Etichettato: riforma sistema monetario internazionale
L’insaziabile fame d’oro della Cina
Come nei tempi lontani, quando l’Asia tesaurizzava metallo prezioso, anche oggi fiumi d’oro si spostano da Ovest a Est, e in particolare in Cina, incuneandosi in sotterranei canali di trasmissione che sfuggono agli occhi assai curiosi degli osservatori internazionali, resi attenti dal silenzio, davvero d’oro, nel quale le autorità cinesi avvolgono la loro strategia di accumulazione di riserve e la gestione di tali flussi, che vengono destinati a investimento, a usi industriali e di gioielleria.
Sappiamo però alcune cose. Sappiamo, ad esempio, che già da alcuni anni la Cina è diventato il primo produttore d’oro nel mondo, la produzione stimata è di circa 400 tonnellate l’anno, surclassando il Sudafrica.
Sappiamo poi che la borsa dell’oro di Shangai sta rapidamente scalando posizioni nella classifica della piazze finanziarie che trattano l’oro, proprio dietro il Comex e il London bullion market e che dovrebbe consentire, come ha scritto Bloomberg, il commercio di lingotti nella sua zona di libero scambio al fine, evidente, di diventare un hub regionale delle contrattazioni in oro che, giova notarlo, verranno denominate in yuan.
La free zone avrà una capacità di stoccaggio di 1.500 tonnellate d’oro che potranno essere importate in Cina o essere destinate ad altri mercati. La mossa, dicono gli analisti dovrebbe servire a rianimare un mercato che, dopo il boom del 2013, adesso sta tirando il fiato. Ma a nessuno sfugge l’importanza strategica di una nuova piazza finanziaria gold-based nei mercati asiatici. E i numeri dello Shangai gold exchange, in costante crescita anche se ancora bassi rispetto ai concorrenti, che peraltro dovrebbe avviare anche dei contratti derivati basati sull’oro, che poi sono quelli che fanno la fortuna dei mercati angloamericani.
Sappiamo inoltre che la fame d’oro della Cina è destinata a crescere. L’ultimo rapporto del World gold council, che risale all’aprile scorso, fotografa con chiarezza che la domanda d’oro da parte dei cinesi è destinata ad aumentare nel futuro, come d’altronde succede ininterrottamente da almeno un ventennio, e in particolare negli ultimi dieci.
Se tralasciamo la domanda per gioielleria, industria o investimento, che pure è significativa, atteso che la popolazione aumenta e il peso della classe media che vuole investire in oro e compra gioielli pure, vale la pena concentrarci su quella del settore ufficiale, ossia delle riserve a fini monetari.
Il rapporto del World gold council riporta la stima delle riserve in oro delle autorità monetaria cinesi che risale al 2009, ossia l’ultima volta che la banca centrale ha rilasciato i dati, e che il Fondo monetario ha classificato nelle sue statistiche. Si tratta di 1.054 tonnellate che, teoricamente, non sono aumentate dal 2009, anche se nessuno ci crede e tutti attendono con comprensibile curiosità che la Banca centrale Cinese si decida a rivelare lo stato dell’arte, circostanza che secondo alcuni osservatori potrebbe verificarsi nel 2015, atteso che l’aggiornamento del 2009 è arrivato dopo quello del 2002.
A proposito. Vale la pena rilevare che le riserve auree cinesi a fini monetari sono cresciute notevolmente negli ultimi trent’anni in valori assoluti anche se sono diminuite notevolmente in percentuale a causa dell’esplosione di quelle valutarie. Nel 1980 erano appena 395 tonnellate, pari a quasi il 9% delle riserve arrivando fino al 14-18% dei primi anni ’90. Poi il calo relativo è iniziato ed è proseguito fino al 2001, quando sono iniziati gli acquisti massici, probabimente per bilanciare l’altrettanto massiccia accumulazione di riserve valutarie in dollari. Nel 2002 erano già arrivate a 600 tonnellate. Poi silenzio fino al 2009, quando si arriva alle 1054 che conosciamo adesso, che però pesano poco più dell’1% delle riserve, pur se collocano la Cina al sesto posto nella classifica mondiale di chi detiene oro ai fini di riserva dopo Usa, Germania, FMI, Italia e Francia.
