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Il drago capitalista assedia la Grande Muraglia cinese
Nella grande confusione di significati che accompagna di solito il termine “mercato del capitale”, spesso viene trascurato il suo senso più evidente: ossia fare mercato del capitale. Quindi vendere e comprare il capitale secondo la legge della domanda e dell’offerta.
I misteriosi mercati dei capitali, perciò, non sono altro che sofisticate bancarelle dove si può comprare o vendere denaro, sotto forma di strumenti finanziari (depositi, titoli, eccetera).
I misteriosi mercati finanziari, quindi, non sono altro che compravendite di denaro.
Il presupposto filosofico che rende possibile la vendita di denaro è che esso sia una merce, al pari delle altre merci che si scambiano in un contesto di un’economia di mercato.
Ciò serve a sottolineare una cosa che spesso si confonde: il mercato dei capitali è una modalità dell’economia di mercato. Quindi il capitalismo (inteso come mercato dei capitali) NON è l’economia di mercato, ma una sua derivata sui generis che trova la sua ragion d’essere in un pensiero molto concreto. Ossia che il denaro, in quanto tale, abbia un valore intrinseco. Che sia quindi riserva di valore, e che perciò meriti di essere remunerato tramite il meccanismo dell’interesse.
Ciò provoca che il mercato del capitale sia in qualche modo “alternativo” al mercato dei beni. Se investo su un’obbligazione, perché magari più liquida e remunerativa, non investo su un negozio di gelati, per essere chiari. La famosa distanza fra finanza ed economia reale.
Perché questa noiosa premessa? Sennò non si capisce perché la Cina sia diventata la Grande Speranza del mercato del capitale. La Cina, con i suoi tassi di crescita e la sua economia gigantesca, potrebbe dare una dimensione al mercato dei capitali mai vista prima nella storia. Un’enorme torta fatta e imbottita di denaro.
Perciò il drago capitalista, potente e attraente come vuole la tradizione cinese, marcia a tappe forzate verso il gigante asiatico. Di fronte a sé, tuttavia, si erge la Grande Muraglia: i controlli di capitale, che la Cina tiene ancora ben serrati.
Ma la muraglia lentamente si sta erodendo. Gli stessi cinesi hanno voglia di entrare a far parte, una volta per tutte, nel grande gioco della finanza globale, del capitale liberamente circolante, che fa la gioia (e le crisi) delle economie avanzate da più di trent’anni.
Sarà per questo che la Bank of England ha dedicato alla questione un breve saggio nel suo ultimo Quaterly review intitolato “Bringing down the Great Wall? Global implications of capital account liberalisation in China”.
Il great wall, (la Grande Muraglia), altro non è che il controllo del conto capitale cinese. Una volta messo da parte si potrà (semplificando) denominare in renmimbi asset finanziari e renderli liberamente commerciabili su tutte le piazze del mondo. A cominciare da quella di Londra, manco a dirlo. Che già si è portata avanti, ma non è l’unica. Anche i tedeschi si stanno attrezzando per l’affare del secolo.
Ma per adesso questi controlli rendono pressoché impossibile per i residenti cinesi comprare o vendere asset all’estero e ai cittadini esteri comprare o venderer asset cinesi. Una bella scocciatura, per il nostro drago.
Che lo sia davvero, l’affare del secolo, è scritto nei numeri. Secondo la BoE tale liberalizzazione, cui seguirebbe l’internalizzazione del renminbi, avrebbe un grande impatto nel sistema finanziario globale (sempre la bancarella di cui sopra, ndr). La posizione lorda degli investimenti internazionali cinesi potrebbe crescere dal 5 al 30% del Pil mondiale entro il 2025″.
Che poi significa che il mondo sarebbe molto più cinese di quanto lo sia oggi.
Le autorità cinesi, ricorda la BoE, hanno confermato anche di recente di essere intenzionate a proseguire nel lento cammino di liberalizzazione dei capitali intrapreso a piccoli passi negli anni scorsi con l’apertura di alcune piazze off shore dove si può contrattare qualche strumento finanziario denominato in renminbi con diverse restrizioni e per lo più per transazioni correnti o a fini di riserva. Ma sono bruscolini. “A fronte di di un 10% di quota del Pil mondiale e un 9% di quota del commercio globale, la Cina ha meno del 3% di quota di asset/debiti all’estero. Il sistema bancario cinese è il più grande nel mondo per asset totali, ma è anche uno dei più concentrati sul mercato domestico e ancora poco usato per le transazione fuori dalla Cina”.
