Etichettato: mito della produzione
Il dilemma occidentale fra produzione e riproduzione
Leggo un post scritto sul blog del Fmi da Christine Lagarde, che asserisce con decisione come per aumentare la crescita occorra far lavorare di più le donne, e mi convinco che buona parte dei nostri problemi a comprendere la realtà dipendano dal fatto che la osserviamo con un occhio solo.
Tendiamo, vale a dire, a sottovalutare quelle che una certa tradizione economica chiama conseguenze non intenzionali. Abbiamo due occhi, qualcuno dice addirittura tre, ma i nostri policy maker ne usano uno solo, possibilmente indossando la lente deformante di un modello matematico. Ciò impedisce di vedere con chiarezza, e farsi anche solo semplici domande come queste: quali possono essere le conseguenze non intenzionali di un’aumentata partecipazione al lavoro delle donne? Esiste la possibilità che far lavorare di più le donne generi criticità sull’altro versate vitale di una società, ossia la sua demografia? C’è un dilemma fra produzione e riproduzione? Si può dar per certo che aumenti il prodotto interno lordo, se le donne lavorano di più, ma dobbiamo dedurne che tutto il resto si acconcerà benignamente di conseguenza?
Il mito della produzione, a ben vedere, porta con sé questo corollario implicito. Basta crescere e tutto andrà bene. Ciò che va bene per il Pil va bene per le società. Quindi lo sguardo si focalizza su quest’unico punto di osservazione. I due occhi, e per chi ce l’ha il terzo, diventano uno solo. E pazienza poi se la realtà ci delude, mostrando il crescente trade off che le economie avanzate sperimentano fra crescita e equilibrio, oppure esibisce il notevole invecchiamento delle loro popolazioni che adesso fa temere l’ingresso dell’umanità in una stagnazione secolare, per tacere dei disastri sociali che può provocare. E tuttavia il mito ancora governa la nostra immaginazione, rendendoci incapaci di guardare al di là di ciò che assevera.
Il post della Lagarde, da questo punto di vista, è esemplare. Il soggetto è il Canada, l’oggetto aumentare la produzione impiegando maggiormente il lavoro femminile e favorendo la parità di genere. Argomenti popolarissimi quindi. La premessa è che vari studi del Fmi mostrano che promuovere il lavoro femminile aiuta molto l’economia. Poi che il Canada, come tutti d’altronde, ha bisogno di crescere di più, specie sul versante della produttività, che sta il 20% sotto del livello Usa e sta crescente a un ritmo di appena l’1% l’anno. “Le donne sono parte della soluzione”, dice Lagarde. “Utilizzare maggiormente il grande bacino di donne con istruzione superiore presente in Canada aiuterebbe a compensare la contrazione della forza lavoro, rafforzare il potenziale di crescita nel medio termine, ed aumentare gli standard di vita per tutti i canadesi”. Addirittura – ed ecco il modellino matematico – uno studio del Fmi ha calcolato che l’aumento di un punto percentuale della partecipazione femminile al lavoro aumenterebbe la produttività canadese fra lo 0,2 e lo 0,4%. “Quindi se il gap attuale di sette punti fra partecipazione maschile e femminile fosse colmato – nota – il livello reale del Pil potrebbe essere il 4,5% più alto di adesso”. In pratica un bengodi. Se fossi una donna canadese, di fronte a un’affermazione del genere, vivrei come un dovere sociale quello di cercarmi un lavoro.
E in effetti in tutti questi anni “il Canada ha fatto notevoli passi avanti nel dare impulso alla partecipazione femminile al lavoro”. Nel 1980 solo il 60% delle donne canadesi fra i 25 e i 54 anni erano attive nel mercato del lavoro, meno che negli Stati Uniti e ben al di sotto dei Nordic contries, ossia Danimarca, Finlandia, Islanda, Norvegia e Svezia. Adesso la partecipazione è aumentata fino a superare l’80%, superando persino gli Usa, dove dalla metà degli anni ’90 è stabile intorno al 74%. E’ interessante osservare questo grafico per avere un confronto internazionale.
