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La crescita del costo del lavoro non frena il boom tedesco
Alcuni dati diffusi nei giorni scorsi dall’istituto tedesco di statistica consentono di scorgere, seppure come semplice tendenza, il movimento profondo che sta interessando l’economia della Germania, istruendoci su una semplice evidenza: la sua incredibile potenza commerciale, che non scema neanche sotto la pressione di un aumento del costo del lavoro e delle importazioni.
I dati relativi al commercio tedesco sono relativi al luglio del 2015 e confrontandoli con quelli di un anno prima scopriamo alcune cose.
La prima è che l’aumento dell’import, cresciuto dal valore di 535,3 miliardi del periodo gennaio-luglio 2014 ai 553,4 dello stesso arco di tempo del 2015, è stato più che compensato da quello dell’export, salito da 657,4 miliardi a 702,2. L’attivo commerciale, quindi, è passato dai 122,1 miliardi a 148,7, che vuol dire un aumento di oltre il 21%.
L’incremento del saldo commerciale è stato pressoché l’unico determinante di quello del conto corrente della bilancia dei pagamenti, passato dai 114,5 miliardi del 2014 (gennaio-luglio) ai 137,5 del 2015 (+20%), a fronte di di un deficit pressoché immutato dei servizi (-21,4 miliardi) e dei redditi secondari (-25.7 miliardi) e di un attivo altrettanto immutati dei redditi primari (29 miliardi).
La seconda informazione interessante è che i flussi commerciali verso l’Eurozona sono in sostanziale equilibrio: le esportazioni nell’eurozona sono state pari a 257,1 miliardi (+4,8% rispetto al 2014) e le importazioni pari a 249,7 miliardi (+2,9% sul 2014). Per i paesi Ue non euro, l’export è stato di 150,4 miliardi, sempre riferiti al periodo gennaio-luglio, pari a +8,3% rispetto al 2014, mentre import ha raggiunto i 112,6 miliardi (+3,5%).
Rispetto ai paesi terzi, quindi non europei, il dato illustra come l’export abbia superato quello indirizzato all’eurozona, arrivando a 294,7 miliardi (+7,9%), mentre l’import, cresciuto del 4%, è arrivato a 191,1 miliardi.
La Germania, quindi, non ha aumentato il saldo commerciale tagliando le importazioni, ma aumentando le esportazioni. Si osserverà che ciò è stato facilitato dall’indebolimento dell’euro, ma è altresì logico ipotizzare che una moneta più debole avrebbe dovuto, oltre che favorire le esportazioni, scoraggiare le importazioni dai paesi non euro. Cosa che invece non è accaduta. Anzi sono aumentate. Ciò suggerisce che la forza dell’economia tedesca risieda in ciò che produce piuttosto che nella valuta in cui lo denomina.
Un altro dato rafforza questa impressione: il costo del lavoro.
Un grafico mostra con chiarezza che dal almeno un biennio il costo del lavoro tedesco cresce più della media dell’Ue e dell’eurozona. Nel secondo quarto 2015, per darvi un’idea, è aumentato del 3,1% rispetto al secondo quarto 2014. Il Italia, per fare un paragone, è stato appena dell’1,1%.
Poiché il costo del lavoro viene considerato come una delle determinanti della competitività, dai dati dell’export si deduce che malgrado l’incremento del costo del lavoro, le merci tedesche continuano ad essere competitive all’estero. Il che mi fa sospettare che i consumatori stranieri gradiscano i prodotti tedeschi anche per ragioni che esulano dalla semplice convenienza economica.
Se poi andiamo a vedere l’indice dei salari lordi, notiamo che nel primo quarto 2015 è cresciuto del 2,5% in Germania a fronte della media EZ del 2,2% e del 2,4% dell’Ue. Quindi, pure se con le dovute precauzioni che dobbiamo ricordare, essendo un dato relativo, si può dedurne chei salari in Germania stanno aumentando più che nella media europea e dell’eurozona. Il che peraltro contribuisce a spiegare perché siano aumentate le importazioni.
Insomma, l’economia tedesca si sta lentamente riscaldando anche all’interno, come peraltro mostrano i dati sull’inflazione nel 2014, quandola Germania ha esibito un tasso (HCIP) del +0,8%, fra i più alti dell’eurozona.
