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L’epopea italiana dei fondi (in) pensione

Dunque viviamo in un’epoca in cui molti stati, ormai sfiancati dalle spese, hanno subappaltato la questione previdenziale a entità esterne. Gli strumenti di questa delega, travestita col miglior birignao di cui disponga il tecnicismo contemporaneo, sono i fondi pensioni.

Costoro, che ormai movimentano decine di trilioni di dollari nel mondo, di fatto sono uno dei costituenti del sistema finanziario globale, e rappresentano il curioso paradosso  per il quale entità costituite col risparmio previdenziale di miliardi di lavoratori finiscono nel gioco globale che negli ultimi decenni ha contribuito a erodere sempre più i redditi da lavoro.

I contributi dei lavoratori, per farla semplice, sono diventati la corda che ha finito con l’impiccarli. E a stringere il cappio è stata la loro stessa avidità: pretendendo sempre più rendimenti dai loro fondi, non si accorgono dei disastri che può provocare far circolare nel mondo tali montagne di denaro a caccia di profitti.

Il segreto di questo capolavoro è stato far passare il pensiero che il risparmio previdenziale equivalga a un investimento finanziario, mentre il senso del risparmio previdenziale dovrebbe essere assicurare una rendita certa, anche se bassa, rispetto a una rendita potenzialmente alta ma incerta.

Confondere investimento finanziario e risparmio previdenziale può essere parzialmente ammesso in un sistema a capitalizzazione, mentre è un fraintendimento in un sistema a ripartizione come il nostro, dove comunque le pensioni in essere dovranno essere pagate.

Ciò ha provocato che la previdenza pubblica ha dovuto essere riformata più volte in omaggio al concetto di sostenibilità, in modo tale da poter durare.

A fronte della inevitabile diminuzione delle rendite previdenziali pubbliche che ne è conseguita, sono stati creati  i famosi pilastri integrativi. Quindi, anche da noi, i fondi pensione.

Alimentate dalla cessione del Tfr dei lavoratori e poi da alcuni contributi, queste entità gestiscono le masse finanziarie raccolte per creare rendite per i futuri pensionati che andranno a integrare quelle derivanti dalla previdenza pubblica, in una logica, quindi, di capitalizzazione.

Ed ecco completata la metamorfosi del lavoratore, ormai vieppiù economicizzato. Costretto a compulsare, capendoci chissà quanto, borse e listini, e controllare i rendimenti del suo fondo, per avere la probabilità (non la certezza perché i fondi italiani sono a contribuzione definita, non a prestazione definita) che una volta vecchio il suo investimento previdenziale integrativo produca una rendita capiente abbastanza da affiancare quella pubblica, ormai ridotta al lumicino.

E intanto queste entità gestite da chissà chi e in logica di puro profitto, accumulano enormi quantità di risorse e finiscono col diventare stake holder non solo di aziende o capitalisti avventurosi, ma anche degli stati.

In tal senso i fondi pensione rappresentano uno degli strumenti grazie ai quali il nostro mondo ha sostituito l’interesse pubblico con l’interesse composto.

E siamo pure contenti.

Questa lunga premessa, di sicuro affrettata e superficiale, serve però a inquadrare con un minimo di consapevolezza i dati dell’ultimo rapporto Covip sui fondi pensione italiani che ormai da oltre un ventennio sono entrati a far parte della nostra vita.

L’introduzione dei fondi pensione, infatti, fu presentata nel ’93, col placet di tutta la classe dirigente italiana, come l’ennesimo passo in avanti nel nostro processo di modernizzazione, insieme alla creazione della finanza immobiliare e alla destrutturazione dell’economia pubblica. A differenza di quanto accade in molti paesi, specie quelli anglosassoni, dove i fondi pensioni sono ormai da decenni la costituente principale del sistema previdenziale, da noi questi strumenti sono arrivati tardi, anche se esistevano già dei fondi pensioni (cosiddetti preesistenti) anteriori alla legge che creò la previdenza integrativa. E ciò spiega bene perché siano ancora allo stato embrionale.

E tuttavia in crescita.

