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Viaggio in Italia: 2014, odissea nello strazio (bancario)

Visitare le banche è una tappa obbligata del nostro viaggio in Italia. Piaccia o no, gli istituti italiani per anni sono stati il nostro fiore all’occhiello, gonfie come sono degli asset dei poveri ( e ricchi) italiani.

Per anni tale supremazia si è esercitata nel prestigio conferito a chi queste banche le gestiva e nell’ammirata occupazione silenziosa delle migliori location disponibili nei centri storici delle nostre belle città.

Si poteva esserne certi: dovunque fosse disponibile un bel palazzetto, prima o poi sarebbe arrivata una banca ad accaparrarselo, per la gioia dei proprietari: chi non affitterebbe o venderebbe a una banca il frutto d’una qualsiasi eredità?

E quando poi, nel terribile 2008, tutti i sinistri scricchiolii delle banche europee furono unti con denaro pubblico, anche stavolta le banche italiane fecero eccezione. A parte qualche mancetta elargita dai Tremonti bond, le banche italiane ressero l’urto.

Senonché, nessuno poteva prevedere che la crisi, iniziata ormai sei anni fa, durasse così tanto. Piano piano, ci avrete fatto caso, le banche hanno iniziato a sgomberare i loro begli attici centrali e stanno ripiegando, nessuno sa bene dove.  Il destino delle banche italiane si è fatto incerto e nebuloso, e i banchieri, una volta venerati, messi all’indice e dileggiati. Nessuno sa davvero come finirà.

Quello che sappiamo, perché ce lo ricorda la commissione europea, è che “la crisi ha eroso la resilienza iniziale del settore bancario italiano e ha condotto a una maggiore dipendenza dall’Eurosistema”. Ossia dalla Bce. L’ennesimo risultato dell’eterogenesi dei fini delle manovre dei banchieri centrali europei.

Già. Perché dal 2011 in poi le banche italiane hanno iniziato a perdere la fiducia del mercato dei capitali. E per fortuna (o purtroppo) è intervenuta la Banca centrale con i suoi LTROs.

Le banche italiane, disperatamente assetate, si sono abbeverate senza pudori ai rubinetti di Francoforte. Ancora oggi, o meglio a gennaio di quest’anno, le banche italiane tenevano in pancia 224 miliardi di debiti con l’Eurosistema, il 21% in meno rispetto al luglio 2012, che pesano più o meno un terzo dell’intera somma messa in circolazione da Francoforte.

Man mano che la fiducia degli investitori tornava (e crescevano i depositi dei residenti) le banche hanno pure iniziato a piazzare bond sul mercato, 18 miliardi nel 2012, diventati 27 nei primi dieci mesi del 2013, grazie anche al calo degli spread, ma i rimborsi sono rimasti superiori alle emissioni lorde. E soprattutto la fiducia ha cominciato a scarseggiare sul versante della concessione dei prestiti da parte delle banche italiane alla loro economia. Cioé a noi tutti.

“Diversi anni di recessione hanno messo dura prova i bilanci delle banche italiane e la loro capacità di sostenere la ripresa del economia domestica”, scrive la Commissione. E questo ha condotto a un avvitamento, per cui i debitori della banche si sono visti ridurre i fondi proprio quando ne avevano più bisogno, col risultato che il credit crunch ha fatto esplodere sofferenze e incagli.

I Non performing loans (NPLs), che erano il 5,1% alla fine del 2008 sono arrivati al 16% a settembre 2013, mentre i crediti in sofferenza, per lo più concessi ad aziende operanti nel real estate, sono arrivati a 156 miliardi. In percentuale, tali sofferenze sono cresciute dal 3,6 al 12,6% fra il 2008 e il 2013.

Di fronte a questo sconquasso, la Banca d’Italia ha proceduto a una sua asset quality review fra il 2012 e il 2013, mentre il governo ha approvato, con la legge di stabilità, una norma che consentiva una più ampia deducibilità delle perdite su crediti.

