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La Bce punta sul ’22, ma i mercati alzano la posta
Per cogliere il significato della lunga conferenza stampa di giovedì di Christine Lagarde basta osservare che la parola “inflazione” appare 59 volte nel resoconto pubblicato dalla Bce. E già dalle prime domanda si capisce: “In realtà abbiamo parlato di inflazione, inflazione, inflazione”, dice la presidente rispondendo a chi le chiedeva come mai i mercati prezzassero al rialzo il denaro, ché questo significa l’aumento di alcuni punti base dei tassi sui mercati, nonostante le ripetute assicurazioni che l’inflazione è attesa in aumento ancora quest’anno, per poi raffreddarsi a partire dall’anno prossimo. Anche il nostro spread, seguendo questa tendenza, si sta allargando ormai da settimane.
E in effetti l’analisi dei banchieri centrali è molto accurata. Oltre alle solite cause già osservate in precedenza, fra le quali primeggiano le strozzature sul lato dell’offerta che così tante perplessità hanno sollevato sul senso di una politica fiscale e monetarie espansiva sul lato della domanda, Lagarde aggiunge anche l’Iva tedesca, il cui taglio, nella analisi proposta dalla Banca, ha aggiunto una spinta di una cinquantina di punti base alla salita dei prezzi.
Anche questo effetto terminerà nel ’22, dice Lagarde. Così come dovrebbero attenuarsi gli altri fattori che strozzano l’offerta: la carenza di microchip si risolverà aprendo nuove fabbriche, quella di vettori con la costruzione di nuove navi, aggiunge. Ma è un po’ difficile credere che tutto questo accadrà nel prossimo semestre. Più probabile che questi annunci servano a segnalare al mercato che la temporaneità dei fattori inflazionistici, per quanto difficilmente prevedibile, non sposta la fermezza della Banca circa la necessità di proseguire le sue politiche di stimolo, anche a fronte di decisioni diverse che stanno prendendo altre banche centrali, come fa notare malignamente qualcuno, beccandosi la risposta scontata che non tutte le economie sono uguali.
Insomma, la Bce crede alle sue previsioni, il mercato un po’ meno e alza la posta. E comunque se ne riparlerà l’anno prossimo. Il 2022, quando peraltro terminerà il piano di acquisti di titoli iniziato con la pandemia, sarà l’anno della verità. La scommessa della Bce verrà a scadenza. E si inizieranno a fare un po’ di conti.
La sfida europea alla globalizzazione secondo la Bce
Vale la pena leggere fino in fondo la lunga allocuzione di Christine Lagarde al Fmi nella quale il presidente affronta un tema di respiro storico: il futuro della globalizzazione dopo la pandemia. Vaste programme, viene da dire ricordando un celebre concittadino di Lagarde. Tanto più se declinato all’europea. E tuttavia questi sono i tempi. Che lo vogliamo o no, davanti a noi si preparano scelte storiche e bisognerà decidere cosa fare da grandi. Noi europei per cominciare, che lo siamo ma non abbastanza e non ancora. E soprattutto non in rapporto agli altri. Se è già quantomeno avventuroso pensare a un’identità europea, in che modo questa costruzione artificiale deve relazionarci con gli altri?
E’ tempo di nuove idee, insomma. E purtroppo non se ne vedono molte. Si vedono invece vecchi problemi che tornano a fare capolino che altro non sono che la logica conseguenza di un ordine globale dove si allargato drammaticamente lo spread fra architettura politica e quadro economico. La prima basata su un ordine nazionale ottocentesco, il secondo compiutamente globale. Le nazioni somigliano a bambini che vogliono cavalcare la bici di un adulto. E perciò cadono.
Destino non diverso da quello che rischia l’Europa. Non a caso Lagarde ricorda in apertura di intervento il destino avverso del ventennio fra le due guerre, nel quale il bambino nazionale, non potendo cavalcare la bici dell’economia internazionale reagì come fanno i bambini indispettiti dagli insuccessi: la ruppe. Così facendo preparò un’altra guerra nazionale che divenne globale, visto che globale ormai da secoli – per non dire millenni – è il destino del mondo.
Oggi la situazione sembra molto diversa da ieri, ma i presupposti si somigliano. Il protezionismo, come negli anni ’30, è in aumento e questo genera un prezzo carissimo per l’Europa, o per meglio dire l’Ue, che vive di un’economia aperta basata sul commercio. Perciò l’Europa “deve adattarsi”.
