Usa) si deve alle rendite percepite dall’estero. Il che fa molto Ottocento, se ci pensate un attimo.

La terza è che questa situazione non ci permette di rispondere a una semplice domanda: siamo certi che i setti anni che sono passati, che tutti pensavano essere quelli delle vacche magre, sono stati veramente gli anni orribili per l’economia dei paesi del G7? E se invece fossero quelli delle vacche grasse?

Ah, saperlo…