Insomma, la questione bancaria è diventata la grande questione nazionale. Tanto da rendere necessaria anche un’operazione ardita come quella sul capitale di Bankitalia che così tanto ha fatto discutere. D’altronde molto presto all’asset quality review di Bankitalia andrà a sovrapporsi quella condotta dalla Bce che rischia di essere assai più minacciosa di quella italiana, atteso che, come è stato più volte annunciato, verranno “stressati” anche i bond sovrani di cui le banche italiane sono imbottite.

E questo è un altro punto dolente. A fronte di un rallentamento industriale che non accenna a diminuire – il RoE delle banche italiane del primo semestre 2013 è stato dell1,2% a fronte dell1,9 del primo semstre 2012 – e di una frammentazione finanziaria nell’eurozona mitigata ma ancora corposa, i requisiti delle nuove pratiche europee di vigilanza rischiano di stringere ulteriormente la cinghia del credito italiano. Anche le banche italiane infatti, sono assai frammentate.

Da un punto di vista patrimoniale, infatti, le prime cinque banche, che poi sono quelle che finiranno nel mirino della vigilanza Bce, hanno rafforzato i loro requisiti patrimoniali. Mentre lo stesso non può dirsi per le banche che vanno dal 6 al 15 posto della classifica stilata dalla Banca d’Italia, che tuttavia ha concluso i suoi stress test affermando che il sistema bancario italiano, nel suo complesso, è sufficientemente capitalizzato e capace di affrontare anche scenari di stress.

Ma “nel suo complesso” non vuol dire che non possano verificarsi singoli disordini. Anche perché la situazione patrimoniale ottimale delle prime cinque banche deve fare i conti con la questione dell’esposizione sovrana.

Un’altra conseguenza della crisi, a parte l’esplosione dei NPLs, è stato il raddoppio degli acquisti di bond pubblici italiani, finanziato peraltro con i soldi della Bce. Fra gennaio 2010 e novembre 2013 lo stock di debito pubblico in pancia alle banche è cresciuto da 211 miliardi a 416, quindi dal 5,4 al 10,2 del totale degli asset bancari italiani, uno dei più alto dell’eurozona. Il carry trade delle banche italiane ha, in alcuni casi, supportato la profittabilità delle banche. Ma c’è il rischio, chiaro a tutti, di renderle dipendenti dai soldi della Bce, finendo col trasformarle in banche zombie.

Se poi, come si dice si finirà col prezzare il rischio dei titoli di stato, le banche che hanno fatto di questa pratica una delle voci più rilevante di propri bilanci finiranno in notevoli difficoltà. Se dovranno accantonare capitale, dovranno pure trovarlo.

Insomma, il 2014 potrebbe essere un’odissea per le banche italiane, ed è possibile che si scateni la solita ondata di fusioni e acquisizioni. Anche perché, scrive la commissione, “il settore bancario italiano è ancora caraterizzato da un numero di debolezze strutturali”. E “la persistente ma opaca influenza delle fondazioni può alla lunga non essere ottimale”.

Vale la pena concludere con un altro gruppo di dati che spiegano bene perché i nostri cugini europei abbiano così tanto a cuore il destino delle nostre banche. La parolina magica, in questo caso, è: esposizione estera. La nostra NIIP mostra che la Francia ha asset in Italia per circa il 19% del suo Pil, mentre Germania, Lusseburgo e Olanda cumulano il 7% del loro Pil complessivo. “Questo implica che perdite su asset italiani – spiega la Commissione – colpirebbe innanzitutto la Francia e poi gi altri partner”. Fra questi asset c’è anche il nostro debito pubblico, che all’estero quotava 711 miliardi nell’agosto 2013.