Se si considera il cospicuo incremento delle riserve che si è verificato nei paesi emergenti durante la Grande Crisi, è ragionevole immaginare che sia cresciuta notevolmente anche la componente aurea di quelle cinesi, solo che fino a quando le autorità cinesi non si decideranno a rivelare i dati, si possono solo fare speculazioni. Alcuni, ad esempio, pensano che ormai le riserve auree abbiano superato le 4.000 tonnellate. E se così fosse sarebbe altrettanto ragionevole chiedersi a cosa preluda una tale redistribuzione strategica dell’oro fra le banche centrali di mezzo mondo.
Il World Council nota che l’accumulazione di riserve auree cinesi sia un semplice espediente per innalzare la quota d’oro nelle riserve, ancora molto bassa, l’1,1% ai prezzi di mercato del 2013, rispetto alla montagna di dollari custodita nei forzieri cinesi. Ma anche se fosse solo una questione di diversificazione di asset sarebbe saggio non ignorarla. Accumulare oro invece che dollari non implica di per sé una preferenza?
Rimane il fatto, come nota il WGC, che “il peso della Cina nel sistema monetario internazionale è cresciuto sostanzialmente e aumenterà ancor di più quando lo yuan diventerà più internazionale“. In passato, ricorda ancora, gli attivi di conto corrente cinesi venivano investiti in debito pubblico americano, tuttavia negli anni recenti le politiche fiscali e monetarie degli americani hanno messo a dura prova “la pazienza dei grandi creditori”.
“C’è una scuola di pensiero in Cina – osserva – secondo la quale l’America sta deliberatamente scaricando sulle spalle di altri paesi il costo dell’aggiustamento per mantenere la sua egemonia strategica”. Secondo costoro la Cina dovrebbe diversificare le sue riserve, o magari impiegarle per sviluppare il consumo interno, cambiando perciò l’attuale modello di sviluppo basato su export e investimenti, che ha finito con l’accendere una tremenda ipoteca sui crediti cinesi, rappresentata dall’essere emessi dal più grande debitore del mondo.
Il dilemma di cosa fare delle enormi riserve accumulate è un pensiero non da poco della autorità cinesi, che non possono semplicemente liberarsi dei dollari per non pregiudicare i propri crediti, anche perché, reazioni americane a parte, non saprebbero dove indirizzare le risorse una volta liberate, atteso che le valute di riserva sono poche o non capienti abbastanza da sopportare i larghi afflussi che ne deriverebbero. Senza consideare che una vendita massiccia di asset denomnati in dollari deprimerebbe in maniera sostanziale la parte delle riserve residue in valuta americana. Detto in altre parole, i cinesi sono intrappolati nella loro stessa ricchezza. E l’unico modo per uscire dalla trappola del dollaro è quella di immaginare un nuovo sistema monetario dove l’oro non potrebbe che giocare un ruolo.
Al tempo stesso le autorità cinesi potrebbero incoraggiare il possesso privato di oro per indirizzare la ricchezza dei cinesi verso l’oro piuttosto che verso asset denominati in valuta estera. Tale accumulazione potrebbe risultare utile, come lo è stato in Corea del Sud quando ci fu la crisi delle tigri asiatiche e l’oro dei cittadini fu mobilitato per “salvare la patria”. Oltre al fatto che tesaurizzare oro aiuta a frenare le spinte inflazionistiche importate dall’estero. Al momento le stime calcolano in almeno 2.000 tonnellate l’oro accumulato dal settore privato cinese.