Chi ricorda le polemiche di qualche tempo fa, quando la Germania veniva accusata di non stimolare la domanda interna per trainare la ripresa internazionale, troverà in questi dati qualche motivo di riflessione.
L’idea che me ne sono fatta io è che, lentamente ma con costanza, la Germania sta procedendo verso un maggiore equilibrio interno, che però procede di pari passo con un maggiore squilibrio esterno, come mostra il costante incremento del suo attivo corrente. Il che suonerà paradossale, ma solo perché la realtà di nutre di paradossi.
Se ricordiamo infine che il governo tedesco sta procedendo con lo stesso passo, lento ma deciso, verso la riduzione del debito pubblico cumulando surplus fiscali, si comprenderà perché la Germania somigli sempre di più a una di quelle che cent’anni fa si chiamavano potenze.
Il fatto che oggi la potenza si declini con l’economia, è solo un segno dei tempi.
Il mini euro rilancia l’export tedesco extra Ue
Ci sono almeno tre punti interessanti da osservare nella release dell’istituto statistico tedesco che monitora il commercio estero della Germania.
Il primo, e più evidente, è il boom delle esportazioni tedesche, che malgrado un ragguardevole aumento delle importazioni, ad aprile 2015 ha toccato un +7,5% rispetto ad aprile 2014 e un +5,9% nel primo quadrimestre 2015 rispetto allo stesso periodo 2014.
Il secondo punto è che la crescita più ragguardevole si è avuta nei paesi fuori dalla zona euro, sia quelli europei della Ue che quelli cosiddetti terzi.
Nei paesi dell’euro, la crescita dell’export tedesco è stata rispettivamente del 3,3% e 3,1% rispettivamente nel confronto aprile 2015/aprile 2014 e primo quadrimestre 2015/primo quadrimestre 2014. Mentre l’export nei paesi Ue ma non aderenti all’euro è cresciuto è cresciuto rispettivamente del 6,6 e 7,1%.
Nei paesi terzi l’incremento è stato ancora più marcato: l’11,8% sui mesi e il 7,9% sul quadrimestre. Ciò lascia supporre che la svalutazione dell’euro nei confronti delle valute estere abbia lavorato bene per l’export tedesco. Il che dovrebbe crearci qualche interrogativo sulla vulgata che vuole il governo tedesco poco accomodante verso le politiche monetarie allentate della Bce.
Il terzo punto interessante è l’aumento del peso delle rendite sull’economia tedesca, che possiamo osservare guardano al reddito primario del conto corrente della bilancia dei pagamenti. Tendenza che non è esagerato definire storica, visto che ormai va avanti da quando è scoppiata la crisi.
In particolare, i redditi primari, sempre nel quadrimestre, sono passati dal 20,8 miliardi a 22,3, un incremento di oltre il 6%, persino superiore all’aumento di valore registrato nell’export complessivo di merci, passato dai 371,7 miliardi del primo quadimestre 2014 ai 393,9 del 2015.
Altresì è molto istruttivo osservare l’andamento delle importazioni.
Così come è successo nel nostro paese, dove le importazioni sono aumentate, anche in Germania l’import totale è cresciuto del 2,8 ad aprile 2015 e del 2,1 nel quadrimestre. Ma la crescita delle esportazioni è stata decisamente più forte, tanto da più compensare quella dell’import. Il saldo nel quadrimestre, infatti, è passato dai 64,9 miliardi del 2015 agli 80,7 del 2015.
Anche sul conto delle importazioni è visibile l’effetto della svalutazione dell’euro. L’import nel quadrimestre dagli altri paesi dell’eurozona è aumentato appena dell’1,1%, mentre quello dagli altri paesi Ue dell’1,4. Rispetto ai paesi terzi l’import, sempre nel periodo considerato, è cresciuto del 3,7%.
Il risultato di questi movimenti è che il current account tedesco è passato dall’attivo di 66,4 miliardi del primo quadrimestre 2014 ai 79,4 del 2015. Un incremento di oltre il 19%, malgrado sia i servizi che i redditi secondari tedeschi, ossia le altre partite del conto corrente, abbiano registrato un deficit complessivo di quasi 28 miliardi.
Insomma: la Germania continuare a macinare record.
Chissà come la prenderanno gli americani, che non perdono occasione per ricordarglielo.
