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Il nuovo comandamento della Bce: crescete e indebitatevi (ma alla tedesca)
Sicché, e questo è il succo, la Bce vuo’ fa’ l’americana. Datele torto: non ripetono altro, i grandi esperti del giorno dopo, che la Banca centrale europea debba rilasciare le briglie e dare ossigeno all’economia asfittica del nostro tempo.
Metteteci pure che soffia un fastidioso vento deflazionario sulla verde eurozona, che la disoccupazione è ben oltre il tollerabile e che anche la produzione industriale vivacchia in attesa di non si sa quali tempi migliori, mettendo a dura prova la crescita del prodotto. Con la conseguenza che i debiti crescono anziché diminuire.
Si profila, per l’eurozona, il timore di una “stagnazione secolare” della quale ha parlato non soltanto la Bis nella sua ultima relazione annuale, ma anche di recente Christian Noyer, governatore della Banca di Francia in un recente intervento al Paris Europlace International Financial Forum (“Challenging times for finance and banking in Europe”).
Fra le altre cose, Noyer ricorda che la possibilità di una “stagnazione secolare” si basa sull’assunzione “che i tassi di interesse naturali siano negativi”, che poi è lo stato nel quale si trova la zona euro, che deve vedersela con un’inflazione ferma allo 0,5-06% e un tasso ufficiale ormai portato allo 0,15%.
Perciò non resta che copiare la Fed, anche se con tutte le specificità del caso. Gli americani, dice il mainstream, sono riusciti a far ripartire la crescita e a far scendere la disoccupazione, come daltronde è accaduto agli inglesi. Anche se basterebbe un sovrappiù di analisi per capire che non è oro tutto ciò che luccica.
Ma tant’è: il mercato si nutre di annunci, prima ancora che di ragionamenti.
La Bce perciò, nel giugno scorso ha varato la sua nuova politica monetaria che si basa su tre pilastri: portare il tasso di sconto allo 0,15%, tassi negativi sui depositi presso la Bce, al fine di stimolare l’interbancario a funzionare meglio, e rendere possibili se necessario acquisti di asset, sostanzialmente Abs che hanno sotto prestiti a piccole e media imprese al fine di pilotare il credito bancario verso queste entità, che poi sono quelle che più hanno patito la stretta del credito degli ultimi anni. Il tutto accompagnato dallo stop della sterilizzazione settimanale della liquidità creata con il Securities Markets Programme, ossia l’acquisto di bond.
Lo scopo del gioco è evidente: fare girare più soldi spingendo le banche a concedere più credito. Che poi significa spingere i debitori a indebitarsi di più. La qualcosa è un simpatico azzardo, atteso che l’alto debito privato è stata la causa scatenante della crisi che si trascina ormai da sette anni.
Anche perché, come nota sempre Noyer, l’eurozona sta facendo i conti con un notevole afflusso di capitali dall’estero, incoraggiati anche dall’inflazione bassa che tiene in piedi i rendimenti, che sta rafforzando il cambio dell’euro. La qualcosa non aiuta certo ad avere buone prospettive di ripresa.
Se questo è il quadro, diventa interessante capire come la vedano i banchieri centrali tedeschi che, vuoi o non vuoi, sono sempre gli azionisti di maggioranza della Bce, per capire se questo accomodamento monetario sarà persistente, come dicono le cronache, e se sì a quale prezzo.
All’uopo mi giovo di un altro intervento recente, stavolta di di Sabine Lautenschläger (“Low inflation as a challenge for monetary policy and financial stability?”), già pezzo grosso della Bundesbank, e ora in forza al board della Bce.
Leggere le esternazioni della Lautenschläger, è vieppiù illuminante se le si associano a un’intervista che la banchiera ha rilasciato negli stessi giorni alla Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, dal titolo assai esplicativo: “I risparmiatori non sono espropriati”, risposta secca della signora alla domanda del giornalista tedesco, secondo il quale la politica di tassi bassi della Bce sta danneggiando i risparmiatori tedeschi, alle prese col notorio tormento dei creditori.