I passi più rilevanti, insomma, devono essere ancora fatti e potrebbero condurre “a una crescita più bilanciata e sostenibile in Cina e aiutare a riequilibrare la domanda globale”.
Ma perché allora, vi chiederete, non li fanno subito questi passi?
Il problema è che il drago capitalista è una bestia pericolosa. Seppure seduce con la sua promessa di potenza, altrettanto rischia di farvi finire in cenere qualora dovesse digerire male. Per nulla piacevole avere sul collo il fiato del drago.
“La storia di altri paesi – scrive la BoE – suggerisce che gli episodi di liberalizzazione del conto capitale possa essere accompagnata da rischi per le economie domestiche e la stabilità finanziaria, che potrebbero avere impatti sul sistema finanziario globale”.
Basta ricordare cosa è successo dal 2008 in poi nello splendido mondo delle economie con i capitali liberi per capire di cosa parla la BoE.
Nel caso della Cina, poi, ci sarebbe l’aggravante sistemica di un’economia che si candida ad essere la seconda del mondo. Aprire il conto capitale della Cina comporterebbe esporla ai marosi della fiducia, che noi tutti conosciamo bene, e al potenziale destabilizzante dei capitali esteri, che per adesso entrano in Cina quasi esclusivamente come investimenti diretti, peraltro assai bene remunerati, visto che la Cina vive il curioso paradosso di essere il più grande creditore del mondo con un saldo negativo sul lato dei redditi della bilancia dei pagamenti.
E tuttavia, nota la BoE “dalla grande crisi del 2008 c’è stato un rilassamento nei controlli in alcune aree”.
La seduzione del drago è inevitabile, e non è certo un caso che se ne occupi la BoE, portabandiera del più grande centro finanziario del mondo.
Purtroppo, nota la BoE, “il governo non ha ancora pubblicato una road map di questo processo”, anche è se probabile che “ci vorrà almeno un decennio”.
Nel 2024, dunque, il processo potrebbe essere completo. E la Cina diventare l’America asiatica, “una forza di stabilità e di crescita non solo per la Cina stessa ma il sistema monetario e finanziario internazionale”.
Manco a farlo apposta, il 2024, nel calendario cinese, è l’anno del Drago.
Il default americano, ovvero la fine del mondo
Per capire perché mai il mondo tremi ogni volta che gli americani giocano col loro debito pubblico basta leggere tre paginette dell’ultima Financial stability review della BoE.
La banca centrale inglese prende talmente sul serio la possibilità che gli americani, fra uno shutdown e l’altro, finiscano col mandare in default il loro debito che hanno analizzato in profondità il ruolo degli Us treasury (i titoli di stato) nel sistema finanziario globale.
Una lettura molto edificante, dalla quale ho tratto una conclusione molto semplice e altrattanto nota: il mondo è una gigantesca bomba finanziaria e la miccia sta a Washington.
Quello che scopro in più leggendo l’analisi della BoE è che già la minaccia di un default è pericolosa per la stabilità finanziaria, trattandosi di un territorio in gran parte inesplorato. “E’ difficile – scrive la BoE – giudicare l’impatto preciso di uno shock sui Treasury”.
La BoE ricorda che i bond americani non hanno clausole di cross-default, ossia quel particolare meccanismo giuridico per il quale un default su una classe di obbligazioni si estende a tutte le classi di obbligazioni di quell’emittente. Ad esempio se io ho un debito per l’acquisto di un automobile e non pago la rata, il mio default sul debito dell’automobile non si estende al debito che ho per il mutuo.
La mancanza di una cross-default provision implica che un default settoriale su una classe di bond americani non si estenda a tutti gli altri. Di conseguenza la magnitudo della crisi dipenderà dal numero e dall’ammontare delle obbligazioni il cui pagamento verrà ritardato.
