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Gli economisti (e il Fmi) pianificano la moneta internazionale (e gli Usa ridono)
Mai ipocrisia economica fu più raffinata di quella esemplificata dal paradosso di Triffin sulla moneta internazionale. Il famoso economista disse, semplificando, che fare di una moneta nazionale (nella fattispecie il dollaro) una moneta internazionale era una sicura fonte di squilibri, visto che il mondo avrebbe dovuto sopportare un crescente deficit nella bilancia dei pagamenti americana per poter disporre della liquidità necessaria e sufficiente a garantirsi la crescita.
I fatti, come tutti sanno, hanno dato ragione a Triffin. E nel dibattito accademico c’è un’ampia quota di economisti convinta che sarebbe più efficiente disporre di una moneta internazionale per i pagamenti e soprattutto le riserve.
Dibattito appassionante, se vi piace l’economia internazionale, ma sostanzialmente ipocrita. Il vero paradosso è credere che la buona creanza economica possa aver ragione della forza bruta. Che poi è quella americana. Di fronte all’opzione politica, necessariamente fondata sulla forza, quella economica sostanzialmente arretra intimidita. Per non parlare di quella politica.
Come esempio basti la puntuta reazione di Christine Lagarde, boss del Fmi, al recentissimo rifiuto del congresso Usa di approvare la riforma delle quote che era stata decisa dal board del Fmi a novembre del 2010. La Lagarde ha espresso un “profondo disappunto”. Chissà che risate a Washington.
All’epoca si parlò di rivoluzione, visto che la riforma prevedeva di raddoppiare il totale delle quote e trasferire un 6% dai paesi sovrarappresentati (gli Usa hanno oltre il 17% del totale delle quote) a quelli sotto rappresentati, quindi gli emergenti.
La bocciatura americana fa calare il sipario sulla riforma e riporta il discorso sul terreno assai concreto dei rapporti di forza i quali, checché ne dicano gli economisti, hanno un peso specifico assai più rilevante delle bilance dei pagamenti.
E tuttavia siccome gli economisti esistono, è persino piacevole abbandonarsi alle loro elucubrazioni che illustrano quanto sarebbe bello il mondo se fosse fondato sulla razionalità economica, versione impoverita del buon senso del padre di famiglia, invece che sulla capacità di muovere le armate.
Nel caso in ispecie, la Bri ha pubblicato un interessante opuscoletto (“Reforming the international monetary system in the 1970s and 2000s: would an SDR substitution account have worked?”) che è anche una storia monetaria breve dei tanti tentativi frustrati di strappare agli Usa l’esorbitante privilegio, per usare le parole di De Gaulle, rappresentato dall’emettere la moneta internazionale. Tentativi anch’essi ipocriti, a ben vedere. Sui debiti americani l’Occidente prima e l’Asia poi hanno costruito la loro fortuna di crediti. Quindi il gioco “paradossale” di Triffin andava bene a tutti. E anche oggi è così, malgrado qua e là appaiano tentativi assolutamente accademici di riaprire la discussione.
Ci si prova dagli anni ’60, nientemeno, per tacere di quando ci provò Keynes nel ’44 a parlare di moneta internazionale. E il fatto che adesso sia tornata d’attualità questa roba, prendendo a prestesto la terribile crisi scoppiata nel 2008, è certo assai più che un semplice vezzo accademico. S’intravede fra le righe un desiderio di strappare alla moneta egemone la sua supremazia, trasferendola a un entità sovranazionale, segnatamente il Fmi, che dovrebbe fare dell’egemonia monetaria, ossia la gestione efficiente della liquidità internazionale, la cifra specifica del suo governare.
Viene da dire, citando un proverbio, che gli economisti fanno i piani e gli Usa, anche stavolta, ridono.
Detto ciò, è interessante leggere questo paper, anche per capire quale sia lo stato dell’arte e cosa servirebbe per arrivare al dunque.
Ma prima di esplorare la tecnicalità, serve un po’ di storia.
Già dal 1960, spiega la Bri, “c’era una preoccupazione diffusa sulla sostenibilità del sistema di Bretton Woods basandolo su una valuta nazionale”. Ma già da allora la totale indisponibilità americana a considerare il dollaro un problema comune, non soltanto nostro, spense sul nascere qualunque tipo di dibattito.
