Etichettato: quaterly review Bis

Più che le banche italiane spaventano quelle cinesi

In tempi di emergenza bancaria, con le cronache a ricordarci tutti i giorni le fragilità degli istituti europei, a cominciare dei nostri, mi sorprendo a notare la distrazione dei solitamente puntuti osservatori di fronte all’evidenza dei rischi che affliggono le banche cinesi. Queste ultime, già provviste di ampio e documento curriculum quanto ai disastri che sono capaci di provocare a livello globale, rimangono confinate nel confortevole recinto del sapere specialistico, anche quando, come è successo di recente nell’ultimo quaterly review della Bis, si scrive a chiare lettere che i rischi allignino da quelle parti assai più che da noi.

Scorgo, in questa distrazione, il segnale dell’eurocentrismo che ancora affligge i nostri commentatori di cose economiche, che mi sembra giusto provare a bilanciare raccontandovi di come stiano evolvendo in Cina gli indicatori di allerta precoce che la Bis si premura di aggiornare ogni trimestre, senza con ciò riuscire a superare l’ignavia generale. Può essere utile perciò proporre qui l’ultima tabella che li riepiloga, dedicando qualche riga a spiegare come funzionino e a cosa servano.

Gli indicatori servono a stimare la tensione nei diversi mercati finanziari utilizzando alcuni parametri che storicamente e statisticamente sono associati a crisi.  Il primo di essi è il gap credito/Pil che misura la crescita del credito interno in uno stato, misurando lo scostamento rispetto alle serie storiche. Più l’indicatore sale, più la crescita del credito si discosta dalla media storica. E poiché la crescita esuberante del credito è spesso associata a una crisi bancaria nell’arco di un triennio, gli indicatori rossi che vedete nella tabella funzionano come segnale d’allarme. Non prevedono il futuro, ma provano a mettere in guardia.

Da questo punto di vista, il caso cinese è decisamente allarmante. L’indicatore sul gap credito/pil ha superato 30, più del doppio dell’indicatore medio dell’Asia e del Canada, che è il secondo paese fra quelli monitorati che mostra un’accelerazione del credito interno. A questo livello di indice, il segnale di allerta si connoterà come esatto se davvero si verificherà una crisi bancaria nel prossimo triennio. Ovviamente ci auguriamo, per il bene di tutti, che non accada. Ma l’indicatore sul rosso fisso dovrebbe invitarci a prestare attenzione.

Il confronto con i paesi europei, che sappiamo alle prese con una difficile situazione creditizia, sia sul lato dell’offerta che della domanda, è interessante. Il Italia, per guardare a casa nostra, il gap credito/Pil è negativo per oltre 13 punti, connotandosi così ben al di sotto della media storica. Altri paesi europei, come i Paesi Bassi e il Portogallo, rivelano un indicatore ancora più basso. Quanto alla Germania, l’indicatore è negativo per circa 6 punti. Ovviamente questa misurazione può anche essere letta come la controprova della debolezza dell’economia in questi paesi, e non sarà certo un buon indicatore di allerta precoce a salvarli dal rischio di una crisi bancaria. Ma allo stato delle cose è assai più probabile che accada in Cina piuttosto che da noi.

Sarà bene ricordarselo.

 

La Brexit delle banche inglesi è iniziata nel 2012

Quel che bisognerebbe osservare, nel futuro dei negoziati che opporranno l’Ue alla UK per decidere il futuro della Brexit, è la fisionomia che andrà ad assumere la regolamentazione delle banche britanniche. Queste ultime, come ricorda la Bis nel suo ultimo quaterly review, sono “un centro nevralgico dell’attività bancaria internazionale”. E non tanto (o non solo) per la quantità di risorse che passano dal Londra, ma perché “Il Regno Unito svolge un ruolo particolarmente importante come centro di redistribuzione dei capitali denominati in euro”.

Agli inglesi l’euro non piace, e la Brexit sta lì a confermalo, ma commerciare in euro è stato, ed è tuttora, una delle attività preferite degli intermediari dislocati a Londra, “la maggior parte dei quali – ricorda la Bis – ha sede legale fuori dal Regno Unito”. Sono quindi banche estere allocate a Londra, ma non banche inglesi strictu sensu. Cambiare le regole del gioco, quindi, potrebbe avere un’influenza determinante per il territorio britannico che, giova ricordarlo, dall’attività finanziaria trae una quota significativa del proprio prodotto lordo.

L’analisi svolta dalla Bis consente di apprezzare l’importanza di questo smercio di euro che vede Londra nel ruolo di hub. “Le banche e gli altri intermediari finanziari ubicati nel paese prendono in prestito euro dall’estero per poi investirli in attività transfrontaliere denominate in euro. Le banche situate nel Regno Unito rappresentano i maggiori prenditori e prestatori di euro al di fuori dell’area dell’euro”.