Incrociando le due letture ne ho tratto la sensazione che dev’esser difficile fare il banchiere centrale in Germania, dove l’opinione pubblica ti chiede cose assai diverse di quelle che la politica europea ti “costringe” a fare.
Sicché anche la Lautenschläger, di cui tutto si può dire tranne che sia una morbidona, si è trovata a difendere la politica espansiva della Bce rassicurando il preoccupato giornalista tedesco. Ma poi, nel suo intervento ufficiale, sono emerse alcune sottolineature che rendono chiaro un punto fondamentale: la Bce farà l’americana, sì, ma alla tedesca.
“La Bce potrà assumersi il rischio liquidità derivante dall’acquisto di Abs. Ma assumersi il rischio di credito, per esempio incoraggiando il prestito alle piccole e media imprese, è una responsabilità dei governi nazionali”. Che si potrebbe anche tradurre grossomodo così: la Bce ci mette i soldi, ma solo se i governi ci mettono la faccia (e le garanzie).
Qui la questione si fa astrusa, quindi necessita di un piccolo approfondimento.
L’inizio del ragionamento è il solito: le condizioni generali, e in particolare quelle dell’inflazione, stanno mettendo a rischio l’obiettivo di stabilità dei prezzi che la Bce è chiamata a onorare e perseguire, questo sì, a qualunque costo. E poiché la Bce fa le sue politiche “per l’eurozona come un tutt’uno”, come più volte ripete la banchiera (anche nell’intervista al giornale), ecco che i banchieri tedeschi sono costretti a farsi piacere una politica che rischia di far esplodere la già abbondante liquidità sui mercati euristi con tutte le controindicazioni del caso.
Il problema è che malgrado tutti gli sforzi messi in atto dalla Bce prima di giugno, le erogazioni di credito sono rimaste deboli: “Le recenti osservazioni svolte dall’Eurosistema – spiega – riportano che i termini correnti delle condizioni dei prestiti offerti dalle banche sono più restrittive di quelle che ‘erano in media nel 2003. E se le imprese e i consumatori sanno che devono pagare di più adesso che in futuro per avere credito, essi non ne chiederanno“.
Per questo la Bce ha tirato fuori l’artiglieria. I nuovi LTRO annunciati per settembre e dicembre prossimi consentirano alle banche di prendere a prestito, per un periodo da un a quattro anni, un ammontare di risorse equivalente al 7% del totale dei prestiti concessi al settore privato non finanziario contabilizzati al mese di aprile scorso. E poiché sono stati esclusi da questo pacchetto di crediti quelli concessi per muti, lo scopo evidente è stimolare la concessione di crediti alle imprese e di credito al consumo.
Insomma: il nuovo comandamento della Bce per crescere è: indebitatevi.
Senonché di buone intenzioni è lastricato l’inferno. E quello dell’eurozona è rappresentato plasticamente dall’andamento degli spread, che provoca insostenibili differenza fra il costo del debito per un’impresa di un paese core e quello pagato dai Pigs.
Ed è qui che entra in gioco il rischio di credito. “Circa il 25% di tutti i prestiti alle piccole e media imprese nei paesi in crisi – ricorda – sono al momento considerati non performing. E ci sarebbe solo un beneficio di breve termine se le banche estendessero il credito senza un’analisi dei rischi di default associati”.
Ed è precisamente per questo che la banchiera collega l’efficacia di tale politica espansiva a un’adeguatda conduzione del comprehensive assessmente che proprio la Bce sta conducendo sui bilanci bancari. “Solo che banche che hanno propriamente svalutato le loro perdite e che sono adeguatamente capitalizzate saranno in grado di erogare credito in termini e condizioi ragionevoli”.
In sostanza la Bce potrà rifiutare di accollarsi crediti da una banca che non sia giudicata in regola. E poiché da novembre inizia la supervisione centralizzata, è chiaro a tutti a chi rimarrà il mano il borsellino di ultima istanza.