Nelle ultime cronache da shutdown e debt ceiling dell’ottobre scorso ballavano circa 3.000 miliardi di debito americano, di cui un po’ meno di 500 erano T-bills, e il resto erano notes e bond. In totale parliamo di circa un quarto della montagna di obbigazioni americane in giro per il mondo. Più che sufficienti per far dire alla BoE che “quest’esperienza ha messo in evidenza che l’impatto di uno stress sui titoli americani può rapidamente diventare grande”.
La BoE individue due canali attraverso i quali il contagio può diffondersi per il mondo. Uno chiamato “fast burn”, quindi rapido e drammatico, e l’altro “slow burn”, lento ma sistemico.
Il primo terremoto, il più violento, sia per la rapidità che per la magnitudo, è quello che si provocherebbe sul mercato dei Repo, ossia quelle transazioni (come i pronti contro termine) in cui una parte cede un’obbligazione a un’altra in cambio di contanti, impegnandosi a ricomprarla al termine di una scadenza, restituendo la cifra presa a prestito.
Il mercato dei Repo è fonte di grandi preoccupazione per i regolatori. Di recente perché in questo mercato sono esplosi come collaterali gli MBS. Ma anche perché, ed è il nostro caso, perché i titoli di stati americani pesano circa un terzo dei collaterali depositati a garanzia.
I primary dealers americani, ossia le banche autorizzate dal Tesoro a comprare Treasury direttamente dal governo, sono grandi partecipanti del mercato Usa dei Repo “e usano circa 1.500 miliardi di treasury”.
Un sottoinsieme dell’ampio mercato dei Repo è quello costituito dalle transazioni tri-party repo. La logica del processo non cambia, solo che in questi scambi fra le due parti, ossia chi chiede cash in cambio di collaterale e chi dà il cash prendendo a tempo i titoli, si interpone una terza parte, ossia un agente che svolge il ruolo di “arbitro” fra le due, custodendo i titoli, garantendo l’esecutività delle transazioni. Agisce, insomma, come un soggetto di clearing.
Negli Stati Uniti questo ruolo viene svolto da due soli soggetti: la Bank of New York Mellon e la JP Morgan.
Il solo mercato americano tri-party repo, ossia quella parte delle transazione Repo intermediate dalle banche di clearing, quota circa 500 miliardi di treasury usati come collaterali in media nel mese di settembre.
All’epoca dello shutdown, scrive la BoE, “il mercato dei Repo si deteriorò. Ci fu un un brusco aumento nel costo dei prestiti Repo che si appoggiavano su collaterali Treasury, che raggiunse il picco di 26 punti base il 16 ottobre, 18 punti in più rispetto all’inizio dello stesso mese”. Un segnale – spiega – del timore che le tensioni sul bilancio pubblico americano finissero con lo scaricarsi sul mercato dei Repo. E in quei giorni si notò anche una certa disaffezione nei confronti di questo collaterale.
Da ciò la Boe ne deduce che “in caso di default si può prevedere che il mercato repo basato sui Treasury si essiccherebbe rapidamente”. Un mercato che pesa, lo ricordo di nuovo, un terzo del totale.
Peggio ancora andrebbe se se i prestatori finissero con “l’aumentare gli haircuts sugli altri collaterali, come risposta allo stress sui Treasury”. Il famoso effetto contagio che si traduce in straordinarie perdite a causa dei timori di soffrirne.
Della serie: mi sparo in testa per evitare l’emicrania.
Non bastassero i danni sul mercato dei repo, un default americano avrebbe effetti terribili anche sul mercato monetario, che pesa una cosetta da 2.400 miliardi di dollari di asset. In questo mercato operano fondi che investono il denaro dei loro sottoscrittori in strumenti di breve termine come la carta commerciale o, appunto, i T bill, ossia la i treasury a breve termine.
Sul totale degli asset in circolazione, i T bill pesano circa 450 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono altri 200 miliardi di dollari investiti in reverse repo, ossia in transazioni pronti contro termini in cui i fondi monetari sono controparte venditrice nella fase di ritorno (quindi rivendono il titolo che avevano comprato dal promotore in cerca di liquidità).
Così quando leggete che i mercati sono profondamente interrelati avete un’idea di che vuol dire.