Se dagli asset in generale passiamo all’esposizione bancaria, scopriamo che le banche italiane hanno debiti nei confronti di quelle francesi per 250 miliardi, circa il 13% del Pil francese. Banche olandesi, austriache e tedesche sono esposte verso il nostro settore bancario (cioé le nostre banche hanno debiti verso le loro) per una quota oscillante fra il 3 e il 4% dei rispettivi Pil, mentre Giappone e Usa si guardano bene dal prestare soldi alle banche italiane. Il peso relativo dei debiti delle nostre banche nei confronti di quelle americane e giapponesi è nell’ordine di pochi decimali di Pil.

Interessante, tuttavia, anche vedere il dato inverso, ossia l’esposizione delle nostre banche verso i paesi esteri. Qui scopriamo una curiosa non reciprocità: le banche italiane, infatti, avevano crediti nei confronti del settore bancario tedesco per l’11,8% del Pil, mentre nei confronti dei nostri cugini francesi non si va oltre il 2,3%.

Cosa ci dicono questa statistiche? Che ai nostri partner la salute del nostro sistema bancario sta molto a cuore. E che, ne possiamo star certi, guardano all’evoluzione dei nostri istituti di credito con molta attenzione.

I link fra noi e loro raccontano già di un’integrazione a venire che però non sarà facile né semplice ed è probabile possa concludersi con l’espugnazione delle nostre piazzeforti finanziarie.

Odissea nello strazio.

(2/segue)

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Bruxelles e Francoforte accerchiano Berlino

Così anche a Bruxelles si sono accorti (meglio tardi che mai) che la Germania vive diversi squilibri macroeconomici.

A modo suo, certo.

Per il momento la Commissione si è limitata a fornire alcuni dati, a cominciare dal surplus di conto corrente che ormai veleggia intorno al 7% del Pil, e a decidere che bisognerà dedicare a Berlino un’analisi approfondita della situazione tedesca per arrivare a determinare se effettivamente la circostanza che la Germania sfori alcuni indicatori da anni sia la prova che il paese è squilibrato.

E’ questo il senso dell’Alert mechanism report rilasciato di recente dalla Commissione, che altro non è che l’avvio di un nuovo ciclo di macronomic imbalance procedure (Mip),ossia di altre analisi il cui scopo è quello di identificare squilibri capaci di creare problemi all’economia europea e all’unione monetaria.

A tal fine vengono redatte le In depth review (Idr), al cui termine si decide se tali eventuali squilibri necessitino di un’azione correttiva oppure no.

Per il momento, perciò, l’ingresso della Germania (anche dell’Italia, ma questa è una non notizia) nell’Amr e quindi il fatto che meriti un’Idr, equivale a una sostanziale messa in mora, i cui esiti si conosceranno soltanto nella primavera dell’anno prossimo, quando i risultati saranno resi noti, e andranno a fornire il materiale per il prossimo semestre europeo di coordinamento della politiche economiche. Ossia la sede dove eventuali decisioni verranno prese.

Tutto questo serve a capire quanto sia cervellotica la buropolitica di Bruxelles.

Degna di nota la circostanza che la Germania finisca all’indice della Commissione europee poche settimane dopo (ma sarà di sicuro un caso) il rapporto del Tesoro americano che ha accusato Berlino di essere una fonte di squilibri globali, a causa dei suoi attivi commerciali.

A quest’attacco “politico” arrivato di qua e al di là dell’Atlantico, Berlino ha risposto con un rapporto redatto da cinque saggi dell’economia (tutti tedeschi) secondo il quale non è vero che i surplus tedeschi siano un problema.

Questo è il succo, anche se all’interno dei saggi le opinioni sono assai più sfumate.

Il problema è che all’attacco “politico” se ne è aggiunto un altro assai più silente ma altrettanto insidioso: quello condotto dalla Bce lato Unione bancaria.

Le cronache raccontano dell’orientamento che starebbe sorgendo all’interno del futuro governo tedesco per evitare che il meccanismo di risoluzione bancario (SRM), secondo pilastro dell’Unione bancaria, venga costituito a livello sovranazionale, come è stato per il meccanismo di sorveglianza (SSM) che è stato affidato proprio alla Bce.