Ciò non vuol dire che finirà qui. La banchiera ricorda che già alla conferenza stampa di giugno molti si chiedevano se fosse tutto qua. E’ evidente che prima di fare passi ulteriori la Bce vorrà osservare le conseguenze delle decisioni prese. E poiché “la pazienza è una virtù”, come ci ricorda la signora, bisognerà aspettare prima di decidere ulteriori misure non convenzionali.
L’ultima notazione è dedicata alla “rivitalizzazione degli Abs” i cui requisiti, ci ricorda la banchiera sono stati allentati per renderli scontabili presso la Bce nell’ambito delle operazioni di rifinanziamento. Ma è evidente che tale mercato conoscerebbe la sua primavera solo qualora la Bce decidesse di comprare direttamente questi asset. “Ho una mente aperta circa l’assunzione del rischio di liquidità che tali misure generano”. Ma (c’è sempre un ma) dipende da come questi asset vengono costruiti. “La Bce potrebbe anche caricarsi il rischio di credito”. Ma su questo punto la banchiera è dubbiosa.
Anzi ha la idee chiarissime: “I governi nazionali non dovrebbero essere esentati dalla responsabilità. Ad esempio, un programma di garanzie governative attuato tramite banche di sviluppo statali per le tranche ABS più rischiosi potrebbe essere un contributo decisivo al successo”.
Ricapitolo: la Bce darà più soldi alle banche se le banche si comportano come dice la Bce. e potrebbe comprare anche Abs rischiosi se gli stati forniscono un’adeguata garanzia.
Vorrano pure fare gli americani, quelli della Bce.
Ma sempre tedeschi sono.
Il fantasma della deflazione si materializza (per ora) fra i Pigs
Dunque i nostri banchieri centrali dicono che non c’è nessun rischio deflazione in Europa, e segnatamente nella zona euro. E anzi assicurano che qualora dovessero percepire questo rischio faranno tutto ciò che è necessario per evitarlo.
Non c’è nulla che più spaventi i banchieri della temutissima sindrome giapponese.
Poi però arriva Eurostat che pubblica i dati di gennaio 2014. Viene fuori che l’inflazione annuale dell’eurozona, calcolata a gennaio 2014, è ferma allo 0,8%, stesso livello di dicembre. Ma che un anno fa, quindi a gennaio 2013, era il 2%. Più del doppio.
Peggio ancora, viene fuori che l’inflazione mensile di gennaio 2014 è stata negativa per l’1,1%.
A livello di Unione europea, la situazione cambia poco. L’inflazione annuale a gennaio 2014 è stata dello 0,9%, in calo rispetto all’1% di dicembre 2013. Mentre il dato riferito a un anno prima segnala un +2,1%. Quindi anche nell’Ue nel suo complesso, l’inflazione si è più che dimezzata. L’inflazione mensile di gennaio, è stata negativa per lo 0,9%.
Mentre mi chiedo come valuteranno questi dati i nostri banchieri, scorro l’intera nota di Eurostat e trovo altre informazioni che dicono molto di più del semplice dato aggregato.
La prima informazione è che la frammentazione dei prezzi dell’eurozona si è ulteriormente polarizzata. I paesi in crisi, a furia di disinflazionarsi, vedono materializzarsi il terribile fantasma della deflazione. Nei paesi forti, al contrario, il livello di prezzi si avvicina al livello previsto dalla Bce. Anche se rimane sottotono, almeno è positivo.
Il che ci conduce all’estremo paradosso per il quale i paesi più indebitati vedranno i loro debiti, privati e pubblici, farsi più pesanti, proprio a causa del calo dei prezzi, al contrario di quanto accade per i paesi meno indebitati, ai quali l’inflazione regala un po’ di sollievo. Come se non bastassero gli spread.
Prendiamo gli estremi: Grecia e Germania.
In Grecia l’inflazione annuale registrata a gennaio è stata negativa per l’1,4%.
In Germania, lo stesso dato riporta un’inflazione positiva per l’1,2%.