Il fantasma della deflazione si materializza (per ora) fra i Pigs
Dunque i nostri banchieri centrali dicono che non c’è nessun rischio deflazione in Europa, e segnatamente nella zona euro. E anzi assicurano che qualora dovessero percepire questo rischio faranno tutto ciò che è necessario per evitarlo.
Non c’è nulla che più spaventi i banchieri della temutissima sindrome giapponese.
Poi però arriva Eurostat che pubblica i dati di gennaio 2014. Viene fuori che l’inflazione annuale dell’eurozona, calcolata a gennaio 2014, è ferma allo 0,8%, stesso livello di dicembre. Ma che un anno fa, quindi a gennaio 2013, era il 2%. Più del doppio.
Peggio ancora, viene fuori che l’inflazione mensile di gennaio 2014 è stata negativa per l’1,1%.
A livello di Unione europea, la situazione cambia poco. L’inflazione annuale a gennaio 2014 è stata dello 0,9%, in calo rispetto all’1% di dicembre 2013. Mentre il dato riferito a un anno prima segnala un +2,1%. Quindi anche nell’Ue nel suo complesso, l’inflazione si è più che dimezzata. L’inflazione mensile di gennaio, è stata negativa per lo 0,9%.
Mentre mi chiedo come valuteranno questi dati i nostri banchieri, scorro l’intera nota di Eurostat e trovo altre informazioni che dicono molto di più del semplice dato aggregato.
La prima informazione è che la frammentazione dei prezzi dell’eurozona si è ulteriormente polarizzata. I paesi in crisi, a furia di disinflazionarsi, vedono materializzarsi il terribile fantasma della deflazione. Nei paesi forti, al contrario, il livello di prezzi si avvicina al livello previsto dalla Bce. Anche se rimane sottotono, almeno è positivo.
Il che ci conduce all’estremo paradosso per il quale i paesi più indebitati vedranno i loro debiti, privati e pubblici, farsi più pesanti, proprio a causa del calo dei prezzi, al contrario di quanto accade per i paesi meno indebitati, ai quali l’inflazione regala un po’ di sollievo. Come se non bastassero gli spread.
Prendiamo gli estremi: Grecia e Germania.
In Grecia l’inflazione annuale registrata a gennaio è stata negativa per l’1,4%.
In Germania, lo stesso dato riporta un’inflazione positiva per l’1,2%.
Che tale dato, per quanto parziale, esprima una tendenza, tuttavia, lo si rileva guardando ai tassi di inflazione degli altri paesi della zona. Cipro, per dire, registra un’inflazione negativa per l’1,6%, in Portogallo l’inflazione è aumentata di un risicato 0,1% , In Irlanda e Spagna dello 0,3. In Italia dello 0,6. La media Ue, come ho detto è del +0,8%.
Se andiamo a vedere i paesi “sani”, troviamo l’Olanda perfettamente in media, il Belgio all’1,1%, il Lussemburgo all’1,5% come l’Austria, e la Finlandia all’1,9%, come la Gran Bretagna. L’unica eccezione è la Slovenia (+0,9%), ma sappiamo che lì il peggio deve ancora venire.
Nel paradosso del nostro tempo, per il quale una moderata inflazione è un bene, il mercato europeo si scopre vieppiù frammentato anche relativamente a questo “beneficio”.
Ma c’è un’altra circostanza di cui è saggio tener conto. La deflazione dei Pigs, di fatto, viene importata dagli altri paesi che ne sono controparte negli scambi. Esattamente come succede quanto c’è inflazione. Quindi, se la pressione al ribasso sui prezzi dovesse continuare, neanche i paesi più forti si salveranno.
Guardiamo sempre alla Germania. L’istituto di statistica ha rilasciato il dato dell’inflazione sui prezzi dei beni importati che, sempre a gennaio 2014, ha visto l’indice decrescere del 2,3% rispetto a gennaio 2013. Si conferma così una tendenza già emersa e novemebre e dicembre 2013, quando il ribasso dell’indice, sui corrispondente mesi del 2013, era già stato del -2,9 e -2,3%.
Ovviamente di tale tendenza risentono anche i prezzi all’export tedeschi, che, sempre agennaio 2014, sono diminuiti dello 0,8% rispetto a gennaio 2013.
La disinflazione/deflazione, insomma, si autoalimenta in tutta l’area euro, anche grazie alla moneta unica che impedisce gli aggiustamenti di prezzo tramite il cambio.