I dati Covip, relativi al 2013, ci raccontano che ormai i vari fondi pensioni italiani, ai quali a fine 2013 aderivano circa 6,2 milioni di lavoratori, hanno risorse destinate alle prestazioni per 116,443 miliardi di euro, in crescita dell’11,6% rispetto al 2012. Parliamo quindi di una massa che pesa il 7,5% del Pil e il 3% delle attività finanziarie delle famiglie. A fronte di tali risorse i fondi hanno totalizzato un patrimonio di circa 86 miliardi, poca roba se ci confrontiamo con i colossi esteri, ma comunque un discreto tesoretto.

Questi denari, dovendo garantire prestazioni presenti (5,4 miliardi nel 2013) e soprattutto future, vengono investiti dai gestori, che quindi vanno ad allungare la già popolosa genìa di chi campa facendo soldi coi soldi, in titoli azionari o obbligazionari, atteso che la quota investita negli immobili è risibile: appena il 3,4%.

La metà di questi 86 miliardi, infatti, sono investiti in titoli di stato. Di questi 43 miliardi circa 27 sono investiti in titoli di stato italiani, altri 8,5 in bond tedeschi e 11,5 in bond francesi. E per quanto abbia sicuramente un senso finanziario (per questione di rating) comprare Bund, certo fa specie pensare che i lavoratori italiani contribuiscano a sostenere il debito pubblico della Germania.

Ma in finanza non è mai il caso di essere nazionalisti. Testa e cuore ai soldi, innanzitutto.

Ai rendimenti, perciò. La Covip fra un egregio lavoro calcolando i rendimenti dal 2005 in poi per tutte le varie tipologie di fondi, confrontandola col rendimento del Tfr che, per quelli che l’hanno conservato non aderendo ai fondi, si rivaluta dell’1,5% l’anno più il 75% dell’inflazione del periodo. E la Covip, che per istituto vigila sui fondi pensione, nota con soddisfazione che “nel 2013 i risultati di gestione delle forme pensionistiche complementari, al netto dei costi, sono state superiori al tasso di rivalutazione del Tfr, attestatosi all’1,7% per effetto dell’attenuazione dell’inflazione”.

Mi sono divertito allora a vedere la tabella che riepiloga i rendimenti, utilizzando una raffinata metodologia scientifica per confrontarli: i conti della serva. Ossia li ho sommati.

Così ho scoperto che chi avesse conservato il suo Tfr, sognando il suo gruzzoletto della vecchiaia, in nove anni ha potuto contare su rendimenti totali del 23,5%. Chi avesse aderito invece a un fondo negoziale, avrebbe spuntato il 32,3. Gli aderenti ai fondi aperti il 30,2%.

Vi faccio notare che nel 2008, quando i fondi negoziali chiudevano l’anno con un risultato negativo del 6,3% e i fondi aperti del 14%, il Tfr rendeva comunque il 2%. E questo spiega meglio di ogni ragionamento la differenza fra un investimento finanziario e il risparmio previdenziale.

Vi faccio notare anche un’altra cosa. I fondi si sono rimessi in piedi negli ultimi due anni, quando il boom dei mercati azionari e obbligazionari ha fatto schizzare alle stelle i rendimenti. Anni, il 2012 e il 2013, in cui l’economia italiana è crollata, ma la finanza è andata alla grande.

Nel 2013, in particolare, “circa 1,4 milioni di iscritti non hanno alimentato la propria posizione individuale mediante il versamento dei contributi, 140.000 in più rispetto all’anno precedente”. Quindi chi non aveva soldi da versare non ho potuto godere proporzionalmente dei benefici della rivalutazione delle quote.

E c’è un’altra cosa da notare, prima di concludere questa breve disamina dei fondi pensione italiani.

I rendimenti di cui vi ho parlato si riferiscono al rendimento medio dei vari tipi di fondo. Quindi con un peso rilevante dell’azionario, sul quale i gestori ormai investono quasi il 25% del patrimonio.

Per confrontare i rendimenti sarebbe più giusto paragonare quello del Tfr, che è garantito, con quello dei fondi che investono nell’obbligazionario puro, quindi rendimenti certi anch’essi, al lordo del rischio default.

Bene. I fondi negoziali specializzati in obbligazionario puro hanno reso nel periodo considerato il 17,7%, quelli aperti il 22,8 di fronte al quale il 23,5 del Tfr sembra un affare. In sostanza il sistema dei fondi pensione è premiante sono per chi affronta più rischi. Tutto il contrario di ciò che dovrebbe essere previdenza.

Alla fine di questa transizione ventennale, insomma, il mainstream economico-sindacale-politico-informativo ha trasformato il lavoratore in uno scommettitore.