I tedeschi, secondo quanto dicono i bene informati, vorrebbero che il Risolutore fosse composto da autorità nazionali: sul modello dell’EBA, quindi.

Al contrario nella proposta formulata dalla Commissione, si propone un’entità sovranazionale alla quale far partecipare anche i rappresentanti degli stati e in qualche modo la Bce.

I banchieri centrali, dal canto loro, hanno più volte fatto capire di essere d’accordo con questa impostazione, visto che solo un risolutore assolutamente indipendente e credibile sarebbe capace di restituire fiducia alle banche europee conducendo a un risultato giudicato assolutamente irrinunciabile: il taglio del nodo che tutta esiste (e che la crisi ha rinforzato) fra il debito sovrano e le banche residenti.

Al di là dei tecnicismi, che comunque appassionano solo pochi, quello che conta è che la Germania stia subendo un vero e proprio accerchiamento, sia sul lato della propria politica economica che su quello bancario, che mira chiaramente a edulcorare il suo peso politico e, di conseguenza si traduce in un indebolimento della sua sovranità nazionale.

Ed è esattamente questo il punto.

Il processo di Grande convergenza, che viene proposto come unica soluzione ai vari trilemmi che affliggono l’eurozona, non poteva che concludersi mirando al bersaglio grosso: la Germania. Ossia l’unico stato nazionale che la crisi ha paradossalmente rinforzato (lo vedremo in un altro post) e che perciò rischia di essere un ostacolo invalicabile lungo il gagliardo percorso di crescita dell’Unione Europea.

Percorso che si nutre della crisi degli stati nazionali, come è noto. Ovvero della loro incapacità a fornire risposte alle sfide della globalizzazione.

Solo che, mentre era facile applicare la teoria degli effetti benefici della crisi ai poveri PIIGS, incapaci di difendersi a causa dei propri debiti, assai più difficile prendersela con i pezzi grossi che hanno anche la ventura di essere i creditori.

Sempre la Germania.

Il Grande Creditore diventa improvvisamente un pericolo. E le sue banche un fattore di instabilità da tenere sotto controllo.

Vedremo come reagirà Berlino all’accerchiamento.

Certo non basteranno cinque saggi.

Di buono c’è che lo capiremo presto, visto che tutti questi processi andranno in cottura entro il 2014.

Intanto vale la pena sottolineare il paradosso per il quale tutti coloro che hanno coltivato sentimenti di inimicia nei confronti della Germania oggi dovrebbero augurarsi che riesca a resistere all’attacco (travestito di innocui rilievi tecnici) concentrico di Ue e Bce, se hanno a cuore la sovranità degli stati europei.

La “caduta” della Germania, infatti, segnerebbe il definitivo tramonto della sovranità nazionale e il trionfo delle entità sovranazionali.

Il dilemma di Thomas Mann fra una Germania europea e un’Europa tedesca verrebbe finalmente sciolto  a favore dell’Unione Europea tout court. E certo non è un caso che lo scrittore tedesco lo abbia formulato nel lontano 1953, due anni dopo la nascita della CECA.

La Germania, tutt’al più, sarebbe un’azionista di riferimento dell’Ue.

In ogni caso, un passaggio storico.

Meditate gente, meditate.

Tramonto finlandese

Pure i ricchi finlandesi piangono. Questo mal comune, che di sicuro consolerà gli amanti del mezzo gaudio, dovrebbe preoccupare al contempo non poco chi ha  cuore la stabilità economica. Perché quando un paese che, come ha ricordato di recente Seppo Honkapohja, componente della banca centrale finlandese, “è il solo dell’area euro con un rating sovrano a tripla A e un outolook stabile” suscita preoccupazioni, vuol dire che i rischi ai quali è sottoposta l’economia globale son ben lungi dall’essere superati.

Anche un piccolo paese come la Finlandia, può generare un rischio sistemico.

