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Verso la legge di stabilità: i tormenti del 2015
Se il 2014 vi è sembrato un anno orribile per la nostra finanza pubblica, e di sicuro finora lo è stato, potete consolarvi pensando che il 2015 sarà peggio. A meno di miracolistiche quanto improvvise crescite del Pil, il nostro Paese dovrà far fronte alle scadenze impegnative che richiedono le regole della spesa e del debito europeo che dovrebbero obbligarci – e mai condizionale fu più d’obbligo – a importanti correzioni fiscali per rientrare nei dettami europei.
Ora, per non rischiare di essere iscritto d’ufficio al partito dei gufi (splendidi animali, fra l’altro), dico subito che dati e parole di questo post sono estratti esclusivamente dalla nota di aggiornamento al Def che il governo ha presentato poche settimane fa e che sospetto pochi abbiano letto interamente, perdendosi così una splendida lezione di finanza pubblica. Al contrario, io mi sono abbeverato alla fonte di tanta conoscenza, e seppure il retrogusto sia vagamente amarognolo, non può dirsi sia stata fatica sprecata. Al contrario. E’ stata una prolusione all’ampio dibattito che comincerà questa settimana sulla futura legge di stabilità, utile anche a capire chi parla sapendo quello che dice e chi no.
L’analisi non può che iniziare scorrendo la tabella degli indicatori di finanza pubblica che sommarizza i dati facendo riferimento al quadro tendenziale e a quello programmatico, confrontandolo con quello di aprile, quando il Def fu approvato.
La variabile strategica che regge tutto l’argomentare è senza dubbio il saldo primario, ossia la differenza fra entrate e spese del governo, al netto di quella per interessi. Ricordo che sommando il saldo primario, che nel caso italiano è un avanzo, al deficit (indebitamento netto) otteniamo il totale della somma pagata per gli interessi sul debito.
Bene, il quadro tendenziale e quello programmatico, per il 2014, individuano un avanzo primario pari all’1,7% del Pil, in calo dello 0,3% rispetto al 2013, quando invece il Def di aprile ipotizzava un avanzo primario del 2,6% . Ciò malgrado il calo della spesa per interessi, che, nel 2014, non dovrebbe superare il 4,7% del Pil, a fronte del 5,2% ipotizzato in primavera. Ebbene, il risparmio dovuto al calo dei tassi, dello 0,5% del Pil, non ha impedito il ridursi dell’avanzo primario. Ciò implica che siano aumentate le spese o che siano diminuite le entrate.
Per capirlo vado a vedere il conto della PA a legislazione vigente, dove leggo che rispetto al 2013 le spese finali, al netto degli interessi sul debito (passate da 78,2 mld a 76,6) , sono passate da 748,9 miliardi a 758,6, mentre le entrate finali sono passate sono passate da 781,8 a 786. Quindi l’aumento delle entrate e la diminuzione degli interessi, non sono bastati a compensare l’aumento delle spese. Con la conseguenza che il deficit (indebitamento netto) è peggiorato dal 2,8% del 2013 al 3%.
Sottolineo che l’aumento delle spese è dovuto in gran parte al costo delle prestazioni sociali, passate dai 319 miliardi del 2013 ai 332 del 2014, pesando l’aumento per un terzo per maggiori pensioni e per il resto da altre prestazioni sociali. La spesa per i redditi da lavoro dipendente, infatti, è diminuita di oltre un miliardo.
La seconda variabile, legata ai nostri impegni in sede europea, è l’indebitamento netto strutturale, quindi il deficit depurato dagli effetti del ciclo e dai contributi straordinari. Nel quadro tendenziale leggo che è peggiorato da -0,9% del 2013 a -1,2% del 2014, laddove nel Def di aprile si ipotizzava che quest’anno avremmo prodotto un deficit strutturale solo dello 0,6%.
Tale differenza è la causa principale dello spostamento del pareggio di bilancio, cui ci obbligava la regola della spesa, essendo il pareggio il nostro obiettivo di medio termine (OMT), che il governo ha annunciato per il 2017, dopo che ad aprile aveva previsto per il 2016.
Rilevo inoltre che il surplus di bilancio, pari allo 0,3% del Pil, che il governo aveva previsto ad aprile per il 2018 è stato sostituito nel quadro tendenziale con un deficit dello 0,8% ancora nel 2018,. Neanche per allora, quindi, l’avanzo primario sarà sufficiente a coprire la spesa per interessi. Tale deficit si abbassa allo 0,2% nel quadro programmatico che, depurato dagli effetti del ciclo dovrebbe corrispondere a un deficit strutturale nullo, come nel 2017. Ma visto l’esito degli ultimi documenti programmatici, non c’è da scommetterci.
