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La decrescita (economica) della ragione

Del tanto che c’è da leggere nell’ultimo rapporto annuale del Censis, vale la pena tentare un’interpretazione dell’ondata di “irrazionalità” censita dall’istituto, che minaccia di travolgere il nostro paese, non tanto relativamente al suo manifestarsi fenomenico – sapere che c’è un 5% di italiani che crede che la terra sia piatta è ai confini della nota di colore – quanto alle conseguenze che provoca nell’ordirsi della nostra crescita, innanzitutto economica.

Il perché è presto detto. Sempre il Censis, con una felice espressione, nota che siamo entrati nell’epoca dei “rendimenti decrescenti degli investimenti sociali”, a significare lo scetticismo che ampie fasce della popolazione covano nei confronti di quelle che una volta erano certezze. Ad esempio quella che una buona istruzione conducesse a un miglioramento della propria vita. Quindi l’investimento, qualunque esso sia – e non potevano fare eccezione gli investimenti finanziari – non frutta. E non fruttando diventa sterile. Meglio affidarsi alla cabala o alla lotteria della celebrità, per mettere insieme pranzo e cena.

Facciamo un passo indietro, attingendo dai dati pubblicati dall’istituto. ” Il Pil dell’Italia – scrive – era cresciuto complessivamente del 45,2% in termini reali nel decennio degli anni ’70, del 26,9% negli anni ’80, del 17,3% negli anni ’90, poi del 3,2% nel primo decennio del nuovo millennio e dello 0,9% nel decennio pre-pandemia, prima di crollare dell’8,9% nel 2020″. Ed ecco la curva della nostra decrescita economica in tutto il suo splendore. Se esistesse un trend capace di fotografare l’irrazionalità probabilmente avrebbe un andamento opposto. E in effetti il Censis sembra delineare un collegamento fra le due cose. “Questo (il rendimento decrescente dell’investimento social, ndr) determina un circolo vizioso: bassa crescita economica, quindi ridotti ritorni in termini di gettito fiscale, conseguentemente l’innesco della spirale del debito pubblico, una diffusa insoddisfazione sociale e la ricusazione del paradigma razionale”.

A questo punto, tuttavia, può essere interessante capovolgere il punto di vista. Chiedersi se non sia la decrescita della ragione la causa del ristagno economico. Il rendimento di investimento, com’è noto, non dipende solo dalla quantità dei fattori di produzione, ma anche dalla qualità. E dovremmo chiederci se, come società, abbiamo fatto la cosa giusta per avere fattori della produzione efficienti, e quindi sommamente razionali, in senso economico. Perché il dubbio è che non sia stata la crisi economica a generare la fuga verso l’irrazionalità, ma il nostro graduale disimpegno verso il calcolo economico, che della razionalità è un’applicazione pratica, come sa bene chiunque abbia letto Max Weber. Meno siamo capaci di razionalità, meno cresciamo.

Il sonno della ragione genera mostri, com’è noto. Quindi perché stupirsi se una quota rilevante di connazionali non crede che siamo mai andati sulla luna? Magari sono gli stessi che non sanno calcolare un interesse composto, o che popolano il vasto universo dei NEET, l’ampia quota di popolazione che non studia né lavora: 2,7 milioni di persone, nel 2020, secondo quanto rilevato dal Censis, ossia il 29,3% dei 20-34enni, con il Mezzogiorno a primeggiare con il 42,5% dei suo giovani in queste condizioni di limbo. 

Uno dei punti di contatto fra queste due decrescite, quella economica e quella razionale, è evidentemente la nostra istruzione. E anche su questo il rapporto Censis ha molto da dirci. “Quasi un terzo degli occupati possiede al massimo la licenza media. Sono 6,5 milioni nella classe di età 15-64 anni, di cui 500.000 non hanno titoli di studio o al massimo hanno conseguito la licenza elementare”. Nel nostro paese opera “un’occupazione povera di capitale umano” e si genera “una disoccupazione che coinvolge anche un numero rilevante di laureati e offerte di lavoro non orientate a inserire persone con livelli di istruzione elevati indeboliscono la motivazione a fare investimenti nel capitale umano”.