D’altronde non è una novità. La Commissione europea, nel maggio scorso, ha pubblicato la sua ultima In depth review (IDR) dedicata al piccolo paese nordico che, scrive “sta sperimentando squilibri macroeconomici che meritano di essere monitorati e richiedono azioni politiche”.

Quello che preoccupa, in particolare, è il “sostanziale deterioramento della posizione del conto corrente e la debole performace dell’export, provocata dalla ristrutturazione industriale e dalla perdita di competitività”. Tale situazione “indebolisce la posizione economica del paese compromettendone la futura prosperità, anche a causa dell’invecchiamento della popolazione”.

La perdità di competitività è stata provocata, fra le altre cose, “dal significativo aumento del costo unitario del lavoro”, mentre, sul versante finanziario, la Commissione registra un preoccupante crescita dell’indebitamento, in particolare quello privato e quello estero.

Qualche numero aiuterà a capire.

Il saldo di conto corrente finlandese, che nel periodo 1992-2008 ha registrato un surplus medio del 4,2% del Pil, con un picco dell’8% nel 2008, dal 2009 in poi ha cominciato a calare trasformandosi in un deficit dell’1,3% nel 2011. Tale deficit si è allargato l’anno successivo all1,6%, ed è previsto in crescita fino all’1,8% nel 2014.

La crisi ha colpito il driver principale del Pil, ossia l’export che pesa circa il 40% sul prodotto del paese, che è peggiorato anche a causa della perdità di competività.

Nell’ultimo decennio, nota la Commissione, la Finlandia ha perso il 23% della sua quota mondiale di export. Ha pesato anche la ristrutturazione del settore industriale. La crisi della Nokia, intanto, ma anche dell’industria della carta, che sta delocalizzandosi in Asia e America Latina.

Come se non bastasse il paese soffre di una notevole dipendenza dalle importazioni di energia, che pesa circa il 20% dell’import.

A ciò si aggiunge l’aumento del livello di indebitamento. Il settore privato, escludendo quello finanziario, ha accumulato debiti fino al 179% del Pil, due terzi dei quali sono in pancia alle imprese. Al contrario il debito pubblico è previsto rimanga sotto la soglia del 60% fino al 2014 (a fronte della media del 46% fra il 1992 e il 2008), anche in virtù di un deficit contenuto. Va detto, tuttavia, che la Finlandia aveva un surplus di bilancio pubblico del 4,4% nel 2008, che è diventato un deficit del 2,5% nel 2010. Il consolidamento fiscale deciso dal governo lo ha ridotto allo 0,6%, ma la Commisione lo prevede nuovamente in crescita, anche se rimarrà sempre al di sotto del 3%.

Ma è l’unica nota positiva di uno spartito stonato.

Il debito delle famiglie, infatti, è un’altra fonte di preoccupazione. Anche se più basso di altri paesi nordici, negli ultimi anni è passato dal 65% del reddito al 118%.

Ma soprattutto è degno di nota che la crescita anno su anno dei debiti non consolidati del settore finanziario, nel 2011, abbia raggiunto il record del 30,8%.

Tale boom si deve per lo più ai movimenti di mercato del portafoglio dei derivati della Nordea bank, ossia la principale banca finlandese (che poi è una succursale di una banca svedese), conseguenza diretta dell’essere la Finlandia un “paradiso sicuro” per gli investitori.

E questo ci riporta al deficit di bilancia dei pagamenti, paradossalmente aggravato proprio dalla tripla A che attira capitali tramite investimenti di portafoglio e quindi, indirettamente, aumenta il debito estero, che era vicino a zero nel 2008 e adesso pesa circa l’1% del Pil.

Sembra poca cosa, ma considerate che nei primi anni del XX secolo la Finlandia era un prestatore netto e aveva crediti (dato 2003) superiori all’8% del Pil.