Per concludere questa prima ricognizione, vale la pena descrivere quello che il governo si aspetta per il 2015.
Nel quadro tendenziale leggo che l’avanzo primario dovrebbe aumentare dall’1,7% di quest’anno al 2,3% nel 2015, con una spesa per gli interessi in calo al 4,5%. Ciò dovrebbe portare l’indebitamento netto al 2,2%. Ma è il quadro programmatico quello che ci dice della visione del governo.
Qui leggo che nel 2015 il deficit rimarrà inchiodato al 2,9%, con un saldo primario ancora in calo all’1,6%, quando ad aprile lo stesso quadro ipotizzava un deficit in calo all’1,8% e un saldo primario del 3,3%, malgrado una spesa per interessi prevista al 5,1% del pil a fronte del 4,5 di settembre.
Per riportare in equilibrio i conti e arrivare al 2016 su un percorso discendente di indebitamento e debito, dovremmo innalzare l’avanzo primario al 2,7% e portare il deficit all’1,8% entro quell’anno. Ciò vuol dire che dovrebbero aumentare le entrate più di quanto aumentino le spese.
Se andiamo a vedere i conti della PA previsti per il 2015 leggiamo infatti che le spese correnti, al netto degli interessi, dovrebbero rimanere inchiodate ai 758 miliardi del 2014, malgrado un aumento delle prestazioni sociali di due miliardi che sostanzialmente dovrebbero essere coperte dal calo degli interessi sul debito. A fronte di tali spese, sempre l’anno prossimo, dovremmo avere entrate finali in aumento di dieci miliardi, da 786 a 796, in parte proveniente da maggiori entrate tributarie, compresi i contributi, in parte da entrate in conto capitale (circa 5,8 miliardi).
Quindi a fronte di tali previsioni, l’unica certezza che abbiamo è che l’anno prossimo dovremo essere in grado di tenere ferme le spese e aumentare le entrate per rispettare l’equilibrio di bilancio. Purtroppo l’esperienza ci mostra che le spese sono sempre certe, al contrario delle entrate.
Oltre a tutto ciò c’è un dettaglio che vale la pena approfondire: le regole europee del debito. Che dal 2015 in poi diverranno assai più stringenti.
Ma questa è un’altra storia.
(1/segue)
La lowflation fa esplodere il debito europeo
La dannazione dell’inflazione bassa che affligge l’eurozona, e gli affanni che provoca ai nostri banchieri centrali, rischia di non essere colta nella sua pervasiva dannosità se si trascura di osservare una semplice constatazione: con un’inflazione troppo bassa i debiti valgono di più. E soprattutto viene messa in discussione l’architrave di tutto il costrutto economico contemporaneo: ossia che tali debiti siano sostenibili.
Sulla questione della sostenibilità sappiamo già che si tratta di un raffinato esercizio retorico per convincere creditori sempre più riluttanti a rifinanziare debiti crescenti. Ma vale la pena spendere qualche parola in più per sintetizzare quale sia il quadro nel quale gli stati sono costretti a muoversi per continuare a camminare sul sempre più ripido pendio del loro indebitamento pubblico senza generare disastri.
Lo strumento che gli occhiuti osservatori del mercato dei bond pubblici usano più di frequente per valutare cosa comprare e cosa vendere si chiama primary deficit sustainability (Pds), ossia una semplice equazione in virtù della quale si deduce se un debito sia incamminato lungo un percorso di sostenibilità oppure no. Trattandosi, i debiti pubblici, di obbligazioni sostanzialmente eterne, la questione capite bene che non è di poco conto.
La variabili di quest’equazione sono cinque: il costo del servizio del debito, la crescita reale del prodotto, l’inflazione, le entrate del governo e le spese del governo.
Ricordo che sommando la crescita reale del prodotto all’inflazione, otteniamo la crescita nominale. Quindi una maggiore inflazione garantisce una crescita nominale maggiore, sempre ammesso che la banca centrale rispetti il suo target di riferimento.
Ricordo pure che la differenza fra gli incassi e le spese del governo determina il saldo primario, deficit se le spese eccedono le tasse, surplus se accade il contrario. Nelle spese però non vengono contabilizzati gli interessi sul debito, anche se tali interessi devono essere pagati eccome.
Se malgrado un avanzo primario un’economia produce un deficit fiscale, come è il caso dell’Italia, vuol dire che gli interessi sul debito sono molto più elevati dell’avanzo primario, che quindi, sommato al deficit, ci dà il totale della spesa per interessi.