Tutto ciò spiega perché molti analisti si siano convinti che il futuro del sistema monetario tornerà a passare da un generale rebalancing dell’oro custodito nelle riserve, pure in un’ottica di sistema valutario multi-laterale, che tornerà ad essere protagonista. Certo, servirà tempo. Il futuro del sistema monetario passa per la convertibilità dello yuan, ormai auspicato da tante banche centrali, e da una decisiva riforma del Fondo monetario internazionale, che però gli americani ancora (e non a caso) avversano.
La sensazione, tuttavia, è che questa sorta di redde rationem verrà posticipato finché sarà possibile. Il mondo guarda alla vicenda economica americana ed europea cercando di capire se l’azione della Fed e adesso anche della Bce basterà a far ripartire il meccanismo inceppato della crescita. E solo se l’azione delle banche centrali non basterà si passerà all’azione.
E non sarà uno spettacolo edificante.
Usa al bivio: La demonetizzazione del dollaro
L’osservatore distratto che si avventuri lungo la storia monetaria degli Stati Uniti arriverebbe agevolmente a un paio di conclusioni.
La prima è che le autorità Usa non si fanno alcuno scrupolo a far pagare il costo delle loro decisioni a larghi strati della loro popolazione e, in subordine, al resto del mondo. Quest’ultimo gli Usa lo vivono come un fastidioso altro da sé con cui doversi regolare e, di volta in volta, convincere, con le buone se possono, o sennò con le cattive.
La seconda conclusione è che le autorità americane si sono dimostrate sempre assai creative e altrettanto spregiudicate. Il famoso pragmatismo americano non si perita di distruggere consuetudini ultradecennali se ciò giova all’America e al suo principale feticcio: la sicurezza nazionale.
La sensazione, perciò, è che gli Usa si percepiscano principalmente come un’isola, e non a caso il dibattito sulle loro tentazioni autarchiche, che oggi trovano la migliore declinazione nell’autosufficienza energetica che gli Usa si apprestano a ritrovare, non tramonta mai, pur avendo piena contezza gli americani, ma in subordine, del loro peso globale. Ciò che va bene all’Amaerica va bene pure al resto del mondo, sembrano pensare. Ma anche se così non fosse, peggio per lui.
Tali considerazioni diventano quantomai attuali in un momento in cui è chiaro a tutti che la soluzione alla crisi che sta ancora tormentando l’economia globale non potrà essere trovata senza mettere mano all’infrastruttura finanziaria, da un parte, e al sistema monetario, dall’altra. Senonché parlare di sistema monetario senza tenere conto di ciò che decideranno gli Usa è come parlare di conto senza interpellar l’oste. E l’oste non è la Federal reserve, che pure in questi anni ha fornito pasti abbondanti a casa propria e all’estero.
L’oste è il Tesoro americano che, come la storia ci insegna, non si fa il minimo scrupolo a mettere fuori gioco la banca centrale quando serve. Ricordo che solo nel 1951, dopo la messa in panchina decisa negli anni ’30 da Roosevelt, la Fed tornò a svolgere in piena autonomia il suo ruolo di banca centrale. Il Tesoro infatti aveva affidato a un suo organismo tecnico, l’Exchange Stabilization Fund (ESF) creato col Gold reserve act del ’34, la gestione delle operazioni di mercato aperto su oro e valute.
Il fondo, capitalizzato con i due miliardi di dollari che il Tesoro ricavò dall’aumento del prezzo dell’oro decso dal presidente (dai 20,67 ai 35 dollari l’oncia), agiva in totale autonomia dalla Fed, alla quale rimase il compito di eseguire le transazioni alla stregua di un qualunque agente di cambio. Tanto è vero che il governatore Eugene Black si era già dimesso nel ’33, una volta fiutata l’aria che tirava.
A chi creda che tali informazioni appartengano all’archeologia, basterà ricordare che l’ESF americano è tuttora un organismo funzionante e che da ultimo è stato utilizzato nel 2008 dal governo per stabilizzare alcuni segmenti del mercato monetario. Così come d’altronde è ancora in vigore il Gold reserve act del ’34 che, lo ricordo, cambiò per decreto presidenziale il valore del dell’oro tramite una forte svalutazione del dollaro, il cui valore su più che dimezzato.
