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I partecipanti e i fantasmi

In Italia il rapporto fra la forza lavoro e la popolazione in età lavorativa è circa 0,65, che equivale a un tasso di partecipazione al lavoro del 65 per cento. Questo significa, in pratica, che solo il 65 per cento di quelli che potrebbero lavorare partecipa al mercato del lavoro. Laddove partecipare non vuol dire che siano tutti occupati, ma che almeno siano iscritti alle liste di disoccupazione. Questi ultimi individui pesano circa 8 punti. Ciò vuol dire che gli occupati sono più o meno i 57 punti mancanti.
La notizia però non è tanto quanto pesino i partecipanti, quanto quel 35 per cento di non partecipanti che compongono la popolazione in età lavorativa, fissata convenzionalmente fra i 15 e i 64 anni. Costoro, non risultando come forza lavoro, perché né occupati né disoccupati, sono i fantasmi del mercato del lavoro, al quale risultano letteralmente invisibili. Molti di loro sono studenti, ovviamente. Ma neanche troppi. Abbiamo anche il triste primato dei Neet. E allora cosa fanno? Meglio ancora: come vivono? Saranno pure fantasmi, ma devono pur nutrirsi anche loro.
Ciò per dire che i disoccupati sono certamente un problema, ma almeno li conosciamo. Ma forse il problema più grosso sono gli altri. Che conosciamo per sottrazione, ma di cui non sappiamo nulla.
Gli anziani gonfiano il mercato del lavoro europeo
M’inerpico sprovveduto lungo i pendii statistici elaborati dalla Bce nell’ultimo bollettino, dove un riquadro discorre degli andamenti recenti della partecipazione al mercato del lavoro nell’eurozona. E scopro con divertito stupore che “malgrado i periodi di severa recessione che hanno colpito lʼarea dellʼeuro negli ultimi anni, il tasso di partecipazione alla forza lavoro nellʼarea ha evidenziato andamenti (atipicamente) positivi”.
Quell'”atipicamente” mi attrae come una calamita e capisco, leggendo oltre, che come sempre quando si tratta di statistica è tutta una questione di definizioni.
Già, perché la Bce per calcolare il suo tasso di partecipazione fa riferimento alla popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni, quando di solito si usa la classe 15-64 anni per definire la popolazione attiva. E poiché la stessa Bce nota che “lʼaumento del tasso aggregato di partecipazione è stato trainato soprattutto dalla crescita della partecipazione dei gruppi di età più avanzata (55-74), mentre la partecipazione giovanile (15-24) è andata calando”, se ne può dedurre agevolmente che sono gli anziani a trainare l’aumento della partecipazione al mercato del lavoro.
Che significa?
In pratica ciò evidenzia il crescente aumento del peso relativo dei fattori demografici sul mercato del lavoro rispetto ai fattori ciclici e strutturali.
Faccio un passo indietro.
Ricordo che il tasso di partecipazione misura la percentuale di coloro che sono occupati o cercano attivamente lavoro sul totale della forza lavoro, che, nel caso monitorato dalla Bce, dovremmo definire come il totale della popolazione compresa fra i 15 e i 74 anni.
Ebbene, il tasso di partecipazione nell’euroarea ha seguito un trend ascendente dal 2000 al 2012, collocandosi intorno al 64% nel 2014.
Il fatto che ciò sia accaduto durante un periodo in cui la disoccupazione aumentava non deve stupire, visto che, come ho detto, la partecipazione misura il totale di coloro che lavorano e coloro che cercano lavoro. Quindi in questo senso l’aumento dei disoccupati può far crescere il tasso di partecipazione se costoro continuano attivamente a cercare lavoro.
Ciò non toglie che il tasso di partecipazione avrebbe potuto essere più alto, se non fosse aumentata la disoccupazione, visto che “i cambiamenti nella distribuzione della popolazione hanno esercitato pressioni al ribasso sulla partecipazione al mercato del lavoro. Ciò si deve alla crescita delle fasce di popolazione con i tassi di partecipazione più bassi (quelle di età compresa fra i 55 e i 74 anni) e alla concomitante riduzione delle fasce con i tassi di partecipazione più elevati (principalmente la popolazione di età adulta)”.