Si dovette arrivare al 1965, quando la bilancia dei pagamenti americana era ormai a fine corsa – gli Usa avevano seriamente compromesso la loro posizione di grandi creditori del mondo occidentale – perché l’amministrazione di Lyndon Johnson iniziasse ad abbozzare una forma di dialogo sul tema nell’allora G10. Tanto dibattere produsse, due anni dopo, la decisione di costruire una moneta di riserva internazionale che poteva essere creata dai paesi membri del Fmi senza però l’intento di sostituire la moneta già esistente. Riguardava più la creazione di flussi futuri di moneta internazionale, più che trovare il modo di spezzare il dilemma di Triffin.
Sicché, quando nel 1967 furono varati gli SDR (Special drawing rights , DSP in Italia) “fu un trionfo di ambiguità”, come nota la Bri. I vari paesi del Fmi la interpretarono ognuno a suo modo, celebrando ancora una volta la squisita ipocrisia che circonda le cose economiche nel nostro tempo.
Quando nel 1970 la debolezza del dollaro era ormai conclamata, e si attribuiva all’abbondante dollarizzazione dell’economia internazionale il graduale innalzamento dell’inflazione globale, i vari policymaker ricominciarono a parlare di un modo per trasformare le ampie riserve in dollari in altre valute. Fu in quell’epoca che venne fuori l’idea del “conto di sostituzione”.
Di questo espediente tecnico si parlò un decennio per poi cessare nel 1980, quando l’idea fu bocciata. Lascio alla vostra immaginazione capire perché.
Il piano prevedeva che i possessori di riserve potessero rimpiazzare una porzione delle loro riserve denominate in dollari con gli SDR emessi dal Fmi. Nel 1973, quindi dopo la fine del sistema di Bretton Wood determinata dallo sganciamento del dollaro dall’oro del 1971, il Tesoro americano si disse pronto a una conversione gobale di alcune delle riserve denominate in dollari con SDR. Tuttavia prevalse la diffidenza: il Tesoro Usa avrebbe dovuto comunque garantire il valore delle obbligazioni in SDR che avrebbero sostituito quelle denominate in dollari. E c’era il rischio evidente, se le remunerazione di queste nuove obbligazione fossero state troppo generose rispetto a quelle garantite dal Tesoro Usa sulle proprie, che il piano non passasse. Come poi effettivamente successe.
Questo è il primo problema che persiste anche oggi: se il tasso delle obbligazioni denominate in SDR è troppo elevato rispetto a quello denominato in dollari, gli americani hanno tutto da perderci e nulla da guadagnarci a sponsorizzare un’operazione siffatta. E certo non sono così generosi da cumulare il danno derivante dalla perdita della moneta internazionale alla beffa di pagare pure il conto.
Comunque sia, nel 1973 il direttore esecutivo del FMi William Dale definì il “conto di sostituzione” semplicemente come “un interessante esercizio accademico”, spiegando che “fino a che i vari promotori non avessero trovato il modo di trovare un accordo sul problema delle obbligazioni finanziarie del centro di riserva si sarebbero fatti pochi progressi”. L’ipocrisia svelata, viene da dire. Chi sia il “centro di riserva” non devo certo spiegarvelo io.
Dal ’73 al 1980 furono elaborate altre proposte, dalle quali emergeva il chiaro desiderio dei paesi europei, specie quelli in surplus, affinché gli Usa mettessero sufficienti denari sul tavolo per garantire la conversione in SDR. Ma poi la crisi energetica di quegli anni, l’inflazione, i tassi di cambio fluttuanti e l’esplosione della stagnazione in deficit fece scivolare il “substitution account” nella parti basse dell’agenda del Fmi.
Se ne continuò a parlare solo nei vari comitati tecnici, sempre con l’ipoteca della posizione statunitense che, disse il negoziatore che lavorava sul dossier nel 1979 “non sono disposti a sopportare più della metà del rischio di cambio”, la qualcosa piaceva poco agli europei, che avevano già accumulato cospicue riserve.
Fra tutti vale la pena registrare la presa di posizione tedesca. La Germania, già all’epoca economia export-led, temeva che la conversione dei dollari in SDR potesse scatenare una fuga dal dollaro verso altre monete di riserva come il marco, la qualcosa avrebbe danneggiato il suo saldo commerciale.