Come? Usando il suo peso specifico “per sostenere l’apertura commerciale reciproca”. La taglia ce l’abbiamo, almeno in teoria. La pratica ci dirà se sapremo o vorremo usarla. La situazione lo richiede. Fra il 1995 e il 2010 il commercio mondiale cresceva il doppio del pil. Ormai non più. L’estensione delle catene commerciali ha contribuito a questa espansione, ma anche questa è soggetta a notevoli crisi. L’ipoteca nazionale, ancora una volta, chiede il suo balzello. E non basta illustrare i vantaggi dell’economia globalizzata per esorcizzare questo fantasma politico.
Tuttavia Lagarde ci prova. Le stime econometriche dicono che un punto di globalizzazione in più ha generato un aumento del tasso di crescita quinquennale di 0,3 punti. Centinaia di milioni di persone sono uscite dalla miseria nei paesi emergenti e anche l’Europa ha guadagnato il suo dividendo. “Tra il 2000 e il 2017 i posti di lavoro sostenuti dalle esportazioni sono aumentati di due terzi, arrivando a 36 milioni”.
Purtroppo non basta più. Un gigante economico non può vivere solo di esportazioni. E il saldo delle partite correnti europee – per tacere dell’annoso e vagamente ipocrita dibattito sulla diseguaglianza – mostra con chiarezza che l’Ue deve credere di più alla proprio domanda interna. Come infatti Lagarde sottolinea. Ma non solo. Deve iniziare a pensare a come attenuare la profonda dipendenza che soffre per alcune risorse strategiche delle modernità. Le terre rare, ad esempio, che per il 98% sono importate dalla Cina, esattamente come il 45% dei principi attivi farmaceutici. Problema comune con gli Usa, a dir la verità. Non dovrebbe incoraggiare una risposta comune?
Evidentemente no. Fra i due colossi permane la dialettica del rapporto servo-padrone, per dirla con Hegel, con l’Ue a perseguire a colpi di annunci la sua autonomia strategica mentre si ripara sotto l’ombrello della Nato e si piega ai volere strategici americani, ieri sull’Atlantico oggi sul Pacifico. Ma di questo ovviamente Lagarde, che è una banchiera, non parla. L’autonomia strategica per la presidente Bce si estrinseca nella capacità di far funzionale l’economia europea anche in presenza di shock sulle catene di approvvigionamento. Una sorta di autarchia 2.0, motivata da considerazione strategiche e dal fatto che molti fattori, ai quali si è aggiunto di recente anche il cambiamento climatico, cospirano per la messa in crisi della nostra fragile convivenza.
Non bastasse la pandemia, la crisi fra Usa e Cina – quest’ultima ha contribuito in media un terzo alla crescita globale dal 2005 in poi, “più del contributo di tutte le economie avanzate” – e questioni che sembrano terra terra ma non lo sono affatto, come la gestione delle scorte da parte delle aziende in un mondo dove improvvisamente le cose sembrano essere diventate scarse. Scorte più elevate rischiano di rendere il ciclo industriale ancora più volatile, aggiungendo volatilità a un ciclo economico già assediato dalla volatilità finanziaria.
La ricetta Lagarda per l’Europa è facile a dirsi, difficile a conseguirsi. Insistere sulle ragioni della cooperazione all’esterno, mentre all’interno si placa il “proletariato”, per dirla alla Toynbee che non intende certo questo termine in senso marxista, con quel tanto di redistribuzione che rinnovi l’apertura di credito delle popolazioni nei confronti delle élite. In tal senso va interpretata la previsione secondo la quale “per raggiungere l’autonomia strategica, è probabilmente inevitabile a lungo termine un re-shoring o un near-shoring di settori specifici, come i semiconduttori e i prodotti farmaceutici”. Musica per le orecchie dei neo-sovranisti.
Quindi “L’Europa deve rafforzare la propria domanda interna”. Musica, stavolta, per i tanti neo-fiscalisti, chiamiamoli così, che oggi hanno la ventura di trovare orecchie molto attente nei governi e nella banca centrale. Che significa pochi vincoli di spesa ai primi, ai quali vanno anche le risorse straordinarie del Next generation Ue, e tassi bassi per accompagnare il banchetto. Quindi, più domanda interna per compensare il calo fisiologico dell’export, puntare sugli standard all’esterno.