Un altro elemento interessante, si vede scrutando i grafici preparati dall’Eurostat, è che dal gennaio 2010 la forbice fra l’inflazione nell’area euro e quella dell’intera Ue è andata via restringendosi. Oramai i due dati camminano sostanzialmente appaiati. Segno evidente che la tendenza deflazionaria (o disinflazionaria, come preferiscono definirla gli esperti) sta uscendo fuori dai confini dell’eurozona e sta contagiando tutta l’Europa.
Se dalla visuale parziale, perché provvisoria, di Eurostat ci spostiamo a una visione più di sistema, la sensazione che il fantasma della deflazione agiti rumorosamente le sue catene sulle nostre teste non diminuisce. Anzi.
Il documento più aggiornato che ho trovato sull’argomento è quello contenuto nelle previsioni invernali della commissione Ue pubblicate pochi giorni fa, dove l’argomento dell’inflazione occupa molto spazio.
In particolare, il rapporto ospita un box, dove si analizzano le tendenze disinflazionarie nell’eurozona che hanno iniziato a manifestarsi fin dalla fine del 2011. “L’ultimo quarto del 2013 tuttavia – sottolinea la Commissione – ha sorpreso per il ribasso dell’indice HICP, caduto allo 0,8%”.
L’Indice HICP, lo ricordo ai non appassionati, è l’indice armonizzato per i paesi europei dei prezzi al consumo. Si riferisce alla spesa monetaria per consumi finali sostenuta esclusivamente dalle famiglie. Si tratta quindi di un indicatore molto eloquente circa la reale voglia dei cittadini consumatori di spendere i propri soldi, visto che a una minore domanda di beni finali corrisponde, per la nota legge della domanda e dell’offerta, un calo dei prezzi. E poiché la deflazione di solito si verifica quando i consumatori rimandano gli acquisti perché pensano che i prezzi diminuiranno in futuro, ecco che monitorare questo indice può essere molto utile ai fini dell’analisi.
Per darvi un’idea di cosa sia successo nell’eurozona negli ultimi sette anni, basti sapere che l’indice in questione è diventato negativo nella seconda metà del 2009 e tale è rimasto per un anno intero. Eppure neanche allora si parlò tanto di deflazione quanto se ne parla adesso.
Perché?
L’indice, sempre per la cronaca, risalì dal 2010 in poi arrivando al 3% a fine 2012, quando, senza una ragione chiara, ha ricominciato a declinare. Per completare lo schema, è utile sapere che prima della crisi, alla fine del 2008, l’indice era arrivato al 4%.
La Commisione perciò si propone di analizzare se tale ribasso sia da considerare temporaneo o se nasconda una tendenza deflazionaria di fondo, che prima o poi spingerà la Banca centrale a fare “tutto ciò che è necessario”, anche se non è ancora chiaro cosa.
Nell’analisi della Commissione, parte della recente caduta dei prezzi è da imputarsi a fattori temporanei, legati all’aumento della tasse indirette e di alcuni prezzi amministrati, collegati alle misura di austerità varate in alcuni paesi in crisi. Detto in altri termini, il consolidamento fiscale ha sottratto denari dalle tasche dei cittadini facendo diminuire la domanda globale. Quindi l’indice che misura la spesa monetaria per consumi finali non poteva che diminuire.
Ma oltre a questi fenomeni transitori (chissà quanto transitori, poi, visto che la fine dell’austerità sembra assai di là da venire) ci sono anche fattori ciclici che devono essere considerati. “Fattori ciclici e strutturali – scrive la commissione – relativi alla fragile ripresa e all’andamento del costo del lavoro possono spiegare molto”.
La crescita del costo del lavoro infatti (e parliamo dell’intera eurozona) è diminuita all’1% nel terzo quarto del 2013 a fronte della crescita del 2,1% dello stesso periodo di un anno prima. La spinta deflazionaria, insomma, si alimenta col calo dei salari che, scrive la Commissione “ci si può aspettare continui nei prossimi trimestri”.
Per i PIIGS, poi, la situazione è ancora più complicata. “La disinflazione nei paesi fragili – osserva – può amplificare la sua magnitudo, infatti il declino relativo dei tassi di inflazione coincide con il sostanziale sforzo di riforme strutturali che ha posto espressamene come obiettivo le rigidità di prezzi e salari”. Ossia si è proposta di flessibilizzarli.