Emerge quindi, sin da allora, una mutua comunità di intenti fra il grande debitore americano e i grandi creditori, europei e poi asiatici, ai quali faceva comodo che lo squilibrio delle bilance dei pagamenti finanziasse sostanzialmente il loro export e quindi, indirettamente, la loro crescita.
Questo patto silente è entrato in crisi nel 2008, anche sulla spinta delle economie emergenti. Che infatti hanno spinto parecchio per riformare la governance del Fmi. Inutilmente.
Lo studio ricorda l’intervento del governatore della banca centrale cinese del 2009 che fece scalpore perché per la prima volta da decenni la riforma del sistema monetario internazionale tornava d’attualità, sospinto dal più rilevante creditore e accumulatore di riserve americane.
Ecco quindi che anche il dibattito sul substitution account ha ripreso corpo. Ma sono ancora sul tappeto gli stessi problemi di trent’anni fa: come regolare i rapporti fra il valore del dollaro e quello dell’SDR? Se il dollaro si rafforza inevitabilmente si creerà un effetto calamita verso la moneta americana quale valuta di riserva. E come regolare il livello fra i tassi degli asset denominati in dollari e quelli in SDR? Detto in altre parole: chi paga?
E’ chiaro a tutti che attuare un progetto così ambizioso costa una barca di quattrini (dollari o SDR che siano) e anche l’espediente “politico” di usare risorse del Fmi è comunque sottoposto a una chiara ipoteca politica, visto che il Fmi ha i suoi bravi azionisti statali, fra i quali, manco a dirlo gli Usa fanno la parte del leone.
Ed è proprio sulla questione della condivisione dei costi, aldilà della questione più autenticamente politica (la fine dell’egemonia monetaria americana) che si concentra l’attenzione degli economisti. Gli Usa, spiega la Bri, non hanno accettato né accetterano mai di pagare il costo della sostituzione. Sarebbe come accettare di pagare finalmente i propri debiti, sulla cui espansione senza freni si è costruita la fortuna dell’Occidente.
Ma è evidente che se tutti contribuissero a pagare il conto, ciò equivarrebbe a una sostanziale resa dei conti complessiva. Una Grande Compensazione. Che però nessuno sembra aver interesse a mettere in campo. Né i debitori né, per motivi opposti, i creditori.
Anche perché a compensazione avvenuta il Fmi potrebbe diventare ciò che doveva diventare, ossia una sorta di banca centrale internazionale.
Questo è il piano
Gli Usa, ovviamente, continuano a ridere.
L’Europa keynesiana (in salsa tedesca)
Riprendiamo, dunque, da dove eravamo rimasti, ossia dalla questione bancaria che questo 2014 vedrà grande protagonista delle cronache e delle preoccupazioni di noi tutti, se non altro per la semplice circostanza che le banche, ci piaccia o no, sono diventate l’architrave del nostro Stato e della periclitante costruzione europea.
Le banche, perciò, ovvero l’ennesima scommessa dell’eu-topia europea, che trova nel faticoso compromesso sull’Unione bancaria il magico ingrediente che dovrebbe addensare la frammentazione finanziaria dell’eurozona, in ultima analisi sociale, in amalgama digeribile per il delicato stomaco dei mercati.
Ma siccome le cronache sono ancora avare di notizie, in questo principio d’anno, rivolgiamoci alla storia che contiene nella sua memoria ovvietà che l’incultura del presente ha dimenticato a tal punto da ritrasformarle in dibattito politico. Scopriremo, ricercando, quanto sia profonda e avvinta nel passato più remoto la nostra tragicomica attualità che in fondo sogna da ottant’anni almeno – per non dire da almeno due secoli – lo stesso sogno: l’unità al prezzo dell’omologazione. Ovvero, il benessere diffuso al prezzo di un crescente dispotismo. Senza poi che nessuno – o solo pochi – si interroghi sul significato di tale benessere od osservi che tale dispotismo ormai, nel territorio europeo, si declina con lo strumento monetario. Difficile da capire ancor più che da gestire, ma che comunque sta diventando un notevole surrogato della vecchia politica di potenza degli stati.