Che tale dato, per quanto parziale, esprima una tendenza, tuttavia, lo si rileva guardando ai tassi di inflazione degli altri paesi della zona. Cipro, per dire, registra un’inflazione negativa per l’1,6%, in Portogallo l’inflazione è aumentata di un risicato 0,1% , In Irlanda e Spagna dello 0,3. In Italia dello 0,6. La media Ue, come ho detto è del +0,8%.
Se andiamo a vedere i paesi “sani”, troviamo l’Olanda perfettamente in media, il Belgio all’1,1%, il Lussemburgo all’1,5% come l’Austria, e la Finlandia all’1,9%, come la Gran Bretagna. L’unica eccezione è la Slovenia (+0,9%), ma sappiamo che lì il peggio deve ancora venire.
Nel paradosso del nostro tempo, per il quale una moderata inflazione è un bene, il mercato europeo si scopre vieppiù frammentato anche relativamente a questo “beneficio”.
Ma c’è un’altra circostanza di cui è saggio tener conto. La deflazione dei Pigs, di fatto, viene importata dagli altri paesi che ne sono controparte negli scambi. Esattamente come succede quanto c’è inflazione. Quindi, se la pressione al ribasso sui prezzi dovesse continuare, neanche i paesi più forti si salveranno.
Guardiamo sempre alla Germania. L’istituto di statistica ha rilasciato il dato dell’inflazione sui prezzi dei beni importati che, sempre a gennaio 2014, ha visto l’indice decrescere del 2,3% rispetto a gennaio 2013. Si conferma così una tendenza già emersa e novemebre e dicembre 2013, quando il ribasso dell’indice, sui corrispondente mesi del 2013, era già stato del -2,9 e -2,3%.
Ovviamente di tale tendenza risentono anche i prezzi all’export tedeschi, che, sempre agennaio 2014, sono diminuiti dello 0,8% rispetto a gennaio 2013.
La disinflazione/deflazione, insomma, si autoalimenta in tutta l’area euro, anche grazie alla moneta unica che impedisce gli aggiustamenti di prezzo tramite il cambio.
Un altro elemento interessante, si vede scrutando i grafici preparati dall’Eurostat, è che dal gennaio 2010 la forbice fra l’inflazione nell’area euro e quella dell’intera Ue è andata via restringendosi. Oramai i due dati camminano sostanzialmente appaiati. Segno evidente che la tendenza deflazionaria (o disinflazionaria, come preferiscono definirla gli esperti) sta uscendo fuori dai confini dell’eurozona e sta contagiando tutta l’Europa.
Se dalla visuale parziale, perché provvisoria, di Eurostat ci spostiamo a una visione più di sistema, la sensazione che il fantasma della deflazione agiti rumorosamente le sue catene sulle nostre teste non diminuisce. Anzi.
Il documento più aggiornato che ho trovato sull’argomento è quello contenuto nelle previsioni invernali della commissione Ue pubblicate pochi giorni fa, dove l’argomento dell’inflazione occupa molto spazio.
In particolare, il rapporto ospita un box, dove si analizzano le tendenze disinflazionarie nell’eurozona che hanno iniziato a manifestarsi fin dalla fine del 2011. “L’ultimo quarto del 2013 tuttavia – sottolinea la Commissione – ha sorpreso per il ribasso dell’indice HICP, caduto allo 0,8%”.
L’Indice HICP, lo ricordo ai non appassionati, è l’indice armonizzato per i paesi europei dei prezzi al consumo. Si riferisce alla spesa monetaria per consumi finali sostenuta esclusivamente dalle famiglie. Si tratta quindi di un indicatore molto eloquente circa la reale voglia dei cittadini consumatori di spendere i propri soldi, visto che a una minore domanda di beni finali corrisponde, per la nota legge della domanda e dell’offerta, un calo dei prezzi. E poiché la deflazione di solito si verifica quando i consumatori rimandano gli acquisti perché pensano che i prezzi diminuiranno in futuro, ecco che monitorare questo indice può essere molto utile ai fini dell’analisi.