Fu l’inizio di un processo che condusse, quarant’anni dopo, a un altro momento di importanza storica: la demonetizzazione dell’oro. Ciò segnò l’avvento del vigente dollar standard, che peraltro gli Usa perseguivano silenziosamente già dagli anni Venti, rifiutandosi di trasformare le notevoli riserve d’oro che andavano accumulando in inflazione, come pure avrebbero richiesto le regole del gioco del Gold exchange standard, e costringendo l’Inghilterra a farsi carico di pesanti deflazioni monetarie per sostenere la parità d’anteguerra con l’oro fino a quando, nel 1931, dopo le crisi bancarie austro-tedesche, la sterlina diede forfait.
Vale la pena fare un altro rapido passo indietro per ricordare che la demonetizzazione dell’oro, ossia togliere all’oro il suo ruolo di mezzo di pagamento e di riserva, lasciandogli solo quello di riserva di valore, non è stata la prima demonetizzazione decisa dagli Usa.
Gli storici ricordano la demonetizzazione dell’argento decisa con il Coinage Act del 1873, che tanta parte degli americani bollò con l’epiteto “crimine del ’73”. La legge fece entrare di fatto (di diritto entrerà solo nel 1900) gli Usa nel Gold Standard classico.
All’epoca a pagare il conto furono innanzitutti i proprietari di miniere d’argento, che però furono salvati per il ventennio successivo grazie alla decisione del govero di comprare argento a prezzi assai superiori a quelli di mercato, visto che l’argento iniziò a soffrire di pesanti svalutazioni verso l’oro. Il prezzo più alto lo pagarono ampie fasce di popolazioni. L’ingresso nello standard aureo provocò una notevole ondata deflazionaria che distrusse il reddito di milioni di contadini, i debitori che speravano nel potere inflazionario dell’argento, a vantaggio dei creditori, le banche, che invece avevano tutto da guadagnare acché i loro crediti conservassero il loro valore agganciandoli all’oro.
Anche questa storia parrà a molti remota. Ma il fatto che sia passato tanto tempo, non vuol dire che le cose siano cambiate. La storia è sempre la stessa: creditori contro debitori, con il governo a fare l’arbitro e decidere chi debba vincere la partita. Solo che stavolta i debitori sono gli Usa, il cui debito denominato in dollari gira come un forsennato per il mondo. E, gli Usa sono, come si usa dire, “armati e pericolosi”.
Volete una prova? Quando il problema degli Usa fu l’argento, si risolse di demonetizzarlo, sostituendolo con l’oro. Quando il problema fu l’oro, si risolse di demonetizzarlo sostituendolo con il dollaro. Adesso è il problema è il dollaro, la cui gestione ordinata richiederebbe sacrifici e responsabilità che gli Usa non sembrano volersi caricare sulle spalle.
Cosa rimane da fare allora se la ripresa continuasse ad essere inconcludente? Facile: “demonetizzare” il dollaro. Ossia “annacquarlo” in un nuova moneta di riserva, magari agganciata all’oro, dopo averlo decisamente svalutato. In tal modo si “distruggerebbe” il debito americano a spese di chi lo detiene, americani compresi. In sostanza ciò farebbe il lavoro dell’inflazione, che però non si decide a partire, e ribaltare gli indicatori di sostenibilità fiscale agendo non più sul denominatore, ossia il Pil, che scarseggia, ma sul valore reale del numeratore.
Tra l’altro la moneta di riserva già c’è: i diritti speciali di prelievo del Fmi (SDR), creati dopo il caos monetario di fine anni ’60-anni ’70, ed emessi dal Fmi, dove gli Usa, è bene ricordalo, sono ancora gli azionisti di maggioranza. Solo che ancora sono emessi in regime di fiat money, e non esiste un mercato liquido e diffuso abbastanza da prendere il posto dei verdoni. Ma è solo questione di tempo e di volontà. Sempre che, ovviamente, si trovi il consenso internazionale.