Ecco un pezzo della nostra radice: “Riunire un gruppo di paesi, alcuni dei quali saranno in una posizione debitoria e altri in una posizione creditoria, in un’Unione monetaria allargata al mondo intero è senz’altro possibile. Viceversa, è impossibile, a meno che non abbiano anche un sistema bancario ed economico comune (corsivo mio, ndr), riunirli in un’unione monetaria che sia contro il mondo intero”, perché “”i membri in credito dovrebbero fare un prestito forzoso e non liquido dei loro saldi attivi a favore di quelli in debito”. Il fatto che tali parole, scritte da Keynes nel 1941 suonino attuali, mostra meglio di ogni ragionamento quanto siamo incagliati e, soprattutto da dove siamo partiti e dove siamo arrivati.
L’Unione bancaria soddisfa, keynesianamente, il requisito fondante di un’Unione monetaria e, soprattutto, permette di evitare, sempre keynesianamente, la circostanza che i paesi ricchi finiscano col dover prestare ai poveri per tenere in piedi la costruzione monetaria.
Questo svela un requisito del presente che rimane sovente sottotraccia nelle analisi: l’Europa di oggi deve moltissimo a Keynes. Ma a guardare bene, si potrebbe dire di tutto l’Occidente.
Innanzitutto nel presupposto: nell’intervento statale, esplicito o furbescamente camuffato od obliterato dalla sua sostituzione con un organismo di banca centrale, quale antidoto necessario al laissez faire contro il quale Keynes scaglierà nel corso della sua lunga carriera i suoi dardi più appuntiti. A ragione, diranno in molti. A controprova di quanto il keynesianesimo, nelle sue varie declinazioni, sia consustanziale oggidì nella nostra costituzione di europei e occidentali.
Checché ne dica la vulgata, infatti, Keynes non fu, o almeno non solo, spesa statale in deficit, che poi divenne popolare solo perché fu lo strumento degli stati per incoraggiare la deriva capitalistica camuffata dalla società dei consumi. Nel suo fondo l’economista inglese diceva solo una cosa: non si può fidarsi della mano invisibile in economia. Ergo: bisogna intervenire. Con ciò legittimando una supremazia, quella della politica sull’economia, che ha dato forma e foraggio all’epopea occidentale del dopoguerra.
Pensiero comune, peraltro.
A Friburgo, ai tempi di Weimar, per dirne una, maturavano i talenti dell’ordoliberalismo tedesco, che poi frutteranno nella dottrina dell’economia sociale di mercato che ha reso celebre la Germania del dopoguerra, proprio mentre Keynes confezionava la sua Teoria generale. Segno che la reazione alla mano invisibile, tentativo maldestro di celare la potenza dello stato nazionale dietro una vernice di ottimismo economico, era nell’aria: matura, per così dire. E nessuno più di Keynes, probabilmente suo malgrado, è stato associato a tale movimento.
In tal senso non possiamo non dirci keynesiani.
Questa parole sulla necessità di un’Unione bancaria per dare corpo a un’Unione monetaria Keynes le scrive nel 1941, dicevo, e più precisamente in un documento del 15 dicembre intitolato “Proposte per un’Unione monetaria internazionale”, uno dei tanti papelli che andarono ad alimentare la proposta inglese sui tavoli di Bretton Woods, che poi finì com’è noto. Il meccanismo di clearing fondato su una moneta unità di conto internazionale proposto da Keynes per trovare finalmente una soluzione alle costanti crisi delle bilance dei pagamenti fu accantonato perché la potenza egemone, l’America, una moneta l’aveva già e non aveva nessuna convenienza a metterla in comune, rinunciandoci.
Ma l’Europa non dimenticò la lezione. Una decina di anni dopo, la clearing house di Keynes delineò la fisionomia di uno degli esperimenti meglio riusciti della nascente Comunità europea: l’Unione europea dei pagamenti. Ancora una volta lezione keynesiana, ma a metà, giocoforza. Gli stati nazionali europei preferirono affidare al welfare – quindi alla redistribuzione politica del reddito – il ruolo di integratore sociale, esattamente come oggi mettendo all’indice il welfare rischiano il risultato opposto, ossia disintegrare la società usando il pretesto del suo costo ormai immane.
E qui entra in gioco l’entità sovranazionale, della quale Keynes era un grande estimatore, da bravo inglese che aveva bene assorbito la lezione imperiale e sperava ingenuamente di insegnarla anche agli americani.