Ed ecco la conseguenza: “L’83,8% degli italiani ritiene che l’impegno e i risultati conseguiti negli studi non mettono più al riparo i giovani dal rischio di dover restare disoccupati a lungo. L’80,8% degli italiani (soprattutto i giovani: l’87,4%) non riconoscono una correlazione diretta tra l’impegno nella formazione e la garanzia di avere un lavoro stabile e adeguatamente remunerato”.  Meglio ancora: ” Il 35,5% è convinto che non conviene impegnarsi per laurearsi, conseguire master e specializzazioni, per poi ritrovarsi invariabilmente con guadagni minimi e rari attestati di riconoscimento”. Il rendimento sociale decrescente, quindi, genera il disinvestimento, o, in chi può, il desiderio di fuga. Il risultato è analogo: la “dissipazione delle competenze”. E quindi una ulteriore svalutazione della razionalità a vantaggio di altri strumenti che sembrano più efficaci a garantire il benessere economico.

Le cifre sulla quantità degli istruiti nel nostro paese nulla ci dicono, purtroppo, circa la loro qualità. E qui il discorso rischia di essere ancora più dolente. Già in un libro del 1979, “La cultura del narcisismo“, il sociologo americano Christopher Lasch metteva in guardia sulla crisi dell’istruzione e sulla quota crescente di analfabeti “istruiti” negli Stati Uniti, quelli che oggi chiamiamo analfabeti funzionali. Chi si stupirebbe oggi nello scoprire che una quota delle irrazionalità che agitano oggi il nostro paese abbia trovato ospitalità anche fra le persone più istruite? Basta scorrere a volo d’uccello le cronache della pandemia per far sorgere il sospetto.

Dulcis in fundo, tutte queste tendenze danno corpo – in senso numerico – all’altra decrescita che le sussume tutte: quella demografica.  Ossia l’altro l’alto della nostra senescenza incipiente. “Tra il 2015 e il 2020 si è verificata una contrazione del 16,8% delle nascite. Nel 2020 il numero di nati ogni 1.000 abitanti è sceso per la prima volta sotto la soglia dei 7 (6,8), il valore più basso di tutti i Paesi dell’Unione europea (media Ue: 9,1). La popolazione complessiva diminuisce anno dopo anno: 906.146 persone in meno tra il 2015 e il 2020. Secondo gli scenari di previsione, la popolazione attiva (15-64 anni), pari oggi al 63,8% del totale, scenderà al 60,9% nel 2030 e al 54,1% nel 2050”, questi i dati censiti dall’istituto.

L’aumento della popolazione anziana implica che il passato pesa più del presente nella nostra visione del mondo, come puntualmente il Censis certifica. “Per due terzi (il 66,2%) nel nostro Paese si viveva meglio in passato: è il segno di una corsa percepita verso il basso”. L’età della nostalgia, come l’ha chiamata qualcuno. O dello “si stava meglio quando si stava peggio”. Perché l’anziano ricorda con gioia il tempo della sua giovinezza, casualmente coincidente, nel nostro dopoguerra, con quello della grandi opportunità, mentre il giovane finisce col vivere dei ricordi altrui, perché non riesce a farsene di propri. “La grande maggioranza delle famiglie che stavano pensando di avere un figlio ha deciso di rinviare (55,3%) o di rinunciare definitivamente al progetto genitoriale (11,1%)”, conclude. Quindi molti giovani rinunciano al futuro. E così facendo si condannano a diventare sempre più una minoranza. L’epilogo perfetto per un paese in decrescita.

Cronicario. Un Mes in tre mesi: il risparmio forzoso del coronacoso

Proverbio del 9 luglio La canna secca non vuole la compagnia del fuoco

Numero del giorno: 28.000.000 Italiani che non perso reddito durante lockdown

Dicono, i soliti cervelloni, che, a furia di stare chiusi in casa, questa maledetta primavera abbiamo messo da parte quasi 35 miliardi di euro, che diabolicamente vengono assimilati all’entità dei prestiti MES. D’altronde, dopo il coronacoso, cosa ci rimane per chiudere in bellezza un anno bisestile?

Certo che ce lo chiedono gentilmente. Anzi all’inizio vi strapagano pure, coi vari BTP patriottici. E molti già son convinti. Quasi il 50 dei superliquidi, che non solo hanno messo da parte un MES in tre Mesi, ma avevano già cumulato oltre 120 miliardi di spiccioli negli ultimi tre anni. “Più del piano Marshall”, dicono sempre i cervelloni, così chi ha buone orecchie intenda.

Non avete capito? Traduco: ciabbiamo già li sordi. E in particolare quel 71 e rotti per cento di lavoratori dipendenti che non hanno perso neanche un euro di stipendio durante il lockdown. E stendiamo un velo danaroso su pensionati, redditieri e percettori di rendite varie. Se l’Europa non ci casca, a darci li sordi, potremo finalmente fare da soli, come dice il Primo Minestra.