Intanto che sogna di andare in pensione, si può godere l’epopea dei suoi fondi (in) pensione.

I futuri pensionati si preoccupano, ma non abbastanza

Chi dice che sulla questione previdenziale nel nostro Paese ci sia una diffusa incosapevolezza è male informato. Una recente indagine del Censis, commissionata dalla Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dimostra tutto il contrario.

I lavoratori italiani non si aspettano granché dal proprio futuro pensionistico. Sanno già che la loro pensione sarà bassa e che non potranno lasciare il lavoro se non in età avanzata. Quello che stupisce, leggendo i dati della rilevazione, è che sembrano rassegnati al loro futuro di sostanziale povertà. Tutt’al più sperano di cavarsela.

L’indagine campionaria è stata fatta ascoltando 2.400 lavoratori, equamente suddivisi fra il settore pubblico, privato e autonomo. Il 45,8% è convinto la la sua sarà una vecchiaia di ristrettezze, e solo l’8,2% è covinto che potrà godersi un po’ di serenità grazie ai redditi previdenziali. Il 24,5% si accontenterà di “togliersi qualche sfizio”.

Vediamo perché. La soglia media di pensione che il campione di aspetta di ricevere sarà pari al 55% dell’ultimo stipendio. Questo, mentre si aspetta di lavorare oltre i 70 anni il 14,5% dei dipendenti pubblici, a fronte del 23,4% dei privati e del 33,8% degli autonomi. Il Censis calcola che solo il 23,5% dei lavoratori andrà in pensione all’età desiderata. Quindi più vecchi e più poveri. Con l’aggravante che l’84% è convinto che le regole cambieranno ancora in futuro, presumibilmente in peggio.

In più, il 34,1% teme sopra ogni altra cosa di perdere il lavoro e di non riuscire quindi a maturare la contribuzione per prendere la pensione, sebbene bassa e in tarda età. Percentuale alla quale bisognerebbe aggiungere quel 24,9% che, a causa della precarietà, è seriamente a rischio di contribuzione. Per costoro, in caso non riescano a raggiungere la quota contributiva prevista per andare in pensione, rimarrà solo la pensione di vecchiaia, l’attuale pensione sociale. Ovviamente tale paura si concentra nella fascia più giovane del campione, i soggetti fino a 34 anni.

Interessante anche leggere come tali soggetti pensano di affrontare una vecchiaia siffatta. I dipendenti pubblici pensano di salvarsi grazie ai propri risparmi (45,4%) e al proprio patrimonio immobiliare (17,3%); per i privati tali percentuali passano rispettivamente al 38,1% e al 18%; per gli autonomi al 41,5% e al 21,4%.

In totale (e in media) il 58,6% del campione riserva alla propria ricchezza privata (risparmi+mattone) il compito di difendersi dalla miseria senile, a fronte di un 16,5% che si affida ai fondi pensione. Il che fa sorridere: in un paese dove il Censis e la Covip stimano 11 milioni di analfabeti finanziari, viene fuori che il 58,6% dei lavoratori conta di cavarsela in vecchiaia investendo in finanza o nel mattone. Ma fa anche riflettere: questi lavoratori contano di riuscire a poter contare su una quota significativa di risparmi e di patrimonio, malgrado i redditi reali medi non crescano da anni.

Ma questa forse è solo un’eredità culturale, più che un calcolo economico razionale. Per 50 anni il popolo italiano ha imparato che si andava in pensione con l’80-100% dell’ultimo stipendio e con una liquidazione, con la quale comprava titoli di stato al 10-15% (ignorando la tassa dell’inflazione) o si comprava una casa. Questi redditi integrativi assicuravano un livello di vita, anche perché si andava in pensione giovani, spesso superiore a quello di fine carriera.

Speriamo che non servano altri 50 anni per capire che non è più così.

Lo spread e la pensione asociale

Quando parliamo di spread o di rating, dovremmo ricordarci una cosa. I fondi pensione italiani, a fine 2011, gestivano un patrimonio per prestazioni pensionistiche pari a 90,7 miliardi di euro, equivalenti più o meno al 6% del Pil italiano. 

Il 46,4% di questa massa di denaro (circa 42 miliardi) è investita in titoli di stato. L’investimento in titoli di stati italiani pesa 17,7 miliardi,  altri 4,6 miliardi sono stati investiti in titoli tedeschi, e 3,2 miliardi in titoli francesi. Circa un altro 3% (1,1 miliardi) è investito in titoli di Spagna, Portogallo e Irlanda.