“La buona notizia è che siamo già sulla strada giusta”, conclude. “La risposta storica dell’Europa alla pandemia mostra che l’Ue ha trovato se stessa. In questo senso la pandemia ci ha dato un’opportunità e dobbiamo coglierla”. L’Europa sarà la somma delle sue crisi, diceva Jean Monnet. Francese anche lui.
Il sentiero stretto delle banche centrali
Il dilemma occidentale fra produzione e riproduzione
Leggo un post scritto sul blog del Fmi da Christine Lagarde, che asserisce con decisione come per aumentare la crescita occorra far lavorare di più le donne, e mi convinco che buona parte dei nostri problemi a comprendere la realtà dipendano dal fatto che la osserviamo con un occhio solo.
Tendiamo, vale a dire, a sottovalutare quelle che una certa tradizione economica chiama conseguenze non intenzionali. Abbiamo due occhi, qualcuno dice addirittura tre, ma i nostri policy maker ne usano uno solo, possibilmente indossando la lente deformante di un modello matematico. Ciò impedisce di vedere con chiarezza, e farsi anche solo semplici domande come queste: quali possono essere le conseguenze non intenzionali di un’aumentata partecipazione al lavoro delle donne? Esiste la possibilità che far lavorare di più le donne generi criticità sull’altro versate vitale di una società, ossia la sua demografia? C’è un dilemma fra produzione e riproduzione? Si può dar per certo che aumenti il prodotto interno lordo, se le donne lavorano di più, ma dobbiamo dedurne che tutto il resto si acconcerà benignamente di conseguenza?
Il mito della produzione, a ben vedere, porta con sé questo corollario implicito. Basta crescere e tutto andrà bene. Ciò che va bene per il Pil va bene per le società. Quindi lo sguardo si focalizza su quest’unico punto di osservazione. I due occhi, e per chi ce l’ha il terzo, diventano uno solo. E pazienza poi se la realtà ci delude, mostrando il crescente trade off che le economie avanzate sperimentano fra crescita e equilibrio, oppure esibisce il notevole invecchiamento delle loro popolazioni che adesso fa temere l’ingresso dell’umanità in una stagnazione secolare, per tacere dei disastri sociali che può provocare. E tuttavia il mito ancora governa la nostra immaginazione, rendendoci incapaci di guardare al di là di ciò che assevera.
Il post della Lagarde, da questo punto di vista, è esemplare. Il soggetto è il Canada, l’oggetto aumentare la produzione impiegando maggiormente il lavoro femminile e favorendo la parità di genere. Argomenti popolarissimi quindi. La premessa è che vari studi del Fmi mostrano che promuovere il lavoro femminile aiuta molto l’economia. Poi che il Canada, come tutti d’altronde, ha bisogno di crescere di più, specie sul versante della produttività, che sta il 20% sotto del livello Usa e sta crescente a un ritmo di appena l’1% l’anno. “Le donne sono parte della soluzione”, dice Lagarde. “Utilizzare maggiormente il grande bacino di donne con istruzione superiore presente in Canada aiuterebbe a compensare la contrazione della forza lavoro, rafforzare il potenziale di crescita nel medio termine, ed aumentare gli standard di vita per tutti i canadesi”. Addirittura – ed ecco il modellino matematico – uno studio del Fmi ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale della partecipazione femminile al lavoro aumenterebbe la produttività canadese fra lo 0,2 e lo 0,4%. “Quindi se il gap attuale di sette punti fra partecipazione maschile e femminile fosse colmato – nota – il livello reale del Pil potrebbe essere il 4,5% più alto di adesso”. In pratica un bengodi. Se fossi una donna canadese, di fronte a un’affermazione del genere, vivrei come un dovere sociale quello di cercarmi un lavoro.
E in effetti in tutti questi anni “il Canada ha fatto notevoli passi avanti nel dare impulso alla partecipazione femminile al lavoro”. Nel 1980 solo il 60% delle donne canadesi fra i 25 e i 54 anni erano attive nel mercato del lavoro, meno che negli Stati Uniti e ben al di sotto dei Nordic contries, ossia Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Adesso la partecipazione è aumentata fino a superare l’80%, superando persino gli Usa, dove dalla metà degli anni ’90 è stabile intorno al 74%. E’ interessante osservare questo grafico per avere un confronto internazionale.