A questo serve il Fmi. Solo che gli Usa non sono tanto generosi da cedere il passo senza una corposa buonuscita. Non a caso la riforma del Fmi del 2010, che avrebbe redistribuito i pesi decisionali fra i paesi tenendo conto della crescita degli emergenti è stata stoppata dal Congresso Usa, lasciando il Fmi indispettito, ma non rassegnato.
Nell’ultimo staff report del Fmi dedicato proprio agli Usa, i tecnici dedicano giusto un paio di righe alla questione della riforma delle quote del Fondo, proprio al termine dell’analisi sulla sostenibilità fiscale americana, notando soltanto come “l’implementazione della riforma del 2010 rimane un’alta priorità e che gli Usa devono con urgenza ratificarla alla prima occasione utile”. Le autorità Usa hanno replicato all’osservazioni evidenziando che le quote Fmi devono effettivamente riflettere il peso dei paesi nell’economia globale, sottolineando di aver attivamente lavorato col Congresso per arrivare a una legge che recepisca la riforma proposta dal Fmi nel 2010″. Il problema è capire di che peso stiamo parlando.
Tale atteggiamento interlocutorio non deve tranquillizzare. Gli americani ci mettono anni a fare la propria mossa, ma poi, quando si trovano davanti a un bivio con alternative difficili, la fanno. E la fanno sempre in splendida solutudine, come è accaduto negli anni ’30 e negli anni ’70.
In uno scenario siffatto, molti scommettono sulla circostanza che l’oro tornerà a giocare un nuovo ruolo, anche se non è chiaro quale. Ricordo però che gli Usa detengono ancora le più ampie riserve d’oro del mondo, a parte l’eurozona considerata nel suo complesso, e questo, in un eventuale ripensamento del sistema monetario gold-based è di sicuro un punto di forza.
Fra gli anni ’50 e i ’70 del XX secolo, a causa delle richieste di conversione di dollari in oro effettuate dagli europei, gli americani hanno ceduto 11.000 tonnellate d’oro, ma ne hanno ancora 8.133, retaggio della politica degli anni ’30, che, peraltro, sono ancora valutate a 42,22 dollari l’oncia, ossia al prezzo dell’oro fissato nel ’74 dopo la fine di Bretton Woods e le successive svalutazioni pilotate dopo la fine della parità a 35 dollari, decisa sempre negli anni ’30, e abolita da Nixon. Tale tesoro nasconde perciò una plusvalenza potenziale di centinaia di miliardi di dollari, che crescerà in ragione dell’andamento del dollaro sull’oro.
La domanda è: gli Usa possono influenzare da soli la quotazione dell’oro, usandola per svalutare il dollaro quel tanto che giudicheranno necessario per effettuare il loro riequilibrio?
Abbiamo già visto che gli strumenti messi in piedi dal New Deal sono ancora attivi. Gli Usa potrebbero semplicemente rivalutare le riserve d’oro al prezzo che ritengono più opportuno per i loro interessi. E poiché il prezzo è donominato in dollari, l’operazione avrebbe conseguenze internazionali facilmente immaginabili. Il Tesoro, fra le altre cose, può disporre di un fondo di stabilizzazione, capitalizzato abbastanza dalle plusvalenze auree, da poter intervenire con operazioni di mercato aperto sulle quotazioni auree. E inoltre i paesi del futuro blocco monetario, Eurozona e Cina, sono abbastanza piene d’oro da assorbire lo shock di un aumento improvviso del costo dell’oro semplicemente valutandolo ai prezzi correnti che saranno.
La Cina, in particolare, grande creditrice Usa, ha accumulato in questi anni notevoli riserve il cui ammontare ancora non si conosce con precisione, visto che la banca centrale non ha ancora aggiornato le sue statistiche, anche se alcune stime le collocano intorno alle 4.000 tonnellate. Lasciare che la Cina accumuli oro a sufficienza per sopportare senza sconquassi il riprezzamento del dollaro rispetto all’oro potrebbe essere di sicuro un gesto di cortesia, da parte degli Usa. Ma non è detto che vada così.