Costoro però, assai più sensibili alla roba che alla seduzione del pensiero astratto, sapevano con l’istinto del predatore che l’impero – il loro – era già nelle cose. Non abbisognava certo dei calcoletti di uno studioso inglese, malgrado le rassicurazioni costanti di costui circa la convenienza reciproca, quindi angloamericana, a far funzionare la sua clearing house. “La banca (la clearing house, ndr) deve essere posta sotto una direzione angloamericana – scrisse -. Potremmo richiedere che la sede centrale sia situata a Londra e il consiglio direttivo si riunisca qui e a Washington”. S’intravede la preoccupazione dell’economista, anzitutto inglese, di “dare continunità storica all’area della sterlina”, nonché preservare “la tradizionale libertà di Londra come piazza finanziaria”. Preoccupazioni affatto aliene agli Usa, che infatti non abboccarono.
L’entità sovranazionale era per definizione il miglior antitodo contro la prepotenza statale (non inglese). La Bri, ad esempio, pervicacemente difesa in sede di contrattazione a Bretton Woods, quando gli americani volevano chiuderla, e che poi diventerà il contabile dell’Unione europea dei pagamenti, dopo esserlo stata negli anni ’30, quando si trattava di commercializzare le riparazioni tedesche, e oggi la scrittrice delle regole bancarie che tanto fanno affannare le autorità.
Ma soprattutto il principio che più stava a cuore di Keynes era quello della compensazione multilaterale, che peraltro l’esperienza dell’UeP dimostrò funzionare egregiamente, a certe condizioni. La prima delle quali, ovviamente, era la cessione di sovranità.
Tale principio ha una radice ancora più profonda. Ed è lo stesso Keynes a mostrarcela sempre in uno scritto del 1941, dell’8 settembre stavolta, intitolato “Il problema degli squilibri finanziari globali”. Lettura consigliata, perché Keynes mostra in poche pagine come il problema delle bilance squilirate dei pagamenti abbia trovato nel ventennio occorso fra le due guerre, ogni soluzione immaginabile trovandosi ogni volta sbagliata. Fra questa vale la pena citare quella dell'”uso della deflazione, e peggio ancora di “deflazioni competitive per forzare un aggiustamento dei livelli dei salari e dei prezzi, al fine di spingere o di attrarre il commercio verso nuovi canali”, che oggi richiama alla memoria la recente strategia mercantilistica tedesca.
Tanto per dire che torniamo sempre alle origini.
Fu proprio la Germania di allora, infatti, a trovare il principio che illuminò Keynes. “Dopo i tentativi e gli errori precedenti – scrive – il dottor Schacht inciampò per disperazione in qualcosa di nuovo che aveva in sé i germi di un buon accorgimento tecnico (..) e permise a una Germania impoverita di accumulare le riserve senza le quali non avrebbe potuto imbarcarsi nella guerra. Il fatto che tale metodo sia stato usato al servizio del male non deve impedirci di vedere il vantaggio tecnico che offrirebbe al servizio di una buona causa”. Il meraviglioso pragmatismo inglese.
Il dottor Schacht era quel Hjalmar Schacht, bancario tedesco di cultura americana che stabilizzò il marco dopo la tremenda iperinflazione di Weimar e finì a presiedere la Reichsbank, la banca centrale tedesca di Weimar, dove rimase fino al 1930, tornandovi tre anni dopo, quando Hitler divenne cancelliere. Nel 1934 fu nominato ministro dell’economia e da quella posizione organizzò il suo personalissimo New deal alla tedesca, peraltro nei suoi risultati assai più efficace di quello americano, realizzando un keynesianesimo ante litteram: quindi spesa pubblica per creare posti di lavoro, obbligazioni statali destinate a circolare all’interno della Germania (Mefo) e, soprattutto, il meccanismo della compensazione dei crediti con i debiti, tramite il quale la Germania finì con l’annullare il suo debito estero. Il principio era molto semplice: le importazioni da un paese venivano pagate con merci tedesche, non con denaro.
A queste compensazioni bilaterali, la Germania sostituì una compensazione multilaterale che agiva pienamente già nel ’41, quando Keynes scriveva il suo documento. Schacht aveva già abbandonato la vita ministeriale e al suo posto era arrivato in più conosciuto Walther Funk. Fu proprio in quel periodo che riprese vigore il dibattito sulla Großraumwirtschaft, l’economia del grande spazio di cui i teorici tedeschi discutevano già dagli anni ’30 (Ai più curiosi suggerisco la lettura del saggio di Paolo Fonzi “La «Großraumwirtschaft» e l’Unione Europea dei Pagamenti: continuità nella cultura economica tedesca a cavallo del 1945”, in Ricerche di storia politica, nr 2, 2012, pp. 131-154, il Mulino).