Poi però meglio che scappa lui.

A domani.

Cronicario: Toccatemi i Bot, la casa, ma non l’uomo forte

Proverbio del 6 dicembre Il gallo eloquente canta quando esce l’uovo

Numero del giorno: 0,2 Calo % vendite al dettaglio in Italia a ottobre

Oggi che il Censis ci dice come siamo fatti…

scopro con orrore e raccapriccio che siamo persino cambiati. Pensavate ancora che siamo quelli del partito del bot e del mattone vero?

E invece no: siamo cresciuti. Più del 60% non vuole più saperne dei Bot. Probabilmente preferisce tenerseli in banca, i soldi, dove vengono liquefatti dall’inflazione. Ma vabbé. E’ soprattutto il mattone la sorpresa. Dopo la crisi economica, scrive il Censis, gli italiani hanno dovuto rinunciare “a due pilastri storici della sicurezza familiare”, i Bot e la casa, “di fronte a un mercato immobiliare senza più le garanzie di rivalutazione di una volta e a titoli di Stato dai rendimenti infinitesimali”.

E allora cosa resta di noi. Dove aggrapparci per ritrovare il nostro centro di gravità permanente?

Il Censis parla di “furore di vivere degli italiani”, oppure di “piastre di ancoraggio e muretti di sostegno”.

Ma gratta gratta, ritrovi i classici. L’unica cosa che non tradisce mai. Sentite il Censis: lo stato d’animo dominante tra il 65% degli italiani è l’incertezza. E come si fa a superare l’incertezza? “Per il 48% degli italiani ci vorrebbe un uomo forte al potere che non debba preoccuparsi di Parlamento ed elezioni”.

#Statesereni.

Buon week end.

 

Cronicario: Lavorare molto, lavorare pochi (e finalmente)

Proverbio del 30 gennaio In una lite hanno tutti torto

Numero del giorno: 770.000.000 Offerta in dollari del Nasdaq per la borsa di Oslo

E insomma: la fiducia delle imprese cala, e vorrei vedere. Fa sempre più freddo là fuori e se n’è accorto anche il governo tedesco che ha abbassato all’1% le stime del pil 2019. Figuratevi come stanno i nostri, che esportano un sacco di roba in Germania.

Epperò, ecco che tuttuduntratto la fiducia delle famiglie aumenta. E ci credo. Saremo pure disoccupati, ma almeno abbiamo smesso di essere inattivi, abbiamo un navigator e percepiamo pure un reddito tramite una supercard non riconoscibile. In più c’è quota 100, quindi se ho la fortuna di essere anziano ma non troppo, posso pure espatriare in Portogallo a spese dell’Inps e frego pure il Fisco. Considerando l’età media della popolazione al lavoro, non è proprio un pensiero fuori dal comune.

Stando così le cose, c’è da aver fiducia eccome. Non va così male, dai. Anche perché si sta compiendo finalmente una rivoluzione culturale. Al posto dell’ormai stantio, nonché inattuato, “lavorare meno, lavorare tutti”, si sta affermando gagliardamente la nuova parola d’ordine dell’Italia sovranEsta: Lavorare molto, lavorare in pochi.

Se vi sfugge la finezza di questa massima, è perché siete all’antica: dovete leggere più blog!!. Vi sarà arrivata su Uazzapp la notizia che per colpa dei robot il lavoro sarà sempre meno (fai girare), e sicuramente avrete letto un titolo di Facebuk che spiega la necessità di forme di reddito compensative per evitare la rivoluzione (condividi). Addirittura avrete sentito qualche esagerato (cit. governo) dire che senza reddito è a rischio la tenuta sociale (cuoricino, pollicione, share). Ecco spiegato il ritorno della fiducia e soprattutto il mistero delle ultime rilevazioni Censis, secondo le quali negli ultimi dieci anni (2007-2017) il numero di occupati nel Paese è diminuito dello 0,3%, è invece aumentato in Germania (+8,2%), Uk (+7,6%), Francia (+4,1%) e nella media dell’Unione (+2,5%).

A fronte di questo capolavoro avanguardista abbiamo che quei sempre meno che lavorano, lavorano sempre di più (donde la massima). Addirittura il 50,6% dei lavoratori afferma che negli ultimi anni “si lavora di più, con orari più lunghi e con maggiore intensità”. In 2,1 milioni svolgono turni di notte, 4 milioni lavorano di domenica e festivi, 4,1 milioni lavorano da casa oltre l’orario di lavoro con e-mail e altri strumenti digitali, magari dopo aver speso mille euro di smartphone, 4,8 milioni lavorano oltre l’orario senza pagamento degli straordinari. E con effetti “patologici rilevanti”.