Ovviamente nessuno sa se questo scenario sottintenda un piano, o se si tratti di ipotesi di scuola. Quel che sembra certo è che gli Usa devono dare importanti segnali di risanamento al sistema finanziario globale e non è chiaro se vorranno o sapranno darli.
Fino ad allora varrà la massima di John Connally, segretario al Tesoro dell’epoca in cui Nixon chiuse la finestra aurea, che ammoniva gli alleati europei sul fatto che “il dollaro è la nostra moneta, ma un vostro problema”.
Sono passati più di quarant’anni ed è ancora così.
(5/fine)
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Gli economisti (e il Fmi) pianificano la moneta internazionale (e gli Usa ridono)
Mai ipocrisia economica fu più raffinata di quella esemplificata dal paradosso di Triffin sulla moneta internazionale. Il famoso economista disse, semplificando, che fare di una moneta nazionale (nella fattispecie il dollaro) una moneta internazionale era una sicura fonte di squilibri, visto che il mondo avrebbe dovuto sopportare un crescente deficit nella bilancia dei pagamenti americana per poter disporre della liquidità necessaria e sufficiente a garantirsi la crescita.
I fatti, come tutti sanno, hanno dato ragione a Triffin. E nel dibattito accademico c’è un’ampia quota di economisti convinta che sarebbe più efficiente disporre di una moneta internazionale per i pagamenti e soprattutto le riserve.
Dibattito appassionante, se vi piace l’economia internazionale, ma sostanzialmente ipocrita. Il vero paradosso è credere che la buona creanza economica possa aver ragione della forza bruta. Che poi è quella americana. Di fronte all’opzione politica, necessariamente fondata sulla forza, quella economica sostanzialmente arretra intimidita. Per non parlare di quella politica.
Come esempio basti la puntuta reazione di Christine Lagarde, boss del Fmi, al recentissimo rifiuto del congresso Usa di approvare la riforma delle quote che era stata decisa dal board del Fmi a novembre del 2010. La Lagarde ha espresso un “profondo disappunto”. Chissà che risate a Washington.
All’epoca si parlò di rivoluzione, visto che la riforma prevedeva di raddoppiare il totale delle quote e trasferire un 6% dai paesi sovrarappresentati (gli Usa hanno oltre il 17% del totale delle quote) a quelli sotto rappresentati, quindi gli emergenti.
La bocciatura americana fa calare il sipario sulla riforma e riporta il discorso sul terreno assai concreto dei rapporti di forza i quali, checché ne dicano gli economisti, hanno un peso specifico assai più rilevante delle bilance dei pagamenti.
E tuttavia siccome gli economisti esistono, è persino piacevole abbandonarsi alle loro elucubrazioni che illustrano quanto sarebbe bello il mondo se fosse fondato sulla razionalità economica, versione impoverita del buon senso del padre di famiglia, invece che sulla capacità di muovere le armate.
Nel caso in ispecie, la Bri ha pubblicato un interessante opuscoletto (“Reforming the international monetary system in the 1970s and 2000s: would an SDR substitution account have worked?”) che è anche una storia monetaria breve dei tanti tentativi frustrati di strappare agli Usa l’esorbitante privilegio, per usare le parole di De Gaulle, rappresentato dall’emettere la moneta internazionale. Tentativi anch’essi ipocriti, a ben vedere. Sui debiti americani l’Occidente prima e l’Asia poi hanno costruito la loro fortuna di crediti. Quindi il gioco “paradossale” di Triffin andava bene a tutti. E anche oggi è così, malgrado qua e là appaiano tentativi assolutamente accademici di riaprire la discussione.