I successi militari della Germania hitleriana, infatti, avevano riesumato una discussione che sembrava confinata nell’alveo accademico. C’erano ampi territori da sfruttare e strumenti tecnici da realizzare per favorire il commercio fra il Reich e i territori occupati. L’idea perciò di creare e organizzare forme di integrazioni sovranazionali di livello regionale parve agli economisti tedeschi il miglior modo per garantirsi le forniture e le risorse economiche necessarie a proseguire la guerra. La Großraumwirtschaft, peraltro, riprendeva suggestioni del secolo precedente, quando dopo la vittora di Sedan (1870) la Germania si fece sedurre dall’idea di un’area economica integrata a forte egemonia tedesca.
Il 1940, anno in cui la vittoria finale nazista sembrava ormai imminente, Goring conferì a Funk l’incarico di progettare questo “spazio economico” europeo a guida tedesca. Si formò un gruppo di lavoro al quale ovviamente presero parte anche i banchieri della Reichsbank, l’antenata della Bundesbank, al quale si diede l’incarico di promuovere l’unificazione europea con l’obiettivo finale di arrivare a un’unificazione monetaria e doganale. Vale la pena ricordare che già nei primi anni ’30 era fallito a Ginevra il tentativo di realizzare un’Unione doganale europea, col risultato, assai avversato dai francesi, che se ne creò una fra l’Austria e la Germania.
I punti salienti del piano tedesco del ’40 prevedevano la formazione di un sistema di clearing centralizzato, il progressivo alleggerimento dei controlli valutari, formazione di un sistema di cambi fissi in Europa. Tutte questioni che diverranno di stringenti attualità nell’immediato dopoguerra, come abbiamo visto. Ma lo sono anche oggi.
Il punto saliente, che ci ricollega al presente, è che il progetto prevedeva che l’area integrata fosse a due velocità. Nel primo cerchio stavano i paesi “affini”, quindi la grande Germania, la Boemia e la Moravia oltre al governatorato generale (parte della Polonia, la Danimarca, la Norvegia, l’Olanda, il Belgio il Lussemburgo e forse la Slovacchia). Quindi un cerchio esterno, all’inizio escluso da meccanismo di clearing e dall’Unione monetaria, dove dovevano stare i paesi del sud est europeo.
Oggi diremmo, i paesi dell’euro A e quelli dell’euro B.
Anzi, lo dicono in tanti, immaginandola come l’unica soluzione ai guai della moneta unica. E tanti hanno ricominciato a parlare del clearing keynesiano quale strumento tecnico utile a pareggiare gli squilibri Target 2.
Potremmo fermarci qui, ma vale la pena fare un altro paio di esempi per mostrare come a tali radici corrispondano comportamenti attualissimi. Prediamo l’Ltro, il piano di rifinanziamento delle banche deciso dalla Bce che ha prestato mille miliardi alle banche all’1% per tre anni.
Nel 2011, quando fu deciso, si disse che era un’idea dell’ex governatore Trichet. Ma gli storici ci dicono che tale modalità di intervento, collegato però alla fissazione di investimenti produttivi da parte delle imprese, era stato delineato da Keynes già nel 1930 proprio per abbassare i tassi di lungo termine. E in effetti quella era l’idea della Bce. Ma poi è finita che le banche hanno iniziato a fare carry trade con i soldi della Bce, e alle imprese sono arrivati solo gli spiccioli.
Abbiamo già visto il debole che Keynes, negli anni ’30, nutriva per le pratiche mercantilistiche, oggi quanto mai attuali. Ma che dire della Tobin Tax? “L’introduzione di una sostanziosa imposta governativa su tutte le transazioni finanziarie potrebbe rivelarsi la riforma più praticabile di cui disponiamo per mitigare il predominio della speculazione sull’impresa”, scriveva Keynes nel capitolo 12 della sua Teoria generale.
Tasse sulla finanza e sulla rendita, deciso interventismo statale (diretto o tramite le banche centrali), clearing dei saldi delle bilance del pagamenti, unioni sovranazionali economico-monetarie, e quindi bancarie: l’Europa keynesiana.
