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Le metamorfosi dell’economia: La democratizzazione dell’ozio


Nel libro La società opulenta che Galbraith scrisse più di cinquant’anni fa, l’economista individuava alcune tendenze di fondo che agivano nel senso di mitigare la “condanna” del lavoro, visto che “la gente normale non si è mai lasciata completamente convincere che il lavoro (il negozio, ndr) sia piacevole quanto l’ozio, malgrado gli inauditi tentativi compiuti”. La “mentalità tradizionale“, notava ancora, nel tempo non aveva saputo far altro che ridurre l’orario di lavoro al crescere della ricchezza. Ma così facendo aveva mancato di esperire altre possibilità. “La prima di esse – scrisse – è che il lavoro può essere reso più facile e piacevole”.

Questo semplice passaggio, che sembra banale, richiede una profonda evoluzione spirituale, oltre che materiale, che chissà quanto siamo pronti ad accettare. Significa ribaltare l’idea di lavoro come ci hanno abituati a pensarla per secoli, ossia una dura necessità. “La più grande prospettiva che noi abbiamo di fronte – sottolineava ancora – è quella di eliminare il lavoro come necessaria istituzione economica”. Niente meno di questo dovrebbe entusiasmarci. Smetterla di pensare alla produzione di beni come indice del valore del lavoro e concentrare la nostra attenzione sul tempo.

Galbraith individuava alcune lineamenti di questa evoluzione già altrove notando innanzitutto che non tutti i lavori sono uguali e che questa differenziazione aveva già generato una nuova classe. Una classe di oziosi. Non nel senso di nullafacenti, ma di persone impegnate in un’attività che non è un lavoro, nel senso comune del termine. E quindi un’attività che sia una fonte di piacere, non di sofferenza. Una lontana rimembranza dell’otium latino. Perché il lavoro non è tutto uguale, come sempre Galbraith osservava, sottolineando l’identità di vedute sul problema del lavoro dell’economia capitalista e di quella comunista. Non a caso, ovviamente. Sia comunisti che capitalisti condividono il mito della produzione e le sue radici culturali, dividendosi solo sull’organizzazione a la distribuzione di questa produzione. Di sicuro non su cosa sia il lavoro.

Nella realtà osservabile già ai tempi in cui scriveva Galbraith, quando la società diveniva opulenta, c’era chi lavorava e soffriva e c’era invece chi lavorava e godeva. E non erano i redditi a fare questa differenza, anche se certo il reddito era ed è importante. A fare la differenza era la considerazione che si aveva del proprio lavoro, e quindi del proprio tempo. “Per altri – scriveva – il lavoro, come continua ad essere chiamato, è una cosa del tutto diversa. Non si discute nemmeno che esso debba essere piacevole, e il fatto che eventualmente non lo sia è fonte di profonda insoddisfazione o delusione (..) in generale chi svolge attività di questo genere vuol credere di dare tutto il suo migliore contributo senza preoccuparsi del compenso, e sarebbe turbato se qualcuno affermasse il contrario. Questo – concludeva – è il lavoro della nuova classe”.

Considerare questi neo-oziosi una classe è sicuramente un’iperbole, per quanto suggestiva, che risente della temperie culturale in cui il libro fu scritto, ma è una comoda semplificazione che possiamo utilizzare anche oggi. Alcuni dei suoi lineamenti individuati all’epoca sono ancora attuali. Nella nuova classe, “fin dalla più tenera infanzia si prospetta ai bambini l’importanza di trovare un lavoro che possa riservare delle soddisfazioni, cioé un lavoro che non comporti fatica, ma godimento. (..) la nuova classe non è una casta chiusa, a migliaia ogni anno vi entrano e il titolo più importante per venirvi ammessi è l’istruzione”. “Negli ultimi cento anni – notava ancora – la nuova classe si è indubbiamente molto ingrandita”, e dopo aver elencato i numerosi vantaggi che comportava appartenervi, Galbraith sottolineava che “l’ulteriore e rapida espansione di questa classe debba costituire uno degli scopi fondamentali della società, e forse lo scopo veramente fondamentale, subito dopo quello della pacifica convivenza”.

Ne discendevano anche implicazioni di politica economica: “Se l’espansione della nuova classe diventasse un deliberato obiettivo della società, questo fatto, traducendosi in una migliore tutela degli interessi dell’istruzione e quindi influenzando la domanda di prestazioni intellettuali, letterarie, culturali e artistiche, aumenterebbe notevolmente la possibilità di appartenere alla nuova classe. Nello stesso tempo la riduzione del numero di coloro che lavorano tanto per lavorare diventa un fenomeno da considerare come un valore positivo. Man mano che questo lavoro diventerà più scarso e costoso, questa tendenza verrà naturalmente accelerata”.

Quest’ultima riflessione merita un breve approfondimento. Affiancare al mercato del lavoro come lo conosciamo un’organizzazione del lavoro fuori dalla logica del mercato che sia attrattiva, avrà come logica conseguenza che chi preferisce vendere il suo tempo sul mercato del lavoro tradizionale potrà richiedere salari più elevati, visto che quest’ultimo dovrà offrire più di quanto offre l’organizzazione alternativa per “comprare” ciò di cui ha bisogno per produrre. E in un tempo in cui si discute forsennatamente dell’erosione continua della labor share e delle conseguenze depressive che ciò provoca sulla domanda aggregata, ciò non può che avere effetti positivi sul benessere generale.

Lasciamo questa lunga citazione di Galbraith con alcune domande che l’economista si faceva al termine della sua esposizione: “Perché gli uomini dovrebbero affannarsi ad aumentare il proprio reddito quando ciò può essere ottenuto soltanto al prezzo di molte noiose e tristi ore di lavoro? E perché poi dovrebbero farlo se i beni diventano sempre più copiosi e meno urgenti? Perché essi non dovrebbero invece far fruttare al massimo il tempo che hanno a disposizione nella loro vita?”.

Le stesse domande dovremmo farcele anche oggi. Quasi sessant’anni dopo, al nostro livello di opulenza, la nuova classe è potenzialmente in grado di accogliere chiunque lo voglia. La democratizzazione dell’ozio è davvero a portata di mano. Basta volerlo. Ma prima di volerlo dobbiamo capirlo. E quindi trasformare questa comprensione in azione. Le istituzioni seguiranno.

(22/segue)

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