Ci si prova dagli anni ’60, nientemeno, per tacere di quando ci provò Keynes nel ’44 a parlare di moneta internazionale. E il fatto che adesso sia tornata d’attualità questa roba, prendendo a prestesto la terribile crisi scoppiata nel 2008, è certo assai più che un semplice vezzo accademico. S’intravede fra le righe un desiderio di strappare alla moneta egemone la sua supremazia, trasferendola a un entità sovranazionale, segnatamente il Fmi, che dovrebbe fare dell’egemonia monetaria, ossia la gestione efficiente della liquidità internazionale, la cifra specifica del suo governare.
Viene da dire, citando un proverbio, che gli economisti fanno i piani e gli Usa, anche stavolta, ridono.
Detto ciò, è interessante leggere questo paper, anche per capire quale sia lo stato dell’arte e cosa servirebbe per arrivare al dunque.
Ma prima di esplorare la tecnicalità, serve un po’ di storia.
Già dal 1960, spiega la Bri, “c’era una preoccupazione diffusa sulla sostenibilità del sistema di Bretton Woods basandolo su una valuta nazionale”. Ma già da allora la totale indisponibilità americana a considerare il dollaro un problema comune, non soltanto nostro, spense sul nascere qualunque tipo di dibattito.
Si dovette arrivare al 1965, quando la bilancia dei pagamenti americana era ormai a fine corsa – gli Usa avevano seriamente compromesso la loro posizione di grandi creditori del mondo occidentale – perché l’amministrazione di Lyndon Johnson iniziasse ad abbozzare una forma di dialogo sul tema nell’allora G10. Tanto dibattere produsse, due anni dopo, la decisione di costruire una moneta di riserva internazionale che poteva essere creata dai paesi membri del Fmi senza però l’intento di sostituire la moneta già esistente. Riguardava più la creazione di flussi futuri di moneta internazionale, più che trovare il modo di spezzare il dilemma di Triffin.
Sicché, quando nel 1967 furono varati gli SDR (Special drawing rights , DSP in Italia) “fu un trionfo di ambiguità”, come nota la Bri. I vari paesi del Fmi la interpretarono ognuno a suo modo, celebrando ancora una volta la squisita ipocrisia che circonda le cose economiche nel nostro tempo.
Quando nel 1970 la debolezza del dollaro era ormai conclamata, e si attribuiva all’abbondante dollarizzazione dell’economia internazionale il graduale innalzamento dell’inflazione globale, i vari policymaker ricominciarono a parlare di un modo per trasformare le ampie riserve in dollari in altre valute. Fu in quell’epoca che venne fuori l’idea del “conto di sostituzione”.
Di questo espediente tecnico si parlò un decennio per poi cessare nel 1980, quando l’idea fu bocciata. Lascio alla vostra immaginazione capire perché.
Il piano prevedeva che i possessori di riserve potessero rimpiazzare una porzione delle loro riserve denominate in dollari con gli SDR emessi dal Fmi. Nel 1973, quindi dopo la fine del sistema di Bretton Wood determinata dallo sganciamento del dollaro dall’oro del 1971, il Tesoro americano si disse pronto a una conversione gobale di alcune delle riserve denominate in dollari con SDR. Tuttavia prevalse la diffidenza: il Tesoro Usa avrebbe dovuto comunque garantire il valore delle obbligazioni in SDR che avrebbero sostituito quelle denominate in dollari. E c’era il rischio evidente, se le remunerazione di queste nuove obbligazione fossero state troppo generose rispetto a quelle garantite dal Tesoro Usa sulle proprie, che il piano non passasse. Come poi effettivamente successe.
Questo è il primo problema che persiste anche oggi: se il tasso delle obbligazioni denominate in SDR è troppo elevato rispetto a quello denominato in dollari, gli americani hanno tutto da perderci e nulla da guadagnarci a sponsorizzare un’operazione siffatta. E certo non sono così generosi da cumulare il danno derivante dalla perdita della moneta internazionale alla beffa di pagare pure il conto.