Un default Usa avrebbe nel mercato monetario l’effetto di uno tsunami, atteso che tale mercato viene percepito come uno dei più sicuri (infatti offre rendimenti molto bassi). Anche stavolta, i fondi monetari dovrebbero vendere pezzi di altri asset per compensare il crash dei titoli americani, e questo avrebbe un effetto diretto sulle banche che sponsorizzano questi fondi. “Anche le banche europee potrebbero trovarsi in difficoltà ad ottenere fonti di funding alternative al dollaro in caso di condizioni di mercato stressato”.
Non vi basta?
Allora sappiate che una perdita di fiducia nel dollaro, anche senza arrivare a un default, potrebbe creare una mancanza di collaterale disponibile da contrapporre alle operazioni repo e sui derivati. In pratica, le controparti centrali si troverebbero senza strumenti per fare il loro lavoro, con la conseguenza che “ci sarebbe un ulteriore peggioramento delle condizioni di mercato”.
Il contagio si estenderebbe fino alle borse. Sempre ad ottobre, infatti, la semplice prospettiva di un default convinse il Chicago mercantile exchange ad aumentare del 12% il margine richiesto agli investitori (ossia la quota di deposito richiesta a fronte della transazione), per operare sugli swap sui tassi d’interesse americani, mentre il mercato di Hong Kong aumentava lo sconto sui titoli americani. “Questo comportamento pro-ciclico delle controparti centrali e delle borse ha il potenziale di peggiorare il collateral shortage”, ossia la mancanza di collaterale.
Gli ultimi due canali grazie ai quali il contagio si diffonderebbe sono quello della perdita mark to market sui bond americani, che sono in grande quantità nelle pance delle banche di tutto il mondo, a cominciare da quelle giapponesi “esponendo le istituzioni giapponesi a notevoli perdite potenziali”, e dulcis in fundo, quello delle riserve valutarie.
Quest’ultimo merita un breve approfondimento. Per quanto iscritto dai tecnici della BoE fra gli “slower burne”, ossia uno di quei canali che produce effetti lentamente, la perdita una fiducia del dollaro (cos’altro è un default?) metterebbe a serio rischio il ruolo del dollaro come valuta di riserva per stati e banche centrali.
Si calcola che dei 6.000 miliardi di dollari di riserve note, circa il 62% sia composto da dollari, mentre l’euro arriva al 24%. Un calo di fiducia, lo si è visto sempre ad ottobre, quando i rendimenti sui titoli a breve americani aumentarono significativamente (30 punti base), potrebbe spingere i gestori di queste riserve a orientarsi altrove.
Provo a ricapitolare. Un default americano “brucerebbe” prima l’interbancario, lasciando a corto di collaterale il mercato repo e quello monetario, quindi salirebbe di livello fino a terremotare le controparti centrali e le borse, sempre a causa del collateral shortage, ossia la mancanza di un collaterale alternativo credibile al treasury.
Sottolineo che su tale mancanza di alternativa l’America ci ha costruito la sua fortuna.
Quindi il contagio andrebbe a bussare direttamente ai bilanci delle banche, che stanno dietro questi mercati, prima infliggendo perdite in conto capitale e poi essiccando la loro possibilità di concedere credito, per la gioia dell’economia reale.
Infine, la devastazione arriverebbe fino ai piani alti, ossia gli stati e le le loro banche centrali.
Sarebbe una cataclisma senza precedenti nella storia.
La fine del mondo.
Ecco perché il dollaro viene considerato un investimento sicuro.
Il boom del mattone spaventa gli inglesi
Nelle cronache da eterno ritorno che caratterizzano le nostra economia contemporanea, vale la pena leggere l’ultimo Financial stability review della Banca d’Inghilterra che dedica un ampio capitolo ai rischi domestici provocati dall’impennata dei corsi immobiliari nel paese.
Lo dedichiamo a tutti quelli che, ancora oggi, applaudono ogni volta che si registra una crescita dei valori immobiliari. Che è di sicuro una bella cosa, ma contiene in sé i germi del disastro. E basterebbe ricordare quello che è successo nel mondo, a partire dal 2007, proprio a causa del booom immobiliare pompato a credito degli anni precedenti.