Tutto ciò si ripercuote sulla posizione degli investimenti esteri (NIIP). Le vicissitudini della Nokia pesano non poco sul flusso degli investimenti di portafoglio, che sono il driver principale dell’andamento della NIIP. “Il 75% delle azioni Nokia sono in mano agli stranieri  – scrive la Commissione – e dato il valore della capitalizzazione ciò ha un effetto rilevante sulla NIIP”. Per la cronaca, la Nokia valeva oltre 100 miliardi in borsa, nel 2007 (a fronte di un Pil di circa 189 miliardi nel 2011, a prezzi correnti), per poi crollare intorno ai 15 miliardi nei tempi recenti. Il calo di questa capitalizzazione ha avuto un effetto positivo sulla NIIP che è diventata leggermente positiva malgrado l’aumento dei investimenti di portafogli esteri in Finlandia e quelle degli investimenti diretti all’estero delle imprese residenti.

Conclusione: “Al momento – scrive la commissione – il deficit di conto corrente è contenuto e la sostenibilità esterna è ancora forte, ma si sta indebolendo: anziché accumulare riserve se le sta mangiando”. Il contrario di quello che dovrebbe fare un paese con una popolazione che invecchia.

Nota a parte merita l’analisi del settore bancario, che nel 2012 ha accumulato asset per il 308% del Pil.

Le banche hanno reagito bene alla crisi scoppiata nel 2009, quando il Pil crollò dell’8,5%. Non hanno avuto bisogno di supporto statale e hanno avuto l’accortezza di esporsi solo limitatamente ai PIIGS. A oggi le banche hanno una buona profittabilità, con un return on equity (ROE) di circa il 10% e  una buona capitalizzazione.

E tuttavia tanta salute nasconde i germi di una nascente fragilità.

L’esplosione di indebitamente registrato nel 2011 (+30,8% sul 2010) “merita un esame attento”, secondo la Commissione, anche perché insieme agli asset sono praticamente raddoppiati anche i debiti del sistema bancario dalla fine degli anni ’90 in poi.

Poi c’è la questione del mercato immobiliare. I prezzi reali sono aumentati del 92% dal ’97 al 2007, meno di altri paesi. Ciò non esclude che “il mercato immobiliare possa rappresentare un rischio per l’economia finnica, anche perché certe caratteristiche del mercato tendono ad amplificare la volatilità”.  E questo, stante l’alto livello d’indebitamento delle famiglie, ha un effetto indiretto sullastabilità del sistema finanziario, vista la quantità di mutui che le banche hanno in portafoglio.

Un’altra fragilità sta nel fatto che “il settore bancario finlandese è altamente concentrato, con Nordea Bank Finlandia che possiede due terzi del totale degli asset”, un caso eccezionale in Europa. La Nordea finlandese, che è una sussidiaria della Nordea svedese, pesa per circa la metà del totale della crescita dei debiti nel settore finanziario e la crescita dei suo portafoglio di derivati, arrivato a valre 166 miliardi a fine 2011,  pesa circa un terzo del totale della crescita dei debiti del settore finanziario finnico. Una fonte di rischi, spiega la Commissione, peraltro concentrata in una banca che è più che sistemica, nella finanza finnica.

Ancora. Sempre lo stato di “paradiso sicuro” della Finlandia ha attirato parecchio depositi dall’estero, che nel 2011 sono cresciuti di 67 miliardi, arrivando per lo più da altri paesi dell’area del Nord che hanno depositato in Finlandia, unico paese “vichingo” aderente all’euro, le loro eccedenze denominate nella valuta unica.

Il totale di queste fragilità nascenti fa concludere alla Commissione che sia necessario “un attento monitoraggio” per i notevoli rischi di contagio e, soprattutto, sui rischi derivanti da improvvisi richiami di capitali dall’estero.

Un deflusso di capitali esteri sarebbe fortemente destabilizzante per la banche.

Cosa ci dicono questi numeri?

Che la Finlandia sta ancora godendo dei suoi frutti della sua lunga estate economica, ma il sole tramonta e l’inverno ormai è alle porte.