In totale, quindi, circa il 29% (26,6 miliardi) del patrimonio dei fondi pensione italiani (dati Covip, relazione 2011) è investito in titoli di stato che hanno rendimenti bassi ma “sicuri” (Germania e Francia) o più alti ma incerti (Italia, Spagna, Portogallo e Irlanda). In particolare l’investimento italiano sul totale dei fondi pensione pesa oltre il 19%.

Quando parliamo di spread, quindi, dovremmo ricordarci che l’aumento dei rendimenti provoca un dimagrimento dei corsi dei titoli. Quindi una crisi dello spread ha un impatto diretto sul valore del portafogli titoli dei fondi pensione. Questi ultimi, in caso di crisi finanziaria grave, potrebbero veder crollare il loro patrimonio, con un effetto diretto sulla capacità di erogare le rendite, che crollerebbero di conseguenza.

Quando parliamo di rating, invece, dovremmo ricordarci un’altra cosa. I gestori dei fondi pensione, e quelli italiani non fanno eccezione, sono “costretti” a investire su categorie di titoli che hanno una certa classe di rating. Un taglio di rating, teoricamente, potrebbe spingere i gestori a disfarsi dei bond dello stato declassato, provocandone un calo (e un relativo aumento di spread).

La Covip ha ben presente il problema. A pagina 78 della sua relazione scrive: “La situazione economica dell’area dell’euro determinatasi, in particolare, tra la seconda parte del 2011 e i primi mesi del 2012, ha inoltre indotto a valutare le conseguenze sulla gestione finanziaria dei fondi del downgrade di alcuni paesi europei da parte delle agenzie di rating. In particolare, la questione si è posta a seguito dell’abbassamento del livello di rating dei titoli dello Stato italiano, consistentemente presenti nei portafogli, in rapporto al livello minimo di rating contrattualmente previsto da alcuni fondi per l’investimento in titoli di debito”. La soluzione proposta dalla commissione è stata quella di “riconoscere ai fondi margini di flessibilità nella gestione delle conseguenze del downgrading al fine, da una parte, di salvaguardare l’operatività in titoli del nostro debito sovrano e, dall’altra, di scongiurare il rischio di un consolidamento delle perdite laddove tali titoli fossero stati dismessi”. Ciò in quanto “il deprezzamento dei titoli di Stato europei presenti nei portafogli dei fondi ha contribuito a una contrazione del valore del patrimonio di pressoché tutte le forme pensionistiche che detengono tali strumenti”. Anche perché i fondi sono costretti dalla legge (decreto legislativo 252/2005) a valutare i propri asset a valori correnti (mark to market) e non secondo il criterio del costo storico. Da qui il dibattito per modificare la norme.

Queste problematiche sembreranno astruse, ma in realtà sono assai concrete. Lo sanno bene i greci. I fondi pensioni greci sono stati sbancati dalla crisi nazionale del debito. Si calcola che lavoratori e pensionati abbiano perduto circa 10 miliardi di euro di asset con la ristrutturazione del debito di marzo 2012. Anche perché, si è saputo dopo, la banca centrale greca, che amministra il 77% dei surplus dei fondi pensione, aveva avuto la brillante idea di investire 1,18 miliardi di euro in bond greci quando ormai la crisi era già conclamata. Per amor patrio, probabilmente (come i nostri fondi pensione), ma vallo a spiegare ai lavoratori e ai pensionati, che hanno visto (e vedranno anche in futuro) i propri rendimenti andare a picco (fino al 33% in meno).

Quando parliamo di spread o di rating, perciò, nessuno dovrebbe dire che non gli importa. Tantomeno i lavoratori di oggi che saranno i pensionati di domani, quando le pensioni, per importi e consistenza, già somiglieranno parecchio alle pensioni sociali di oggi.

Una crisi finanziaria non può che far male ai lavoratori di oggi: rischiano di diventare i pensionati asociali di domani.

La scommessa (persa) per una pensione “normale”

Negli ultimi undici anni i rendimenti totali dei fondi pensione negoziali sono stati di nove punti sotto quello del Tfr. Per la precisione, 30,3% per i fondi, 39,5% per il Tfr. Il dato è contenuto nell’ultima relazione annuale della Covip, la commissione che vigila sui fondi pensione, dove si legge pure che “il rendimento conseguito nello stesso temporale dai fondi pensione aperti, caratterizzati in media da una maggiore esposizione azionaria, è stato del 3,1%”.