Ai fini della sostenibilità, l’ideale sarebbe che il saldo primario coprisse per intero la spesa per interessi, senza quindi che si generi nuovo deficit, ossia ciò che l’economia italiana promette di fare da un triennio senza riuscirci, al fine di abbattere il debito ogni anno. Ciò farebbe dire agli analisti che il debito è su un percorso di sostenibilità. Ma è chiaro che è altrettanto importante, ai fini della sostenibilità che ci sia una robusta crescita. E qui l’inflazione conta.
Si potrebbe dire che un debito è sostenibile se la differenza, espressa in rapporto al pil, fra crescita nominale e spesa per interessi è maggiore del saldo primario, ossia della differenza, sempre in rapporto al pil, fra tasse e spese. Quindi se l’economia genera redditi sufficienti a ripagare i debiti senza farne altri.
Se tenete presente il Pds, le mosse della Bce risultano più chiare: abbassare a zero i tassi, per alleggerire il servizio del debito, e provare a far ripartire i prezzi per aumentare la crescita nominale.
Queste aritmetiche elementari, dissimulate dalle astruserie degli economisti, rendono chiaro a tutti che un tasso di inflazione basso o addirittura nullo, come quello che minaccia l’eurozona, diminuendo il pil nominale, rende più probabile che il debito dell’eurozona, considerata nel suo complesso, inizi a scricchiolare, per tacere dei debiti pubblici dei singoli paesi dell’area, a cominciare dal nostro. Se poi a un’inflazione bassa si accoppia una stagnazione della crescita reale, e in presenza di una massa di debito comunque imponente che genera un’alta spesa per il servizio del debito, i rischi della sostenibilità aumentano.
Non mi stupisce perciò che il Fmi abbia dedicato un capitolo del suo ultimo Fiscal monitor proprio alla bassa inflazione della zona euro, chiamata per l’occasione lowflation, elaborando anche un’interessante simulazione che solleva non pochi interrogativi circa la sostenibilità del debito pubblico della zona euro.
Se tenete a mente la breve illustrazione che ho fatto in apertura, l’analisi del Fmi vi parrà estremamente chiara.
L’inflazione bassa, spiega il Fmi, aumenta gli indici del debito pubblico attraverso tre canali: meno risorse reali per il governo dall’attività di signoraggio che la banca centrale estrae dalla crezione di base monetaria; peggioramento degli indici debito/pil, per quello che ho detto, e peggioramento del saldo primario perché uun’inflazione bassa colpisce sia dal lato delle entrate fiscali che da quello delle spese.
L’evidenza empirica, scrive il Fmi, ci dice che l’impatto dell’inflazione bassa sugli indici del debito è limitata. Negli ultimi 100 anni, nelle economia avanzate, solo in quattro casi l’inflazione è calata dal range 1-4% al range 0-1% per un periodo di almeno tre anni. Per vostra conoscenza i casi presi in esame sono quelli dell’Italia, ne 1912, della Svizzera, nel 1996 e nel 2001, e del Giappone, 1986.
Durante questi episodi gli indici del debito sono peggiorati in media dell’1,25% l’anno guidati da un peggioramento del saldo primario e da un ambiente meno favorevole dei tassi di interesse.
Ma quello che risulta più interessante è l’elaborazione di una stima sul costo, in termini di debito, che l’eurozona potrebbe trovarsi a patire qualora la lowflation continuasse. Alla base della simulazione ci sono le previsioni di crescita e di inflazione elaborate dal Fmi nell’ultimo World economic outlook (WEO), che fungono da scenari base. E poi ci sono gli scenari alternativi.
Nello scenario base l’inflazione nella zona euro dovrebbe mantenersi sotto l’1,5% fino al 2016. Da lì in poi, molto lentamente, arriverà a quota 1,5% entro il 2019. Contestualmente, se i tassi di crescita previsti saranno corretti, il debito/pil dell’area dovrebbe passare dal circa 90% attuale a circa l’87%.
Se l’inflazione fosse più bassa però, gli scenari cambierebbero drasticamente. E se all’inflazione si associasse anche una stagnazione del prodotto – ricordo che ad ogni revisione del WEO il Fmi riduce le stime di crescita – l’impatto sul debito potrebbe essere assai più rilevante.
Per farvela breve vi dico solo che nel 2019 il debito Pil dell’eurozona potrebbe essere salito al 97% del Pil. Il che farebbe suonare non pochi campanelli d’allarme.
Certo è l’ipotesi peggiore. Ma state pur certi che è quella meglio conosciuta.