Per favorire questa evoluzione il governo canadese ha attuato politiche fiscali di supporto alle famiglie che si sono mostrate efficaci: “Dal 1980 la partecipazione delle donne 25-54enni è aumentata di 3,2 milioni di unità a fronte dell’aumento di 2,1 milioni dei lavoratori uomini”. E tuttavia rimane il gap. Il tasso di partecipazione femminile rimane all’82% a fronte del 92% maschile. Per di più tale incremento ha riguardato meno le donne più istruite. Nel 2015 ci sono state più laureati donne che uomini, ma il tasso di partecipazione delle prime rimane sotto di sette punti rispetto ai secondi.
Per colmare tale differenza, il Fmi suggerisce di potenziare le politiche di sostegno “per migliorare gli incentivi al lavoro dei secondary earners”, ossia generalmente delle donne in famiglia. E per mostrare che esiste una correlazione esibisce un grafico dove si vede l’andamento sostanzialmente parallelo fra la crescita della spesa per l’educazione e la cura infantile e quella della partecipazione al lavoro delle donne. E conclude: “Non è solo la cosa giusta giusta da fare, ma anche la più intelligente”, visto che “il Canada può far crescere la sua economia e migliorare le prospettive per le donne canadesi, specie le più povere”.
Chi potrebbe non essere d’accordo? Lagarde purtroppo non tratta minimamente l’effetto che l’aumentata partecipazione delle donne al mercato del lavoro ha avuto sull’evoluzione demografica del Paese, sulla quale, in omaggio al mito della produzione, la presidente del Fmi chiude un occhio. Il che ci riporta al problema delle osservazioni monoculari: mettono d’accordo tutti. Ma sono monche.
(2/segue)
Le metamorfosi dell’economia: La democratizzazione dell’ozio
Nel libro La società opulenta che Galbraith scrisse più di cinquant’anni fa, l’economista individuava alcune tendenze di fondo che agivano nel senso di mitigare la “condanna” del lavoro, visto che “la gente normale non si è mai lasciata completamente convincere che il lavoro (il negozio, ndr) sia piacevole quanto l’ozio, malgrado gli inauditi tentativi compiuti”. La “mentalità tradizionale“, notava ancora, nel tempo non aveva saputo far altro che ridurre l’orario di lavoro al crescere della ricchezza. Ma così facendo aveva mancato di esperire altre possibilità. “La prima di esse – scrisse – è che il lavoro può essere reso più facile e piacevole”.
Questo semplice passaggio, che sembra banale, richiede una profonda evoluzione spirituale, oltre che materiale, che chissà quanto siamo pronti ad accettare. Significa ribaltare l’idea di lavoro come ci hanno abituati a pensarla per secoli, ossia una dura necessità. “La più grande prospettiva che noi abbiamo di fronte – sottolineava ancora – è quella di eliminare il lavoro come necessaria istituzione economica”. Niente meno di questo dovrebbe entusiasmarci. Smetterla di pensare alla produzione di beni come indice del valore del lavoro e concentrare la nostra attenzione sul tempo.
Galbraith individuava alcune lineamenti di questa evoluzione già altrove notando innanzitutto che non tutti i lavori sono uguali e che questa differenziazione aveva già generato una nuova classe. Una classe di oziosi. Non nel senso di nullafacenti, ma di persone impegnate in un’attività che non è un lavoro, nel senso comune del termine. E quindi un’attività che sia una fonte di piacere, non di sofferenza. Una lontana rimembranza dell’otium latino. Perché il lavoro non è tutto uguale, come sempre Galbraith osservava, sottolineando l’identità di vedute sul problema del lavoro dell’economia capitalista e di quella comunista. Non a caso, ovviamente. Sia comunisti che capitalisti condividono il mito della produzione e le sue radici culturali, dividendosi solo sull’organizzazione a la distribuzione di questa produzione. Di sicuro non su cosa sia il lavoro.