Per favorire questa evoluzione il governo canadese ha attuato politiche fiscali di supporto alle famiglie che si sono mostrate efficaci: “Dal 1980 la partecipazione delle donne 25-54enni è aumentata di 3,2 milioni di unità a fronte dell’aumento di 2,1 milioni dei lavoratori uomini”. E tuttavia rimane il gap. Il tasso di partecipazione femminile rimane all’82% a fronte del 92% maschile. Per di più tale incremento ha riguardato meno le donne più istruite. Nel 2015 ci sono state più laureati donne che uomini, ma il tasso di partecipazione delle prime rimane sotto di sette punti rispetto ai secondi.
Per colmare tale differenza, il Fmi suggerisce di potenziare le politiche di sostegno “per migliorare gli incentivi al lavoro dei secondary earners”, ossia generalmente delle donne in famiglia. E per mostrare che esiste una correlazione esibisce un grafico dove si vede l’andamento sostanzialmente parallelo fra la crescita della spesa per l’educazione e la cura infantile e quella della partecipazione al lavoro delle donne. E conclude: “Non è solo la cosa giusta giusta da fare, ma anche la più intelligente”, visto che “il Canada può far crescere la sua economia e migliorare le prospettive per le donne canadesi, specie le più povere”.
Chi potrebbe non essere d’accordo? Lagarde purtroppo non tratta minimamente l’effetto che l’aumentata partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha avuto sull’evoluzione demografica del Paese, sulla quale, in omaggio al mito della produzione, la presidente del Fmi chiude un occhio. Il che ci riporta al problema delle osservazioni monoculari: mettono d’accordo tutti. Ma sono monche.
(2/segue)
Gli economisti (e il Fmi) pianificano la moneta internazionale (e gli Usa ridono)
Mai ipocrisia economica fu più raffinata di quella esemplificata dal paradosso di Triffin sulla moneta internazionale. Il famoso economista disse, semplificando, che fare di una moneta nazionale (nella fattispecie il dollaro) una moneta internazionale era una sicura fonte di squilibri, visto che il mondo avrebbe dovuto sopportare un crescente deficit nella bilancia dei pagamenti americana per poter disporre della liquidità necessaria e sufficiente a garantirsi la crescita.
I fatti, come tutti sanno, hanno dato ragione a Triffin. E nel dibattito accademico c’è un’ampia quota di economisti convinta che sarebbe più efficiente disporre di una moneta internazionale per i pagamenti e soprattutto le riserve.
Dibattito appassionante, se vi piace l’economia internazionale, ma sostanzialmente ipocrita. Il vero paradosso è credere che la buona creanza economica possa aver ragione della forza bruta. Che poi è quella americana. Di fronte all’opzione politica, necessariamente fondata sulla forza, quella economica sostanzialmente arretra intimidita. Per non parlare di quella politica.
Come esempio basti la puntuta reazione di Christine Lagarde, boss del Fmi, al recentissimo rifiuto del congresso Usa di approvare la riforma delle quote che era stata decisa dal board del Fmi a novembre del 2010. La Lagarde ha espresso un “profondo disappunto”. Chissà che risate a Washington.
All’epoca si parlò di rivoluzione, visto che la riforma prevedeva di raddoppiare il totale delle quote e trasferire un 6% dai paesi sovrarappresentati (gli Usa hanno oltre il 17% del totale delle quote) a quelli sotto rappresentati, quindi gli emergenti.
La bocciatura americana fa calare il sipario sulla riforma e riporta il discorso sul terreno assai concreto dei rapporti di forza i quali, checché ne dicano gli economisti, hanno un peso specifico assai più rilevante delle bilance dei pagamenti.
E tuttavia siccome gli economisti esistono, è persino piacevole abbandonarsi alle loro elucubrazioni che illustrano quanto sarebbe bello il mondo se fosse fondato sulla razionalità economica, versione impoverita del buon senso del padre di famiglia, invece che sulla capacità di muovere le armate.