Il terribile inverno del Nord.

Il paese sta consumando le sue riserve e aumentando i suoi debiti, mentre la popolazione invecchia e perde quote di mercato estero, ossia la fonte primaria del suo benessere. Segno evidente che i i tassi di crescita medi del 3% registrati fra il 1992 e il 2008 sono ormai un bel ricordo.

Il bilancio pubblico dovrà farsi carico di tutto ciò, in un modo o in un altro, come ricorda bene anche mister Honkapohja nel suo intervento dell’ottobre scorso, secondo il quale “l’economia finlandese soffrirà più altre economie europee gli effetti dell’invecchiamento della popolazione”, che poi significa welfare, quindi pensioni e sanità. E dovrà fare i conti anche con profonde riforme struttruali, innanzitutto del mercato del lavoro, per contenere la perdità di competitività e l’andamento demografico.

“Dobbiamo evitare che siano le pressioni del mercato a forzare il governo a prendere le decisioni necessarie”, ha esortato il nostro banchiere centrale.

Devono evitare, insomma, che accada a loro quello che accade in Italia da vent’anni e nel resto dell’europa del Sud da cinque.

Auguri.

 

Se il calo dei salari non porta al riequilibrio

Ci hanno detto, e continuano a dirci, che uno dei fattori che determinerà il riequilibrio della squilibrata eurozona è la competitività. I paesi fragili devono mettere ordine, tramite riforme strutturali, nei loro mercati del lavoro per spingere l’export e quindi riequilibrare i propri conti con l’estero, a cominciare da quelli dei paesi forti dell’area euro.

Di conseguenza ci dicono che dobbiamo accettare, noi paesi fragili, una sostanziale correzione del nostro costo del lavoro.

E in effetti, a guardare i dati, viene fuori che questa convergenza salariale verso il basso piano piano si sta verificando.

Senonché la correzione degli squilibri esteri va al rallentatore, mentre è ormai riconosciuta la diminuizione della labor share nella distribuzione della ricchezza nazionale a favore dei profitti.

Stando così le cose capirete perché ho letto con estremo interesse uno studio redatto di recente dalla commissione Ue che si intitola “Labour costs pass-through, profits and rebalancing in vulnerable Member States” che ha il merito di analizzare la questione da un punto di vista micro emacro economico.

Mi armo di pazienza e comincio a leggerlo.

Scopro che “i recenti aggiustamenti dei saldi di conto correnti degli stati membri vulnerabili (Cipro, Grecia, Spagna, Irlanda, Portogallo, Slovenia e ogni tanto Italia) mostrano che il rebalacing è in atto. Il conto corrente aggregato di questi paesi, considerati come un insieme, ha raggiunto il surplus nel 2012”.

Senonché, l’aggiustamento, finora, “è risultato da un mix fra importazioni più basse ed esportazioni più alte”. E tuttavia la Commissione rileva che solo in parte il calo dei salari si è trasferito sul livello dei prezzi delle esportazioni che, di conseguenza, sono rimasti più o meno stabili. Finora il calo dei salari sembra sia andato più a vantaggio dei profitti “senza dare spinta all’export”.

Se le cose stanno così, significa che mentre il calo dei salari ha un chiaro effetto sulle importazioni, che si riducono a causa del minor potere d’acquisto, l’aumento delle esportazioni pare dipenda più dall’aumento della domanda estera, piuttosto che dalla convenienza a comprare prodotti “svalutati” dal costo più competitivo.

La commissione tuttavia fa un passo in avanti e rileva che un trasferimento incompleto del calo dei salari sui prezzi “è in parte una naturale conseguenza del processo di aggiustamento”.

Conclusione: dobbiamo starci e basta. Ma vale la pena?

Guardiamo i dati.

Il grafico del costo unitario del lavoro nell’eurozona dal 2000 al 2012 mostra che il costo del lavoro unitario (ULC) era profondamento squilibrato fra i idiversi paesi, sia nel confronto con la Germania, che con la stessa media euro. Ma adesso anche questo processo di rebalacing è in corso.