Stando così le cose si capisce perché la previdenza integrativa, della quale la creazione dei fondi pensione negoziali è stato il momento saliente, soffra ancora in Italia. Gli iscritti sono poco meno del 25% del totale dei lavoratori e le masse gestite si collocano intorno ai 94 miliardi, e se il trend delle iscrizioni è in crescita costante, cresce anche la percentuale di sospensione della contribuzione, che nel 2011 si è collocata intorno al 20% del totale.

La montagna, insomma, ha partorito il classico topolino, mancando due dei principali obiettivi per i quali è stata costruita e realizzata la riforma dei fondi pensione: assicurare un’integrazione significativa alla previdenza obbligatoria dei lavoratori e mettere linfa vitale nei mercati finanziari, nella presunzione che costoro siano più efficienti nell’allocazione del risparmio.

A conti fatti, finora ci hanno guadagnato solo i gestori, non certo le imprese, che usavano il Tfr per finanziarsi, o i lavoratori, che subiscono un dimagrimento certo (il Tfr) a fronte di un rendimento incerto (la rendita previdenziale integrativa). A ben vedere, ci ha guadagnato il Tesoro, che preleva ogni anno dall’Inps a costo zero la quota del Tfr versato da chi ha scelto di non aderire.

Se si guardano i rendimenti dal 2005 al 2011, nel periodo in cui la riforma dei fondi pensione si è incardinata  e diffusa, il risultato cambia poco. I fondi negoziali hanno reso il 18,7% e i fondi aperti il 12,6, a fronte del 18,9 ottenuto dal Tfr. Se poi si approfondisce l’analisi, si scopre che i fondi negoziali gestiti con l’obbligazionario puro, la forma più sicura e quindi in quale modo assimilabile al Tfr, hanno spuntato un rendimento complessivo del 13,5%. E’ più che legittimo, perciò, porsi una domanda: ma se invece di versare tutto il proprio Tfr nei fondi pensione, un lavoratore se lo tiene e, una volta incassato, lo investe in un titolo di Stato, avrà una rendita maggiore o minore di quanto gli garantisce un fondo pensione?

Tentare una stima è alquanto avventuroso, anche a causa delle pluralità delle numerose situazioni previdenziali. Alcune simulazioni calcolano che l’incidenza della previdenza obbligatoria sul totale della prestazione pensionistica erogata si colloca fra il 10 e il 20% dell’ultima retribuzione, che si va a sommare quindi al circa 50% garantito dalla previdenza obbligatoria, che è più o meno quanto andrà a incassare di pensione un lavoratore interamente a regime contributivo con gli attuali tassi di sostituzione.

A rendere incerto il quadro è anche il regime dei fondi pensione, che sono a contribuzione definita e non a prestazione definita. Quindi si conosce l’entità del versamento, ma non della rendita finale, essendo quest’ultima notevolmente influenzata dall’andamento dei mercati finanziari. Ora, è pur vero, come rileva la Covip, che gli scarsi rendimenti ottenuti dai fondi pensione dal 2000 in poi sono influenzati “dalle numerose turbolenze provocate prima dalla bolla dei titoli internet e poi dalla crisi finanziaria scoppiata negli Stati Uniti fra il 2007 e il 2008”. Ma forse bisognerebbe iniziare a pensare che tali turbolenze non sono l’eccezione, nei mercati finanziari, ma la regola.

Uno studio pubblicato su Nber nell’aprile del 2008, che ha monitorato l’andamento delle crisi macroeconomiche nel mondo dal 1870 al 2008, ha individuato 87 episodi di crisi che hanno colpito gravemente i consumi e 148 crisi che hanno avuto impatti importanti sul Pil, arrivando a stimare la probabilità di una crisi macroeconomica al 3,6% l’anno. Considerando che la vita lavorativa oggi deve durare almeno 40 anni, chiunque può capire quanto siano alte le probabilità di incappare in uno scompenso previdenziale. Specie in un mondo fortemente globalizzato come il nostro.

Ce n’è abbastanza per dire che la scommessa per avere una pensione “normale”, capace cioé di garantire una vita post-lavorativa dignitosa, si rischia di perderla. Tutti.