Nel caso in ispecie, la Bri ha pubblicato un interessante opuscoletto (“Reforming the international monetary system in the 1970s and 2000s: would an SDR substitution account have worked?”) che è anche una storia monetaria breve dei tanti tentativi frustrati di strappare agli Usa l’esorbitante privilegio, per usare le parole di De Gaulle, rappresentato dall’emettere la moneta internazionale. Tentativi anch’essi ipocriti, a ben vedere. Sui debiti americani l’Occidente prima e l’Asia poi hanno costruito la loro fortuna di crediti. Quindi il gioco “paradossale” di Triffin andava bene a tutti. E anche oggi è così, malgrado qua e là appaiano tentativi assolutamente accademici di riaprire la discussione.
Ci si prova dagli anni ’60, nientemeno, per tacere di quando ci provò Keynes nel ’44 a parlare di moneta internazionale. E il fatto che adesso sia tornata d’attualità questa roba, prendendo a prestesto la terribile crisi scoppiata nel 2008, è certo assai più che un semplice vezzo accademico. S’intravede fra le righe un desiderio di strappare alla moneta egemone la sua supremazia, trasferendola a un entità sovranazionale, segnatamente il Fmi, che dovrebbe fare dell’egemonia monetaria, ossia la gestione efficiente della liquidità internazionale, la cifra specifica del suo governare.
Viene da dire, citando un proverbio, che gli economisti fanno i piani e gli Usa, anche stavolta, ridono.
Detto ciò, è interessante leggere questo paper, anche per capire quale sia lo stato dell’arte e cosa servirebbe per arrivare al dunque.
Ma prima di esplorare la tecnicalità, serve un po’ di storia.
Già dal 1960, spiega la Bri, “c’era una preoccupazione diffusa sulla sostenibilità del sistema di Bretton Woods basandolo su una valuta nazionale”. Ma già da allora la totale indisponibilità americana a considerare il dollaro un problema comune, non soltanto nostro, spense sul nascere qualunque tipo di dibattito.
Si dovette arrivare al 1965, quando la bilancia dei pagamenti americana era ormai a fine corsa – gli Usa avevano seriamente compromesso la loro posizione di grandi creditori del mondo occidentale – perché l’amministrazione di Lyndon Johnson iniziasse ad abbozzare una forma di dialogo sul tema nell’allora G10. Tanto dibattere produsse, due anni dopo, la decisione di costruire una moneta di riserva internazionale che poteva essere creata dai paesi membri del Fmi senza però l’intento di sostituire la moneta già esistente. Riguardava più la creazione di flussi futuri di moneta internazionale, più che trovare il modo di spezzare il dilemma di Triffin.
Sicché, quando nel 1967 furono varati gli SDR (Special drawing rights , DSP in Italia) “fu un trionfo di ambiguità”, come nota la Bri. I vari paesi del Fmi la interpretarono ognuno a suo modo, celebrando ancora una volta la squisita ipocrisia che circonda le cose economiche nel nostro tempo.
Quando nel 1970 la debolezza del dollaro era ormai conclamata, e si attribuiva all’abbondante dollarizzazione dell’economia internazionale il graduale innalzamento dell’inflazione globale, i vari policymaker ricominciarono a parlare di un modo per trasformare le ampie riserve in dollari in altre valute. Fu in quell’epoca che venne fuori l’idea del “conto di sostituzione”.
Di questo espediente tecnico si parlò un decennio per poi cessare nel 1980, quando l’idea fu bocciata. Lascio alla vostra immaginazione capire perché.
Il piano prevedeva che i possessori di riserve potessero rimpiazzare una porzione delle loro riserve denominate in dollari con gli SDR emessi dal Fmi. Nel 1973, quindi dopo la fine del sistema di Bretton Wood determinata dallo sganciamento del dollaro dall’oro del 1971, il Tesoro americano si disse pronto a una conversione gobale di alcune delle riserve denominate in dollari con SDR. Tuttavia prevalse la diffidenza: il Tesoro Usa avrebbe dovuto comunque garantire il valore delle obbligazioni in SDR che avrebbero sostituito quelle denominate in dollari. E c’era il rischio evidente, se le remunerazione di queste nuove obbligazione fossero state troppo generose rispetto a quelle garantite dal Tesoro Usa sulle proprie, che il piano non passasse. Come poi effettivamente successe.