Ma poiché tali lezioni finiscono nel dimenticatoio, seppellite dai sedicenti successi dell’economia, ecco che vale la pena tornarci sopra, notando però che la BoE non si occupa del passato, ormai morto e sepolto, ma del presente.
“La media nazionale dei prezzi, nei dodici mesi conclusi a ottobre 2013 – scrive la BoE – segna un aumento del 6,8% e una serie di indicatori indicano che ci sarà un’accelerazione nel breve termine. Le previsioni suggeriscono un ulteriore aumento fino al 10% nel 2014”.
Tale trend viene da lontano. “Nel passato i prezzi delle case sono cresciuti in molte regioni dell’UK e, sin dal 2009, la crescita è stata più rapida in alcune aree, come Londra, dove la crescita dei prezzi medi è stata relativamente alta”.
Questa situazione è stata favorita dall’aumento dell’occupazione e della domanda estera di mattone, per lo più concentrata nell’area centrale di Londra, malgrado il suo peso relativamente contenuto (corca il 3%) sul mercato londinese.
La prima conseguenza è stata che anche il mercato del commercial real estate si è ripreso. Gli investimenti esteri nel CRE inglese, infatti sono praticamente raddoppiati dal 2011 in poi, superando persino il picco del 2007.
“Finora – scrive la Banca – i compratori hanno acquistato senza un leverage significativo e gli standard di prestito sono rimasti a livello conservativo, con un loan-to-value più basso del livello pre crisi. Ma l’esperienza suggerisce che i prestatori possano essere esposti a un rischio di rifinanziamento dei propri prestiti quando il mercato dei tassi si normalizzerà”.
Traduco: chi ha preso a prestito finanzia a breve il mutuo a lungo, contando sulla politica dei tassi bassi. Quindi quando i tassi aumenteranno, e di conseguenza anche il costo dei debiti a breve, questi soggetti potrebbero subire uno stress da rifinanziamento.
Anche qui: nulla di nuovo sotto il sole.
Ma il tema è generale. “La ripresa dei prezzi dell’immobiliare in UK – scrive – si è verificata sullo sfondo di un prolungato periodo di tassi bassi globali. La teoria e l’evidenza suggeriscono che bassi interessi a lungo termine e forti afflussi di capitali dall’estero alle economie avanzate possono provocare importanti cambiamenti nelle dinamiche dei prezzi nel breve periodo”.
In aggiunta, “bassi tassi possono incoraggiare le famiglie a caricarsi di più debito”. E “c’è qualche evidenza che questo si stia verificando nel corrente trend di mercato, con famiglie che prendono mutui di lunga durata che gli consentono di avere prestiti più alti”.
Sapere quanto sia sostenibile tale situazione “dipende da quanto sia probabile che i tassi a lungo termine rimangano al livello corrente”.
Un’altra simpatica controindicazione dell’exit strategy che verrà.
Tutto ciò si inserisce in un contesto, quello inglese, in cui “i bilanci delle famiglie e delle imprese sono altamente sensibili alle fluttuazioni dei prezzi delle proprietà immobiliari e alla capacità di questi soggetti di servire il proprio debito”.
Per le famiglie il valore delle case pesa circa la metà della ricchezza patrimoniale e il mutuo circa tre quarti del loro debito lordo. Ciò implica che basta molto poco, come d’altronde è successo nel 2007, a vedere dimagrire il valore della prima e aumentare il valore reale del secondo. Che è il miglior viatico per avere un debito insostenibile.
Nel settore corporate, il 40% di tutti i debiti sono verso il mattone commerciale e in totale il mattone pesa il 70% del valore complessivo degli asset non finanziari in UK.
Insomma: il settore è estremamente sensibile alle bufere finanziarie.
Queste dinamiche sono sostanzialmente simili a quelle pre-2007.
Il fatto che la Banca centrale, dopo averle incoraggiate con le sue politiche di Quantitative easing, si accorga che oggi costituiscono di nuovo un rischio dice tutto sulla schizofrenia del nostro tempo e sulla sostanziale impotenza “sistemica” dei nostri banchieri centrali, che turano una falla destinata a riaprirsi grazie al loro intervento.