Osservando i grafici prodotti nel riquadro appare di tutta evidenza che rispetto al terzo trimestre 2007 è notevolmente diminuito il tasso di partecipazione dei 15-24enni, quello della classe 25.54 è sostanzialmente stabile, mentre è aumentato significativamente quello della classe 55-64enni e risulta in crescita anche quello dei 65-74enni. In pratica, lo coorti più anziane sono quelle che hanno visto aumentare il tasso di partecipazione. E leggo questa indicazione come un chiaro segno del destino che attende le popolazioni europee: lavorare fino a un’età sempre più avanzata.
L’analisi si fa ancora più interessante se il dato viene disaggregato nei quattro paesi principali che compongono l’area, ossia Germania, Italia, Francia e Spagna.
L’incremento più evidente del tasso di partecipazione si è registrato in Germania dove l’indice, fatto 100 il livello del 2008, è arrivato a sfiorare 105 nel 2014. Italia e Spagna convergono verso 101, mentre la Francia è di poco sopra 100, ossia lo stesso livello del 2008.
La performance della Germania, spiega la Bce, “è dipeso in gran parte da variazioni della partecipazione nelle diverse fasce
dʼetà, in particolare quella dei lavoratori più anziani, forse dovute allʼattuazione delle riforme Hartz e alla progressiva eliminazione
delle opzioni di pensionamento anticipato fra il 2006 e il 2010. Dal 2009 i tassi di partecipazione hanno altresì beneficiato di un
aumento dellʼimmigrazione netta verso la Germania”.
In Francia “il modesto aumento del tasso di partecipazione è principalmente attribuibile a un incremento di quello delle fasce
di età più avanzata (dovuto a un aumento dellʼetà pensionabile)”.
In Spagna “la crescita della partecipazione fino al 2012 è imputabile soprattutto a cambiamenti positivi nelle decisioni di partecipazione (principalmente fra le persone di età compresa fra i 40 e i 64 anni)”. C’è da dire che dal 2013 il tasso spagnolo è notevolmente diminuito “in parte per l’uscita dei lavoratori stranieri”.
In Italia, dopo la contrazione registrata a partire dal 2008 per l’aumento dei lavoratori scoraggiati, che hanno di conseguenza ingrossato la classe degli inattivi, ossia coloro che non studiano né lavorano, “a partire dal 2012 a partecipazione ha ripreso a salire, in parte per effetto della riforma pensionistica”.
Come si può notare le modifiche del welfare hanno impatti diretti sulla durata della vita lavorativa e, di conseguenza, sui tassi di partecipazione. Se vado in pensione pià tardi devo cercare lavoro anche a sessant’anni. E se ho una pensione bassa, o sussidi ridotti, pure a settanta.
Tutto ciò si intreccia con l’evoluzione demografica dell’eurozona, dove “la quota delle fasce di età più avanzata (caratterizzate da tassi di partecipazione inferiori) è destinata ad aumentare”.
Insomma, sempre più persone coi capelli bianchi, e sempre alla ricerca di un lavoro per sbarcare il lunario.
Così magari si sentono giovani.
L’odissea dei lavoratori anglo-americani
Poiché, piaccia o no, il mondo angloamericano detta la linea del discorso economico globale, vale la pena sforzarsi di capire cosa succede laggiù nel mondo del lavoro, atteso che prima o poi succederà anche qui dopo che i corifei nostrani di tale mainstream ci avranno talmente stordito di chiacchiere che saremo pure contenti di vederlo accadere.
Pochi giorni fa il dipartimento del Commercio americano ha comunicato dati sulla disoccupazione migliori del previsto (il 6,1% contro il 6,3 previsto) che si collocano ben al di sotto della mitica soglia del 6,5 che la Fed, nel lontano dicembre 2012, fissò allorquando si trattò di comunicare al mondo il segnale che avrebbe scatenato il tapering.