Questo è il primo problema che persiste anche oggi: se il tasso delle obbligazioni denominate in SDR è troppo elevato rispetto a quello denominato in dollari, gli americani hanno tutto da perderci e nulla da guadagnarci a sponsorizzare un’operazione siffatta. E certo non sono così generosi da cumulare il danno derivante dalla perdita della moneta internazionale alla beffa di pagare pure il conto.
Comunque sia, nel 1973 il direttore esecutivo del FMi William Dale definì il “conto di sostituzione” semplicemente come “un interessante esercizio accademico”, spiegando che “fino a che i vari promotori non avessero trovato il modo di trovare un accordo sul problema delle obbligazioni finanziarie del centro di riserva si sarebbero fatti pochi progressi”. L’ipocrisia svelata, viene da dire. Chi sia il “centro di riserva” non devo certo spiegarvelo io.
Dal ’73 al 1980 furono elaborate altre proposte, dalle quali emergeva il chiaro desiderio dei paesi europei, specie quelli in surplus, affinché gli Usa mettessero sufficienti denari sul tavolo per garantire la conversione in SDR. Ma poi la crisi energetica di quegli anni, l’inflazione, i tassi di cambio fluttuanti e l’esplosione della stagnazione in deficit fece scivolare il “substitution account” nella parti basse dell’agenda del Fmi.
Se ne continuò a parlare solo nei vari comitati tecnici, sempre con l’ipoteca della posizione statunitense che, disse il negoziatore che lavorava sul dossier nel 1979 “non sono disposti a sopportare più della metà del rischio di cambio”, la qualcosa piaceva poco agli europei, che avevano già accumulato cospicue riserve.
Fra tutti vale la pena registrare la presa di posizione tedesca. La Germania, già all’epoca economia export-led, temeva che la conversione dei dollari in SDR potesse scatenare una fuga dal dollaro verso altre monete di riserva come il marco, la qualcosa avrebbe danneggiato il suo saldo commerciale.
Emerge quindi, sin da allora, una mutua comunità di intenti fra il grande debitore americano e i grandi creditori, europei e poi asiatici, ai quali faceva comodo che lo squilibrio delle bilance dei pagamenti finanziasse sostanzialmente il loro export e quindi, indirettamente, la loro crescita.
Questo patto silente è entrato in crisi nel 2008, anche sulla spinta delle economie emergenti. Che infatti hanno spinto parecchio per riformare la governance del Fmi. Inutilmente.
Lo studio ricorda l’intervento del governatore della banca centrale cinese del 2009 che fece scalpore perché per la prima volta da decenni la riforma del sistema monetario internazionale tornava d’attualità, sospinto dal più rilevante creditore e accumulatore di riserve americane.
Ecco quindi che anche il dibattito sul substitution account ha ripreso corpo. Ma sono ancora sul tappeto gli stessi problemi di trent’anni fa: come regolare i rapporti fra il valore del dollaro e quello dell’SDR? Se il dollaro si rafforza inevitabilmente si creerà un effetto calamita verso la moneta americana quale valuta di riserva. E come regolare il livello fra i tassi degli asset denominati in dollari e quelli in SDR? Detto in altre parole: chi paga?
E’ chiaro a tutti che attuare un progetto così ambizioso costa una barca di quattrini (dollari o SDR che siano) e anche l’espediente “politico” di usare risorse del Fmi è comunque sottoposto a una chiara ipoteca politica, visto che il Fmi ha i suoi bravi azionisti statali, fra i quali, manco a dirlo gli Usa fanno la parte del leone.
Ed è proprio sulla questione della condivisione dei costi, aldilà della questione più autenticamente politica (la fine dell’egemonia monetaria americana) che si concentra l’attenzione degli economisti. Gli Usa, spiega la Bri, non hanno accettato né accetterano mai di pagare il costo della sostituzione. Sarebbe come accettare di pagare finalmente i propri debiti, sulla cui espansione senza freni si è costruita la fortuna dell’Occidente.
Ma è evidente che se tutti contribuissero a pagare il conto, ciò equivarrebbe a una sostanziale resa dei conti complessiva. Una Grande Compensazione. Che però nessuno sembra aver interesse a mettere in campo. Né i debitori né, per motivi opposti, i creditori.
Anche perché a compensazione avvenuta il Fmi potrebbe diventare ciò che doveva diventare, ossia una sorta di banca centrale internazionale.
Questo è il piano
Gli Usa, ovviamente, continuano a ridere.