Comunque sia, nel 1973 il direttore esecutivo del FMi William Dale definì il “conto di sostituzione” semplicemente come “un interessante esercizio accademico”, spiegando che “fino a che i vari promotori non avessero trovato il modo di trovare un accordo sul problema delle obbligazioni finanziarie del centro di riserva si sarebbero fatti pochi progressi”. L’ipocrisia svelata, viene da dire. Chi sia il “centro di riserva” non devo certo spiegarvelo io.
Dal ’73 al 1980 furono elaborate altre proposte, dalle quali emergeva il chiaro desiderio dei paesi europei, specie quelli in surplus, affinché gli Usa mettessero sufficienti denari sul tavolo per garantire la conversione in SDR. Ma poi la crisi energetica di quegli anni, l’inflazione, i tassi di cambio fluttuanti e l’esplosione della stagnazione in deficit fece scivolare il “substitution account” nella parti basse dell’agenda del Fmi.
Se ne continuò a parlare solo nei vari comitati tecnici, sempre con l’ipoteca della posizione statunitense che, disse il negoziatore che lavorava sul dossier nel 1979 “non sono disposti a sopportare più della metà del rischio di cambio”, la qualcosa piaceva poco agli europei, che avevano già accumulato cospicue riserve.
Fra tutti vale la pena registrare la presa di posizione tedesca. La Germania, già all’epoca economia export-led, temeva che la conversione dei dollari in SDR potesse scatenare una fuga dal dollaro verso altre monete di riserva come il marco, la qualcosa avrebbe danneggiato il suo saldo commerciale.
Emerge quindi, sin da allora, una mutua comunità di intenti fra il grande debitore americano e i grandi creditori, europei e poi asiatici, ai quali faceva comodo che lo squilibrio delle bilance dei pagamenti finanziasse sostanzialmente il loro export e quindi, indirettamente, la loro crescita.
Questo patto silente è entrato in crisi nel 2008, anche sulla spinta delle economie emergenti. Che infatti hanno spinto parecchio per riformare la governance del Fmi. Inutilmente.
Lo studio ricorda l’intervento del governatore della banca centrale cinese del 2009 che fece scalpore perché per la prima volta da decenni la riforma del sistema monetario internazionale tornava d’attualità, sospinto dal più rilevante creditore e accumulatore di riserve americane.
Ecco quindi che anche il dibattito sul substitution account ha ripreso corpo. Ma sono ancora sul tappeto gli stessi problemi di trent’anni fa: come regolare i rapporti fra il valore del dollaro e quello dell’SDR? Se il dollaro si rafforza inevitabilmente si creerà un effetto calamita verso la moneta americana quale valuta di riserva. E come regolare il livello fra i tassi degli asset denominati in dollari e quelli in SDR? Detto in altre parole: chi paga?
E’ chiaro a tutti che attuare un progetto così ambizioso costa una barca di quattrini (dollari o SDR che siano) e anche l’espediente “politico” di usare risorse del Fmi è comunque sottoposto a una chiara ipoteca politica, visto che il Fmi ha i suoi bravi azionisti statali, fra i quali, manco a dirlo gli Usa fanno la parte del leone.
Ed è proprio sulla questione della condivisione dei costi, aldilà della questione più autenticamente politica (la fine dell’egemonia monetaria americana) che si concentra l’attenzione degli economisti. Gli Usa, spiega la Bri, non hanno accettato né accetterano mai di pagare il costo della sostituzione. Sarebbe come accettare di pagare finalmente i propri debiti, sulla cui espansione senza freni si è costruita la fortuna dell’Occidente.
Ma è evidente che se tutti contribuissero a pagare il conto, ciò equivarrebbe a una sostanziale resa dei conti complessiva. Una Grande Compensazione. Che però nessuno sembra aver interesse a mettere in campo. Né i debitori né, per motivi opposti, i creditori.
Anche perché a compensazione avvenuta il Fmi potrebbe diventare ciò che doveva diventare, ossia una sorta di banca centrale internazionale.
Questo è il piano
Gli Usa, ovviamente, continuano a ridere.