Di fronte a questo scenario suonano particolarmente allarmanti le conclusioni della Commissioni, che pure prova a rassicurare tutti scrivendo che “il rischio di deflazione è basso”.
Certo, se per deflazione si intende una protratta e significativa caduta dei prezzi nell’intera eurozona, il rischio si può definire basso. Ma, vedete, è tutta una questione di capirsi sulle definizioni. Perché la Commissione scrive di aspettarsi comunque “un protratto periodo di bassa inflazione nei prossimi trimestri”. E poi aggiunge che “anche in assenza di una deflazione vera e propria, un’inflazione persistentemente sotto il target Bce non sarebbe senza rischi per i paesi membri al range più basso di dispersione dell’inflazione”.
Che poi sarebbero i PIIGS, appunto, ossia quelli dove i prezzi stanno lentamente franando.
“Un protratto periodo di inlfazione molto bassa – conclude – aumenta il valore reale dei debiti, pubblici e privati, provocando un aumento dei tassi reali e rendendo il processo di aggiustamento di questi paesi più difficile e il deleveraging più sfidante”.
Ve lo dico in altre parole: anche non ci sarà la deflazione vera e propria (nell’intera area), è facile che il fantasma farà capolino nei paesi disgraziati, dove la caduta dei prezzi rischia di provocare il solito avvitamento: più austerità, più debiti, più austerità, più debiti, eccetera eccetera.
Talché la deflazione, a ben vedere, è davvero l’ultimo dei problemi.
Nel senso che gli ultimi di solito sono i primi.
La Germania comincia a vivere di rendita
C’è, nel pendolo della Storia, una rassicurante prevedibilità che però non deve ingannare. L’isocronia dei movimenti, pure al variare di certe condizioni, poco ci dice su ciò che accada ogni volta nel periodo di riferimento. Sappiamo solo che, a un certo punto, il pendolo torna indietro: regolarmente.
Ai tempi d’oro l’impero inglese finanziava gli scambi del mercato globale, lucrando enormi rendite su tali prestiti. Nel 1925, per dare un’idea, i redditieri inglesi incassavano fra redditi esteri, diritti di noli e interessi sul loro stesso debito pubblico, una quota di denaro pari a circa il 20% del prodotto nazionale. Le solo rendite dai prestiti esteri pesavano circa il 5,6% del Pil, Ben al di sotto dell’8,3% del 1913, ma d’altronde c’era stata una guerra di mezzo, e ben altre potenze si stavano candidando al ruolo di tesoriere globale.
Pure nel 1933, l’anno orribile dell’economia mondiale, e di quella inglese in particolare, ormai orfana del gold standard, le rendite dei gentiluomini inglesi correvano ancora un bel po’, pure se ormai quotava un modesto 3,8% del Pil. Certe vocazioni, come vedete, sono difficili a maturare e ancora più difficili a cambiare. Ci volle un’altra guerra perché i redditi inglesi dall’estero si prosciugassero.
Se facciamo un salto nel nostro tempo, rivediamo il pendolo della storia riprendere slancio e disegnare un’altra vocazione da rentier. Non certo in Inghilterra, il cui conto corrente ormai è un colabrodo, e tantomeno in America, che lucra dai suoi investimenti esteri, malgrado sia il paese più indebitato al mondo, ma solo perché emette la valuta internazionale. E neanche dalla Cina, che addirittura mostra un saldo negativo dei redditi sulla parte corrente del bilancio estero.
Questo particolare pendolo della storia ha iniziato a oscillare in Germania. Capiremo solo nei prossimi anni l’ampiezza di tale oscillazione. Per il momento possiamo solo rilevare che è iniziata nel 2004 e che adesso ha iniziato a prendere un certo slancio.
Prima di entrare nel dettaglio, consentitemi u’altra divagazione storica. Nei ruggenti anni Venti, mentre l’Inghilterra si prosciugava e la Germania diventata la periferia degli investimenti del centro americano, gli Stati Uniti si trovarono nell’invidiabile condizione di avere corposi surplus sul lato corrente dei redditi insieme a notevoli avanzi commerciali, che consentivano loro di finanziare mezzo mondo. Un potere enorme. Gli inglesi, per dire, avevano sofferto nella fase finale del loro impero di un deficit sul conto delle merci.