Per avere un’idea di quanto pesi questa prassi, basta ricordare che circa il 54% di tutti gli impieghi transfrontalieri non consolidati denominati in euro a livello mondiale
al di fuori dell’area dell’euro e il 60% di tutte le passività segnalate alla Bis erano nei confronti di residenti nel Regno Unito. Di recente, tuttavia, questa quota è diminuita, in parte perché sono aumentate le attività in euro di altri parte del mondo – ad esempio grazie al notevole aumento di emissioni obbligazionarie in euro di residenti Usa – e poi per le mutare ragioni di cambio.

Rimane il fatto, tuttavia, che “dal lancio della moneta unica, le posizioni denominate in euro hanno rappresentato gran parte dei portafogli transfrontalieri delle banche ubicate nel Regno Unito”. In sostanza, le banche inglesi sono quelle che più di tutte hanno prestato in euro prendendo a prestito in euro. “Per la maggior parte degli anni 2000 – sottolinea – la quota dell’euro nelle attività transfrontaliere delle banche nel paese ha oscillato intorno al 40%, eguagliando pressoché quella delle attività denominate in dollari Usa”.

Questa particolarità deriva dal fatto che c’è una differenza sostanziale fra le banche inglesi propriamente dette, ossia di nazionalità inglese, con quelle di nazionalità estera che però agiscono sul territorio britannico. “Il Regno Unito emerge come centro nevralgico preminente dell’attività bancaria internazionale – spiega la Bis -.
Tuttavia, gran parte di questa attività è riconducibile a banche di altri paesi con dipendenze nel Regno Unito”. Che poi magari sono le stesse che prestano in euro alle loro dipendenza britanniche e da lì trasferiscono euro fuori dall’UK. Evidentemente tali operazioni trovano la loro ragione d’essere in una qualche convenienza finanziaria che si motiva con le regole che legano le banche europee all’UK, ossia ciò di cui dovrà discutersi nei futuri negoziati.

Il risultato di queste pratiche è che alla fine di marzo 2016 le banche situate nel Regno Unito sono risultate le più attive nelle concessione di crediti transfrontalieri, con ben 4.500 miliardi di prestiti concessi, seguite da quelle del Giappone, con 4.300, e degli Usa, con 3.800 miliardi. Ovviamente, per poter dare tanto, bisogna pure ricevere parecchio. E infatti il Regno Unito, con 3.800 miliardi, è risultato, sempre nel periodo considerato, come il secondo maggior destinatario di credito bancario transfrontaliero dopo gli Usa (4.800 miliardi). Quasi due terzi di questi crediti erano impieghi interbancari, un terzo dei quali con banche collegate. Vale la pena osservare che la maggioranza delle attività verso il Regno Unito arriva dalle banche statunitensi, seguite però a poca distanza da quelle tedesche, spagnole e francesi.

Quel che bisogna osservare, perciò, dell’esito del post Brexit, è se e come le regole che andranno a decidersi finiranno col turbare pratiche ultradecennali che hanno consentito all’UK di diventare lo snodo fondamentale della finanzia europea. Pratiche che già le perturbazioni dei mercati con l’esplodere della crisi hanno notevolmente mutato.

Se infatti è vero che sin dal suo esordio le posizioni denominate in euro sulla piazza londinese hanno pareggiato quelle in dollari – circa il 40% delle attività transfrontalieri – dal 2012 queste quote hanno iniziato ad assumere andamenti divergenti, in gran parte a causa dell’andamento dei tassi di cambio. Sicché dal 2012 a marzo 2016 la quota in euro è scesa dal 39 al 33% a fine marzo 2016, mentre quella in dollari è salita dal 39 al 44%. In sostanza, le banche localizzate in UK hanno trovato sempre meno conveniente usare euro per i propri prestiti. La Brexit dei banchieri inglesi non è iniziata il giugno del 2016. Ma almeno quattro anni prima.

Gli esiti mutevoli della deflazione: il peso del debito

E infine arriviamo al punto: quale esito comporta una deflazione prolungata in un contesto economico caratterizzato da un pesante livello di indebitamento?

Cerco una risposta nell’articolo “The costs of deflations: a historical perspective“, pubblicato nell’ultima quaterly review della Bis, incoraggiato da una domanda che si pongono gli autori: la debt-deflations è importante?

Prima di rispondere, bisogna rispolverare un po’ di storia.

Il concetto di debt-deflation risale, come gran parte delle nostre opinioni sulla deflazione, agli anni della Grande Depressione, e in particolare venne coniato da Irving Fisher, che nel 1933 pubblicò un celebre studio (The debt-deflation theory of great depressions) nel quale si proponeva di analizzare le interazioni fra il debito e la deflazione dei prezzi, partendo da un semplice principio. In caso di prezzi declinanti, il valore dei debiti aumenta.

In un contesto di alto indebitamento ciò può provocare crisi bancarie e default.