La stessa cosa l’avrebbe fatta la Banca d’Inghilterra, ma quasi un anno dopo. Nell’agosto 2013 aveva detto che una volta ridotta sotto il 7% la disoccupazione, avrebbe riconsiderato la sua politica monetaria.
Quello che pochi ricordano, ma che la Bundesbank molto opportunamente sottolinea in un approfondimento sul tema pubblicato nel bollettino di maggio, è che sia le Fed che la BoE prevedevano che tali soglie non sarebbero state raggiunte prima del 2015, la Fed, e del 2016, la BoE.
Senonché, la realtà, come quasi sempre accade, ha smentito tali previsioni. Dell’America ho già detto, mentre la Gran Bretagna è scesa sotto la soglia nel primo quarto del 2014, con grande sconcerto dei banchieri centrali, che sono stati costretti a modificare la loro forward guidance per evitare che i mercati si spaventassero troppo.
Nel frattempo, trascurando quanto sia inquietante la scarsa capacità previsionale delle banche centrali, il mondo applaudiva. Il successo americano e quello inglese sul fronte della disoccupazione ha generato il solito coro di voci all’unisono che ci hanno convinto che le politiche espansive angloamericane hanno fatto diminuire la disoccupazione – il Grande Mostro – ergo: hanno funzionato.
Il caso inglese, in particolare, è diventato icastico di come una severa politica fiscale, che passa per licenziamenti di massa nel pubblico impiego, sia un ottimo viatico per la crescita occupazionale. Di sicuro l’avrete sentito ripetere in qualche talk show.
Senonché, la realtà, oltre a smentire le previsioni, sovente è anche assai diversa da come ce la raccontano, confermando l’amaro paradosso del nostro tempo economicizzato, dove un’affermazione vera (il tasso di disoccupazione che cala) non sempre corrisponde alla realtà che uno si immagina ciò sottintenda (sono aumentati quelli che lavorano). Succede quando si crede che le statistiche descrivano la realtà, quando invece descrivono soltanto i dati che le loro definizioni sottintendono.
Perché ciò non vi appaia filosofico, leggiamoci tutto l’articolo della Buba, che riprende in parte un altro studio rilasciato qualche tempo fa dalla Bce, anch’esso dedicato al mercato del lavoro Usa.
Dopo aver osservato quanto sia difficile fare previsioni sull’andamento del tasso di disoccupazione, specie basandole sulla presunta crescita del Pi, la Buba nota che comunque tale indicatore – il tasso di disoccupazione – non fornisce indicazioni sufficienti sullo stato di salute del mercato del lavoro perché può accadere che pure se il livello di occupazione rimane lo stesso il tasso di disoccupazione scenda perché senza lavoro smettono di cercarne uno.
Per comprendere questa affermazione bisogna ricordare che il tasso di disoccupazione viene definito come un rapporto dopo al numeratore ci sta il numero dei disoccupati e al denominatore la somma di occupati e disoccupati, ossia la forza lavoro. Quindi se i disoccupati diminuiscono, diminuisce il tasso.
Il che è perfettamente logico. Ma ricordatevi che i disoccupati non diminuiscono solo perché trovano lavoro, ma anche perché smettono di cercarlo. Se l’anagrafica statistica non censisce più il disoccupato all’interno della forza lavoro (disoccupati+occupati) perché magari il lavoratore non è più iscritto all’ufficio di collocamento, ciò farà scendere il tasso di disoccupazione esattamente come sarebbe successo se il nostro avesse trovato un lavoro.
Per questo viene calcolato il tasso di partecipazione, che è il rapporto fra la popolazione attiva, di solito i 15-64enni, e la forza lavoro (disoccupati più occupati). Vedete come la rappresentazione statistica differisce dalla realtà di tutti i giorni?
Eppure, con fine espediente retorico, si usa il dato statitistico come se fosse il linguaggio di tutti i giorni e così facendo si confondono i ragionamenti. E se uno dice che è vero che il tasso di disoccupazione è diminuito negli Usa, ma che questo non vuol dire necessariamente che ci sono più persone al lavoro, deve scrivere un post noioso come questo per farsi capire.