Nella realtà osservabile già ai tempi in cui scriveva Galbraith, quando la società diveniva opulenta, c’era chi lavorava e soffriva e c’era invece chi lavorava e godeva. E non erano i redditi a fare questa differenza, anche se certo il reddito era ed è importante. A fare la differenza era la considerazione che si aveva del proprio lavoro, e quindi del proprio tempo. “Per altri – scriveva – il lavoro, come continua ad essere chiamato, è una cosa del tutto diversa. Non si discute nemmeno che esso debba essere piacevole, e il fatto che eventualmente non lo sia è fonte di profonda insoddisfazione o delusione (..) in generale chi svolge attività di questo genere vuol credere di dare tutto il suo migliore contributo senza preoccuparsi del compenso, e sarebbe turbato se qualcuno affermasse il contrario. Questo – concludeva – è il lavoro della nuova classe”.
Considerare questi neo-oziosi una classe è sicuramente un’iperbole, per quanto suggestiva, che risente della temperie culturale in cui il libro fu scritto, ma è una comoda semplificazione che possiamo utilizzare anche oggi. Alcuni dei suoi lineamenti individuati all’epoca sono ancora attuali. Nella nuova classe, “fin dalla più tenera infanzia si prospetta ai bambini l’importanza di trovare un lavoro che possa riservare delle soddisfazioni, cioé un lavoro che non comporti fatica, ma godimento. (..) la nuova classe non è una casta chiusa, a migliaia ogni anno vi entrano e il titolo più importante per venirvi ammessi è l’istruzione”. “Negli ultimi cento anni – notava ancora – la nuova classe si è indubbiamente molto ingrandita”, e dopo aver elencato i numerosi vantaggi che comportava appartenervi, Galbraith sottolineava che “l’ulteriore e rapida espansione di questa classe debba costituire uno degli scopi fondamentali della società, e forse lo scopo veramente fondamentale, subito dopo quello della pacifica convivenza”.
Ne discendevano anche implicazioni di politica economica: “Se l’espansione della nuova classe diventasse un deliberato obiettivo della società, questo fatto, traducendosi in una migliore tutela degli interessi dell’istruzione e quindi influenzando la domanda di prestazioni intellettuali, letterarie, culturali e artistiche, aumenterebbe notevolmente la possibilità di appartenere alla nuova classe. Nello stesso tempo la riduzione del numero di coloro che lavorano tanto per lavorare diventa un fenomeno da considerare come un valore positivo. Man mano che questo lavoro diventerà più scarso e costoso, questa tendenza verrà naturalmente accelerata”.
Quest’ultima riflessione merita un breve approfondimento. Affiancare al mercato del lavoro come lo conosciamo un’organizzazione del lavoro fuori dalla logica del mercato che sia attrattiva, avrà come logica conseguenza che chi preferisce vendere il suo tempo sul mercato del lavoro tradizionale potrà richiedere salari più elevati, visto che quest’ultimo dovrà offrire più di quanto offre l’organizzazione alternativa per “comprare” ciò di cui ha bisogno per produrre. E in un tempo in cui si discute forsennatamente dell’erosione continua della labor share e delle conseguenze depressive che ciò provoca sulla domanda aggregata, ciò non può che avere effetti positivi sul benessere generale.
Lasciamo questa lunga citazione di Galbraith con alcune domande che l’economista si faceva al termine della sua esposizione: “Perché gli uomini dovrebbero affannarsi ad aumentare il proprio reddito quando ciò può essere ottenuto soltanto al prezzo di molte noiose e tristi ore di lavoro? E perché poi dovrebbero farlo se i beni diventano sempre più copiosi e meno urgenti? Perché essi non dovrebbero invece far fruttare al massimo il tempo che hanno a disposizione nella loro vita?”.
Le stesse domande dovremmo farcele anche oggi. Quasi sessant’anni dopo, al nostro livello di opulenza, la nuova classe è potenzialmente in grado di accogliere chiunque lo voglia. La democratizzazione dell’ozio è davvero a portata di mano. Basta volerlo. Ma prima di volerlo dobbiamo capirlo. E quindi trasformare questa comprensione in azione. Le istituzioni seguiranno.
(22/segue)