Gli autori della Bis ci ricordano che quandò inventò il termine, Fisher si preoccupava del settore business, che nei magici anni Venti era quello più esposto al debito. “Oggi – osservano – il focus è forte, se non più forte, sulle famiglie e il settore pubblico”.

Due grafici mostrano con chiarezza il motivo di tale affermazione. Nel panel considerato di 16 economie si osserva con chiarezza che il debito del settore pubblico sfiora ormai il 90% del Pil e quello del settore privato i 170%.

Questo tipo di deflazione è l’ennesima variante delle deflazioni possibili, diversa quindi da quella dei prezzi al consumo e diversa da quella degli asset, ognuna delle quali, come abbiamo visto, ha esiti assolutamente diversi.

Per quanto difficoltosa, l’analisi degli autori si propone di valutare la consistenza della relazione fra l’andamento dei prezzi e del debito e vedere se esiste una qualche forma di correlazione fra quest’ultimo, sia pubblico che privato, e la crescita. Per dirla con le lor oparole, il tentativo è quello di stabilire “l’intensità del link fra un rallentamento del prodotto successivo a un picco e il debito nel caso di un episodio di deflazione persistente”.

Chissà perché mi fischiano le orecchie.

Pur se con mille caveat, dovuti principalmente alla disponibilità di dati, i risultati dell’analisi mostrano un risultato che solo in parte assevera la teoria della debt-deflations.

In particolare ciò che emerge con forza è “l’interazione dannosa del debito con i prezzi degli asset, in particolare con quelli immobiliari“. O, per dirla altrimenti, “il debito rende le deflazioni dei prezzi immobiliari più costose, almeno quando interagisce con la misura del credit gap”.

Il credit gap, così come è stato definito, misura gli scostamenti negli andamenti del credito rispetto al suo trend naturale. Una sorta di boom creditizio, insomma.

“Il risultato inoltre suggerisce che un alto debito o un periodo di crescita eccessiva del debito non aumenta un modo visibile il costo della deflazione dei beni e dei servizi, al contrario di quanto accade quando si parla di deflazione degli asset, in particolare di quelli immobiliari”. E questo dimostra ancora una volta, qualora fosse ancora necessario, che ” i boom e bust finanziari, o cicli finanziari, meritano una maggiore attenzione”.

La spiegazione del perché una deflazione dei beni e dei servizi  non impatti sul debito mentre quella degli immobili sì, si può trovare, scrivono gli autori, nel cosiddetto effetto-ricchezza, sul quale il mattone ha sicuramente un peso relativo importante.

Come esempio viene citato il caso americano. Gli autori hanno stimato che il costo della deflazione degli asset dopo il picco del 2008 sia stato di 9,1 trilioni di dollari per gli immobili e di 11,3 trilioni per i detentori di titoli dello S&P 500. Una ipotetica deflazione dell’1% l’anno per tre anni avrebbe provocato un costo di debt-deflation, ossia di aumento del valore del debiti privato e pubblico, di circa 1,1 trilioni, dei quali 0,4 a carico delle famiglie e il resto in parti uguali fra imprese non finanziarie e settore pubblico.

E’ chiaro insomma che una deflazione degli asset ha effetti molto più devastanti, quando il debito è alto, rispetto alla debt-deflation ipotizzata da Fisher, che esiste ma ha un peso specifico inferiore. E soprattutto, ha esiti sociali diversi. La deflazione degli asset colpisce i possessori di ricchezza. La deflazione dei beni e dei servizi ha effetti redistributivi. L’aumento del costo del debito ipotizzato da Fisher, infatti, oltre ad essere pagato da tutti, specie quando riferito al settore pubblico, arricchisce i creditori.

Come si può sintetizzare tutto ciò?

La prima conclusione che fanno gli autori è che la deflazione non è il male assoluto. Ci sono diversi tipi di deflazione e quella che ha fatto più danni, anche in tempi a noi vicini, è stata quella dei prezzi immobiliari. Inoltre, un livello di debito elevato rende costosa la deflazione, ma tale costo è assi più significativo in presenza di una deflazione degli asset. Infine, che il ciclo finanziario, ossia il boom creditizio che sostiene i picchi di valore nominale degli asset, è assai più pericoloso di quanto si pensi.

Ciò che ne ho tratto io, da questa lunga analisi, è che ciò che ci nutre (il credito) contiene il seme (il debito) che minaccia di distruggerci. E soprattutto la sensazione che la deflazione dei prezzi, che così tanta pubblicistica ha avuto ai tempi nostri, sia stata un pretesto per contrastare quella degli asset.

Il QE è servito a salvare i prezzi degli immobili e delle azioni, non quello del pane. Oltre che scaricare sui creditori parte del costo del riaggiustamento.

Ma questo si poteva capire da tempo.

Solo che non si può dire.

(3/fine)

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