“In particolare – scrive – Grecia, Portogallo e Irlanda hanno subito la riduzione più significativa del costo del lavoro, oltre ad aver aumentato la produttività (che riflette il calo dell’occupazione), mentre il costo del lavoro unitario della Spagna è stato guidato più dall’aumento della produttività che dei salari”.

Quanto a noi, “l’Italia non ha sperimentato una profonda riduzione della crescita dell’ULC, anzi i salari continuano a crescere”.

In effetti, se guardiamo il grafico, notiamo subito che l’indice dell’ULC tedesco (2000=100) non arriva neanche a 110 nel 2012 e rimane il più basso fra i paesi considerati, parecchi punti sotto la media Euro (circa 130).

Il problema nasce dal fatto che “la riduzione dei salari si è trasferita con lentezza e in maniera incompleta nello sviluppo dei prezzi”. Parte di questo mancato trasferimento, scrive la Commissione, si può spiegare con il simultaneo aumento del carico fiscale, generato dalla esigenza del consolidamento dei conti pubblici nei paesi in difficoltà”.

Ma in ogni caso “il recente trend di inflazione bassa nei paesi vulnerabili suggerisce che il costo del lavoro sta progressivamente trasferendosi sui prezzi”.

Provo a tradurre. La politiche deflazionarie sul lavoro (che hanno generato più profitti) iniziano a trasferirsi sui prezzi solo di recente in virtù delle spinte deflazionarie (leggi inflazione sempre più bassa) che stanno interessando tutte le economie fragili.

Provo a dirla ancora più semplicemente. Deprimere la domanda interna (cos’altro provoca il taglio dei salari?) finisce prima o poi col far scendere tutti i prezzi, anche quelli all’export.

Ma è la depressione il driver, il costo del lavoro è solo lo starter.

Il fatto che sia aumentata la quota dei profitti, tuttavia, non comporta di per sé che le imprese ridano. “L’incremento dei margini di profitto dal 2010 – scrive la Commissione – può essere parzialmente visto come una contropartita del collasso di tali margini fra il 2008 e il 2009”. Senza contare che le imprese hanno visto aumentare il costo dei contributi e ciò ha finito con l’assorbire parte dei calo dei salari.

Ma aldilà dei margini di profitto, è la profittabilità delle imprese, la variabile sulla quale si concentra l’analisi. “Anche se i margini di profitto aumentano a causa del calo del costo del lavoro, la profittabilità può rimanere sotto pressione a causa delle vendite scarse”.

La Commissione ci regala uno studio econometrico, che come tutti questi studi va preso con le pinze, al termine del quale viene fuori che “i cambiamenti nel costo del lavoro non sono associati in generale con la profittabilità”, anche se “gli incrementi del costo del lavoro nei settori votati all’export sono negativamente correlati con il cambio della profittabilità”. Cioé se aumenta l’uno diminuisce l’altra.

Ma tale correlazione funziona bene nei paesi fragili “mentre è quasi nulla nei paesi core”.

Per giunta, tale correlazione funziona a patto però che questi paesi spostino l’attenzione dal settore non export a quello export per aumentare la propria capacità mercantile.

La Commissione conclude così: “La moderazione salariale si sta trasferendo  lentamente sui prezzi, anche se non completamente, a causa del parziale ricovero dei margini di profitto, malgrado la profittabilità rimanga bassa a causa del calo delle vendite”.

Questa parziale trasmissione della moderazione salariale sui prezzi può essere “potenzialmente positiva se conduce alla riallocazione delle risorse dalle industrie domestiche tutelate a quelle export-oriented”.

Tale riallocazione tuttavia, almeno finora, sembra più guidata dalla pressione del deleveraging e dalle difficoltà finanziarie piuttosto che da una precisa scelta di politica industriale.

Dopo l’apolitica fiscale, anche l’apolitica industriale.