Ma in salsa tedesca.
Dal dilemma al trilemma, ovvero da Mr. Hyde al dottor Jekill
La tragedia del nostro tempo è scoprire la sostanziale schizofrenia del sistema finanziario. La follia dei big player del Grande Gioco della Finanza che dicono una cosa e ne fanno un’altra. Sembra quasi loro malgrado.
Questa malattia trasforma in terribili mister Hyde tanti buonissimi mister Jekill.
L’ultima vittima acclarata è Haruhiko Kuroda, governatore della Banca centrale giapponese, che qualche tempo fa abbiamo conosciuto nella sua più efferata versione di mister Hyde. Niente di meno che come l’artefice di quell’allentamento monetario già finito sui manuali del central banking.
Da bravo mister Hyde il governatore Kuroda teorizza l’aumento esponenziale del rischio via stimolo monetario, fissa target inflazionistici minimi, e giura che mai fermerà la pressa del torchio finché l’economia giapponese non tornerà a crescere, lasciandosi alle spalle un ventennio di deflazione.
Finora Kuroda/Hyde è riuscito a ottenere quello che la Bce, nel suo ultimo bollettino rilasciato in queste ore, ha registrato come il più marcato aumento di volatilità finanziari degli ultimi anni. Tanto per darvi un’idea, la volatilità implicita dei mercati azionari giapponesi è passata dal 15 al 35% da dicembre a giugno. In pratica un ottovolante.
Questo è quello che fanno i mister Hyde.
Poi però abbiamo scoperto un’altra versione di Kuroda. Proprio negli stessi giorni in cui magnificava la sua spada di samurai della moneta, il governatore partecipava a una conferenza del Japan institute of monetary and economics studies (Imes) sul tema “Financial Crises and the Global Financial System”.
E qui è venuto fuori il dottor Jekill, un appassionato teorico della stabilità, che ben conosce i mali dell’età della turbolenza di greenspaniana memoria.
“Ho sempre lottato con problemi apparentemente insolubili, come ad esempio le grandi fluttuazioni del tasso di cambio e grandi oscillazioni nei flussi di capitale”, ha detto. I famosi squilibri globali. “Ho visto diversi tentativi ed errori – ha sottolineato – e attraverso questi errori ripetuti l’economia ha accumulato saggezza: quando si affronterà il formidabile compito di ricostruire il sistema finanziario internazionale, duramente colpito dalla recente crisi finanziaria, le prove e gli errori del passato sicuramente ci forniranno preziose informazioni”.
Il problema principale, spiega il nostro dottor Jekill nipponico, è “il ruolo del trilemma della finanza internazionale nell’evoluzione del globale sistema finanziario”. Per superare il dilemma fra squilibri globali e depressione, insomma, bisogna affrontare questo trilemma.
Il trilemma, ossia un dilemma con tre corni anziché due, è uno problema micidiale. Peggio del dilemma, che ha solo due corni, perché propone tre alternative che è impossibile contemplare insieme.
Il trilemma di cui parla Kuroda-Jekill e quello teorizzato per la prima volta da Robert Mundell e Marcus Fleming che, in breve, afferma che nessuna economia aperta può allo stesso tempo raggiungere l’obiettivo di avere capitali liberi di circolare, tassi di cambio fissi e indipendenza della politica monetaria.
“I sistemi finanziari globali – spiega Kuroda – sono stati adottati sulla base dei vincoli di questo trilemma”. “Ma quando un sistema diventa insostenibile – aggiunge il samurai – e una crisi finanziaria ne è la prova, ciò conduce verso un nuovo sistema finanziario globale”.
Quindi, dice Kuroda, serve una riforma del sistema finanziario globale. Ancora una volta bisogna ripartire dal trilemma per superare il dilemma.
Serve un po’ di storia per capire. E infatti Kuroda-Jekill non si fa pregare. “Alla fine della seconda guerra mondiale – racconta – fu introdotto il sistema di Bretton Woods per risolvere alcuni problemi intercorsi nel periodo fra le due guerre, incluso le svalutazioni competitive. Con i controlli dei movimenti dei capitali (rinuncia al primo corno del trilemma, ossia la libera circolazione dei capitali), il sistema consentì insieme il perseguimento di una politica monetaria indipendente e il cambio fisso delle altre valute sul dollaro, convertibile in oro”.