I dati d’altronde servono a fare politica, solo che nascondo la loro vocazione dietro la vernice ideologica dell’obiettività scientifica.
Se andiamo a vedere i dati (completi però) relativi al mercato del lavoro americano, che la Buba gentilmente ci mette a disposizione, scopriamo una cosa che sapevamo già: la disoccupazione è calata, per giunta più in fretta di quanto la Fed avesse immaginato, ma il tasso di partecipazione al mercato del lavoro altrettanto.
Su base 100 (anno 2000), l’indice dell’occupazione americana, nei primi del 2014, è ancora sotto al livello del 2007, intorno al 106, nonostante la Fed e la retorica da talk show (televisivo o parlamentare che sia). Vale la pena sottolineare che il tasso di partecipazione al lavoro degli americani è crollato dal 67% del 2000 a meno del 63% del 2014.
Quindi delle due l’una: o la crescita tanto decantata del Pil di questi ultimi anni ha prodotto una gran quantità di milionari che non ha bisogno di lavorare per vivere, o ha prodotto una gran quanttà di lavoratori che non sono più neanche disoccupati: sono scomparsi e basta. Proprio come il vecchio Odisseo, sono partiti per la loro personale Troia e non si sa se e quando torneranno a Itaca. Il tutto, ovviamente, al lordo della varibile demografica.
Se andiamo a vedere il caso inglese, altro pezzo forte dei talk show nostrani, scopriamo che a differenza di quanto accaduto negli Usa il tasso di partecipazione è aumentato, arrivando a sfiorare il 64%. Quindi effettivamente c’è più forza lavoro. E poiché è diminuito il tasso di disoccupazione, è logico dedurne che siano aumentati effettivamente gli occupati.
E infatti è così, ma con un paio di cavet da non sottovalutare.
Il primo, che la Buba molto malignamente ricorda, è che tale aumento “è molto probabilmente dovuto alla persistente debolezza nella crescita della produttività”. Quest’ultima, secondo le previsioni della BoE avrebbe dovuto cominciare a riprendersi, ma rimane ancora al di sotto del livello pre crisi. Tanto è vero che la crescita del prodotto aggregato, che pure è stata rigogliosa in UK negli ultimi trimestri, ha prodotto un equivalente aumento dell’occupazione, provocando un andamento stagnante del prodotto pro-capite, e quindi, appunto, della produttività.
Per dirla con le parole della Buba “la persistente crescita dell’occupazione in UK è il lato macroeconomico nascosto della debole performance della produttività”. Tanto è vero che l’occupazione ha segnato il suo picco a fine 2013 eppure il prodotto è rimasto all’1,5% sotto il livello pre-crisi.
Anche qui, sembra di sfidare il senso comune, ma se vediamo il secondo caveat tutto si chiarisce.
“Bisogna ricordare – sottolinea sempre più malignamente la Buba – che gran parte della crescita dell’occupazione in UK è dovuta all’aumento del numero dei self-employed, che recentemente quotano circa il 15% del totale della forza lavoro, il 2,5% in più della media degli anni 2000-07”.
L’auto-impiegato, magari un ex dipendente pubblico finalmente costretto a confrontarsi col duro mondo del lavoro produttivo, fa crescere le statistiche dell’occupazione, ma magari produce poco e male.
E non finisce qua: ci sono pure i part time, che ormai sono arrivati al 27% (in crescita dell’1,5%), dai quali non ci si può certo attendere una produzione assimilabile a un full time, ma che comunque fanno statistica occupazionale.
A proposito di full time: il numero di coloro che cercano, senza trovarlo, un lavoro a tempo pieno è quasi raddoppiata, negli anni del “miracolo” inglese.
Il lavoratore inglese, insomma, anche lui novello Ulisse, ha iniziato la sua personale odissea verso la sua Itaca: un posto di lavoro a tempo pieno e, non trovandone, si auto-impiega o si rassegna al part time.
Però l’occupazione cresce. Ai talk show i politici fanno faville. Gi economisti teorizzano, i giornalisti scopiazzano, e tutti sono contenti.
Tranne quelli che lavorano.