Il Censis nota che gli occupati giovani si sono dimezzati, rispetto a vent’anni fa, dimenticando che nel frattempo sono invecchiati e non sono stati praticamente sostituiti, visto che nessuno ha voglia di far figli e il governo pensa solo ai pensionandi. Ma soprattutto sfugge all’illustre istituto il significato profondo della rivoluzione in corso, che viene definito un “paradosso italiano”. Non c’è nessun paradosso: è giusto che lavorino di più quelli che lavorano, visto che gli piace. Sono degli eroi, dovremo dedicargli monumenti. Per tutto il resto c’è Supercard.

A domani.

I futuri pensionati si preoccupano, ma non abbastanza

Chi dice che sulla questione previdenziale nel nostro Paese ci sia una diffusa incosapevolezza è male informato. Una recente indagine del Censis, commissionata dalla Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dimostra tutto il contrario.

I lavoratori italiani non si aspettano granché dal proprio futuro pensionistico. Sanno già che la loro pensione sarà bassa e che non potranno lasciare il lavoro se non in età avanzata. Quello che stupisce, leggendo i dati della rilevazione, è che sembrano rassegnati al loro futuro di sostanziale povertà. Tutt’al più sperano di cavarsela.

L’indagine campionaria è stata fatta ascoltando 2.400 lavoratori, equamente suddivisi fra il settore pubblico, privato e autonomo. Il 45,8% è convinto la la sua sarà una vecchiaia di ristrettezze, e solo l’8,2% è covinto che potrà godersi un po’ di serenità grazie ai redditi previdenziali. Il 24,5% si accontenterà di “togliersi qualche sfizio”.

Vediamo perché. La soglia media di pensione che il campione di aspetta di ricevere sarà pari al 55% dell’ultimo stipendio. Questo, mentre si aspetta di lavorare oltre i 70 anni il 14,5% dei dipendenti pubblici, a fronte del 23,4% dei privati e del 33,8% degli autonomi. Il Censis calcola che solo il 23,5% dei lavoratori andrà in pensione all’età desiderata. Quindi più vecchi e più poveri. Con l’aggravante che l’84% è convinto che le regole cambieranno ancora in futuro, presumibilmente in peggio.

In più, il 34,1% teme sopra ogni altra cosa di perdere il lavoro e di non riuscire quindi a maturare la contribuzione per prendere la pensione, sebbene bassa e in tarda età. Percentuale alla quale bisognerebbe aggiungere quel 24,9% che, a causa della precarietà, è seriamente a rischio di contribuzione. Per costoro, in caso non riescano a raggiungere la quota contributiva prevista per andare in pensione, rimarrà solo la pensione di vecchiaia, l’attuale pensione sociale. Ovviamente tale paura si concentra nella fascia più giovane del campione, i soggetti fino a 34 anni.

Interessante anche leggere come tali soggetti pensano di affrontare una vecchiaia siffatta. I dipendenti pubblici pensano di salvarsi grazie ai propri risparmi (45,4%) e al proprio patrimonio immobiliare (17,3%); per i privati tali percentuali passano rispettivamente al 38,1% e al 18%; per gli autonomi al 41,5% e al 21,4%.

In totale (e in media) il 58,6% del campione riserva alla propria ricchezza privata (risparmi+mattone) il compito di difendersi dalla miseria senile, a fronte di un 16,5% che si affida ai fondi pensione. Il che fa sorridere: in un paese dove il Censis e la Covip stimano 11 milioni di analfabeti finanziari, viene fuori che il 58,6% dei lavoratori conta di cavarsela in vecchiaia investendo in finanza o nel mattone. Ma fa anche riflettere: questi lavoratori contano di riuscire a poter contare su una quota significativa di risparmi e di patrimonio, malgrado i redditi reali medi non crescano da anni.

Ma questa forse è solo un’eredità culturale, più che un calcolo economico razionale. Per 50 anni il popolo italiano ha imparato che si andava in pensione con l’80-100% dell’ultimo stipendio e con una liquidazione, con la quale comprava titoli di stato al 10-15% (ignorando la tassa dell’inflazione) o si comprava una casa. Questi redditi integrativi assicuravano un livello di vita, anche perché si andava in pensione giovani, spesso superiore a quello di fine carriera.

Speriamo che non servano altri 50 anni per capire che non è più così.