In sostanza, si accettò di finire infilzati da un corno per creare un equilibrio sulla base degli altri due.
Vale la pena rilevare che l’unica politica monetaria era quella degli Usa. Solo gli Usa erano obbligati a una parità con l’oro. Il resto del mondo doveva fissare il cambio rispetto a dollaro, ma non aveva obblighi di convertibilità. La politica monetaria degli altri paesi era palesemente subordinate a quella americana, che in cambio del diritto di sbilanciare la sua bilancia dei pagamenti forniva a tutti i suoi alleati i dollari che servivano per rimettere in piedi le loro economie. L’equilibrio si basava su una violazione delle stesse regole che tale equilibrio avrebbero dovuto garantire. D’altronde le fragile economie uscite dalla guerra avevano bisogno di pane e liquidità per crescere sane e robuste, dovendo anche alimentare e nutrire la marea montante dei diritti sociali chiesti a gran voce dalle popolazioni stremate dai conflitti.
Il sistema prevedeva che sarebbero stati decisi interventi internazionali qualora fossero emersi, a livello globale, degli squilibri strutturali. Solo che in sede di redazione dei trattati si sorvolò sulla definizione di squilibrio. Tanto è vero che le svalutazione e le rivalutazioni furono rarissime fino alla fine degli anni ’60.
Senonché, lo abbiamo già visto, è proprio accettare che gli Stati Uniti siano in costante squilibrio che genera gli squilibri globali. In sostanza, la fame di liquidità, che garantisce negli anni del boom lo sviluppo del mondo occidentale, è il “peccato dell’Occidente”, come ebbe a definirlo l’economista francese Rueff, che alla lunga ci ha condotti dove siamo adesso.
Non a caso Rueff scrive nel 1972, quando ormai Bretton Woods è collassato dopo la decisione di Nixon del 15 agosto 1971 di sganciare il dollaro dall’oro e rinunciare perciò al secondo corno del trilemma, quello dei cambi fissi. “Di conseguenza – dice Kuroda – le economie avanzate mantennero una politica monetari indipendente, pur rinunciando ai cambi fissi e adottando un’ulteriore liberalizzazione mobilità dei capitali”.
Ulteriore perché già negli anni ’60 il sistema degli eurodollari aveva di fatto eluso anche il principio del controllo sui movimenti di capitale. Quello era un corno spuntato.
Ricapitoliamo. Il controllo sui movimenti di capitali era stato eluso dalla creazione indiscriminata di eurodollari negli anni ’60, il sistema dei cambi fissi terminò nel 1971. L’economia internazionale iniziò a basarsi solo sull’ultimo corno del trilemma: la politica monetaria indipendente.
Comincia l’età vera delle banche centrali. A queste entità fu affidato più o meno consapevolmente il ruolo di grandi regolatrici del sistema finanziario internazionale che ormai andava verso una impetuosa liberalizzazione. Finita l’epoca della repressione finanziaria, iniziava quella del “greed is good”, celebrata dal film Wall Street degli anni ’80, ossia dell’amore per l’avidità.
Finisce che gli squilibri aumentano a rotta di collo, sull’onda dell’espansione montante del credito seguita alle riforme liberalizzatrici degli anni ’80.
Il peccato originale dell’Occidente diventa la sua regola di vita.
Kuroda-Jekill ci dice anche un’altra cosa, ossia che “la crisi che stiamo vivendo è differente”. “Primo perché l’epicentro della crisi è stato nelle economie avanzate e la crisi si è diffusa da questa alle economie emergenti. Secondo perché questa crisi è stata innescata e poi amplificata dalle disfunzione dei sistemi finanziari”.
Quelli dove lavora mister Hyde.
La conclusione è davvero stupefacente: “Credo che la comunità finanziaria globale debba, nel suo sforzo di ricostruzione del sistema finanziario globale, fare i conti con due problemi: il controllo dei movimenti di capitali e la regolamentazione e supervisione finanziaria”. Traduzione: se vogliamo cambi flessibili e politiche monetarie indipendenti, dobbiamo rinunciare alla libertà di movimento dei capitali perché genera squilibri.
Niente più tana libera tutti.
Niente più facciamo come ci pare.
Ma mentre Kuroda/Jekill parlava, Kuroda/Hyde, ormai furioso, arrotava i tassi e controllava gli spread.
Da lì a poco avrebbe aperto New York.