Per darvi un’idea di cosa sia successo nell’eurozona negli ultimi sette anni, basti sapere che l’indice in questione è diventato negativo nella seconda metà del 2009 e tale è rimasto per un anno intero. Eppure neanche allora si parlò tanto di deflazione quanto se ne parla adesso.
Perché?
L’indice, sempre per la cronaca, risalì dal 2010 in poi arrivando al 3% a fine 2012, quando, senza una ragione chiara, ha ricominciato a declinare. Per completare lo schema, è utile sapere che prima della crisi, alla fine del 2008, l’indice era arrivato al 4%.
La Commisione perciò si propone di analizzare se tale ribasso sia da considerare temporaneo o se nasconda una tendenza deflazionaria di fondo, che prima o poi spingerà la Banca centrale a fare “tutto ciò che è necessario”, anche se non è ancora chiaro cosa.
Nell’analisi della Commissione, parte della recente caduta dei prezzi è da imputarsi a fattori temporanei, legati all’aumento della tasse indirette e di alcuni prezzi amministrati, collegati alle misura di austerità varate in alcuni paesi in crisi. Detto in altri termini, il consolidamento fiscale ha sottratto denari dalle tasche dei cittadini facendo diminuire la domanda globale. Quindi l’indice che misura la spesa monetaria per consumi finali non poteva che diminuire.
Ma oltre a questi fenomeni transitori (chissà quanto transitori, poi, visto che la fine dell’austerità sembra assai di là da venire) ci sono anche fattori ciclici che devono essere considerati. “Fattori ciclici e strutturali – scrive la commissione – relativi alla fragile ripresa e all’andamento del costo del lavoro possono spiegare molto”.
La crescita del costo del lavoro infatti (e parliamo dell’intera eurozona) è diminuita all’1% nel terzo quarto del 2013 a fronte della crescita del 2,1% dello stesso periodo di un anno prima. La spinta deflazionaria, insomma, si alimenta col calo dei salari che, scrive la Commissione “ci si può aspettare continui nei prossimi trimestri”.
Per i PIIGS, poi, la situazione è ancora più complicata. “La disinflazione nei paesi fragili – osserva – può amplificare la sua magnitudo, infatti il declino relativo dei tassi di inflazione coincide con il sostanziale sforzo di riforme strutturali che ha posto espressamene come obiettivo le rigidità di prezzi e salari”. Ossia si è proposta di flessibilizzarli.
Di fronte a questo scenario suonano particolarmente allarmanti le conclusioni della Commissioni, che pure prova a rassicurare tutti scrivendo che “il rischio di deflazione è basso”.
Certo, se per deflazione si intende una protratta e significativa caduta dei prezzi nell’intera eurozona, il rischio si può definire basso. Ma, vedete, è tutta una questione di capirsi sulle definizioni. Perché la Commissione scrive di aspettarsi comunque “un protratto periodo di bassa inflazione nei prossimi trimestri”. E poi aggiunge che “anche in assenza di una deflazione vera e propria, un’inflazione persistentemente sotto il target Bce non sarebbe senza rischi per i paesi membri al range più basso di dispersione dell’inflazione”.
Che poi sarebbero i PIIGS, appunto, ossia quelli dove i prezzi stanno lentamente franando.
“Un protratto periodo di inlfazione molto bassa – conclude – aumenta il valore reale dei debiti, pubblici e privati, provocando un aumento dei tassi reali e rendendo il processo di aggiustamento di questi paesi più difficile e il deleveraging più sfidante”.
Ve lo dico in altre parole: anche non ci sarà la deflazione vera e propria (nell’intera area), è facile che il fantasma farà capolino nei paesi disgraziati, dove la caduta dei prezzi rischia di provocare il solito avvitamento: più austerità, più debiti, più austerità, più debiti, eccetera eccetera.
Talché la deflazione, a ben vedere, è davvero l’ultimo dei problemi.
Nel senso che gli ultimi di solito sono i primi.