Una situazione paradossale, che mette gli inglesei, ma sostanzialmente tutti noi, di fronte al solito dilemma fra squilibrio e depressione.
La fisionomia del disastro (finora potenziale) ricalca i vecchi schemi.
I prestatori che offrono mutui fino al 95% del valore dell’immobile, scrive la BoE, sono aumentati da 28 a 36 negli ultimi anni. E questa abitudine, ossia quella di erogare mutui per un valore sostanzialmente pari al valore dell’immobile, è unanimamente riconosciuta come una delle più pericolose per la stabilità finanziaria.
Allo stesso tempo, sottolinea il rapporto, chi si indebita ha allungato la durata del mutuo ben oltre i 25 anni, esponendosi così al rischio di rialzo dei tassi d’interesse, in un momento che i tassi sono a zero, e quindi possono solo salire.
I regolatori inglesi hanno provato a correre ai ripari, emanando alcune norme in virtù delle quali le banche dovranno attentamente monitorare i soggetti a cui erogano il mutuo prima di concederglielo. Ma queste regole andrano in vigore solo nell’aprile 2014.
Intanto si balla sul Titanic.
Per il 2014 i regolatori inglesi, spaventati dall’alto livello di indebitamento raggiunto dalle famiglie, vicino ai massimi storici, hanno proposto di svolgere stress test sulle banche simulando scenari di crisi collegati proprio all’adeguatezza del capitale in relazione ai portafogli immobiliari.
Inoltre, poichè i prezzi sono previsti in crescita, “tanto più questa crescita sarà robusta tanto più aumenta il rischio che si arrivi a una correzione”.
Lo dice il buon senso, prima ancora della BoE. Ma il buon senso non ha diritto di cittadinanza quando riparte l’esuberanza irrazionale, come ebbe a definirla l’ex boss della Fed.
A sua volta questo rischio di correzione dei corsi immobiliari “pone diretti rischi al capitale delle banche, aumentando le perdite su crediti”.
Col risultato che per le banche, pur se hanno aumentato il loro capitale dopo la crisi del 2007 (e stendiamo un velo pietoso su dove abbiano trovato i soldi), un downturn dell’immobiliare rischia di propagarsi come una peste anche agli altri asset, non solo a quelli direttamente collegati ai mutui.
Per completare la descrizione dell’effetto contagio, la BoE ricorda che molte banche, ossia quelle che hanno l’abitudine di finanziarsi a breve termine utilizzando particolari strumenti finanziari (wholesale funding market), aumentando la leva finanziaria per poter concedere più credito, possono peggiorare la vulnerabilità dell’intero sistema bancario in caso di crisi sul mercato dei mutui.
E’ vero che dal 2007 in poi le banche hanno diminuito la loro dipendenza dal wholesale funding, spinte dai regolatori, dice la BoE. Ma “se la crescita dell’indebitamento delle famiglie iniziasse a superare quella dei depositi, si potrebbe aprire un gap nella capacità di funding del sistema bancario” che potrebbe indurre le banche a riprendere queste pratiche.
Insomma: un robusto passo indietro, alla faccia dei passi avanti fatti finora.
E se poi le banche, oltre a ricominciare a finanziarsi a breve, cominciassero anche ad attingere ai mercati esteri per trovare le risorse da dare in prestito per inseguire la bolla immobiliare, finirebbe che esploderebbe anche il loro debito estero, “aumentando la loro vulnerabilità ai cambiamenti del sentiment estero”.
Che a quel punto rischierebbe di contagiare l’intero paese.
Per chi non lo ricordasse, il saldo del conto corrente inglese ha segnato un deficit del 4% del Pil nel primo quarto del 2013, peggiorando sensibilmente dall’ultimo quarto del 2011, quando era ancora intorno al 2%, come riporta l’ultimo staff report del Fmi del 28 giugno scorso.
Faccio notare la circostanza che per la prima volta è diventato negativo anche il saldo dei redditi delle partite correnti, che nel 2009 segnava ancora un surplus del 2% del Pil.
Insomma, tutto serve agli inglesi salvo che altro debito estero nel settore privato.
Cosa ci racconta questa storia?
Che tutto cambia per tornare a fare tutto quello che si faceva prima come si faceva prima.
Business, as usual.