Ecco: questa è la situazione in cui si trova la Germania di oggi. La situazione americana, intendo.
Dicevo che il pendolo tedesco ha inizato a oscillare nel 2004. Fino al 2003 infatti, e per il decennio precedente, il saldo dei redditi aveva mostrato un segno negativo, al contrario di quanto era accaduto dal 1980 in poi, quando il saldo dei redditi, pure se modesto, era stato sempre positivo. Gli anni ’90, per la Germania, sono stati anni brutti sul versante estero. Gli attivi commerciali si erano pressoché dimezzati in confronto a quelli dei ruggenti anni ’80, e il saldo di conto corrente era sceso sotto zero, dove è rimasto per tutto il decennio.
Solo dal 2001 in poi il saldo del conto corrente è tornato positivo, trainato dalle esportazioni di merci, il cui surplus schizzò al 6% del Pil già quell’anno, per arrivare a sfiorare l’8% nei successivi. Ma il saldo dei redditi era ancora negativo, e lo è rimasto, appunto, fino al 2004.
In quell’anno qualcosa è cambiato. I redditi netti dall’estero sono diventati positivi. Gli investimenti all’estero, evidentemente, hanno portato un ottimo frutto. I primi sono ancora modesti, più o meno l1% del Pil, ma la crescita è costante. E, cosa ancor più rimarchevole, non ha rallentato neanche con la crisi: anzi: è cresciuta.
Evidentemente i i ricchi tedeschi sanno bene dove investire. Hanno il gusto dei rendimenti, da bravi rentier.
Tale tendenza è confermata anche dagli ultimi dati rilasciati venerdì dall’istituto statistico tedesco, che ci dice alcune cose interessanti.
La prima, immediatamente rilanciata da tutta la stampa, è che il surplus sulle merci del 2013 è arrivato a 198,9 miliardi, il miglior risultato della storia tedesca, persino di quello del 2007, quando raggiunse i 195,3 miliardi di euro. Ma il 2007 fu un anno record per i conti esteri tedeschi: al surplus commerciale, che toccò l’8% del Pil, si aggiunse anche quello sui redditi, un altro 2% circa.
Con la crisi è successa una cosa curiosa: il saldo commerciale è diminuito, ma quello sui redditi è rimasto costante, salvo nel 2008, crescendo anzi moderatamente.
I conti 2013 confermano quest’andamento. E il surplus commerciale tedesco nasconde altri dettagli di non poco conto.
Intanto che il miglioramento del saldo rispetto al 2012 (189,9 mld) deriva dal fatto che le importazioni sono calate assai più delle esportazioni. Queste ultime, in valore assoluto sono diminute rispetto al 2012, passando da 1.095,8 miliardi a 1.093,9, lo 0,2% in meno. L’import è andato peggio però. A differenza degli gentiluomini inglesi, gran consumatori di thé indiano, i tedeschi hanno stretto la cinghia, col risultato che hanno importato 895 miliardi di merci nel 2013, l’1,2% in meno del 905,9 del 2012.
Poi c’è un’altra cosa. Il saldo dei redditi è l’unica voce della bilancia dei pagamenti che mostra una percentuale positiva. Mentre import e export di merci diminuiscono entrambi, anche se il saldo è da record, i redditi crescono in valore assoluto e percentuale. Nel 2012 la Germania redditiera aveva incassato 64,4 miliardi di redditi netti dai suoi investimenti. Nel 2013 sono stati 67,5: 3,1 mld in più, pari al 4,8% in più in un anno. Niente male no?
Questo spiega, assai più dell’evoluzione delle merci, l’andamento lussureggiante del conto corrente, il cui surplus è passato da 187,2 mld a 201, altro probabile record storico.
Vivere di rendita offre parecchi vantaggi, è ovvio. E se l’interscambio di merci è ancora saldamente la prima voce dello sviluppo tedesco, bisognerà vedere se i tedeschi faranno come gli inglesi prima e gli americani oggi, che a furia di viver di rendita (e quindi di finanza) sono diventati pigri e hanno finito col rovinare le loro bilance commerciali.
Notate che 67,5 mld equivale a circa il 2,5% del pil tedesco. Non saranno ancora come i vecchi inglesi, ma continuando così fra poco inizieranno a giocare a cricket.
Sempre che il pendolo, improvvisamente, non decida di tornare indietro.