Etichettato: Luigi Signorini
Il DEF non è roba da Signorini
Quando finalmente arrivo alla 28esima e ultima pagina della lunga audizione in commissione parlamentare sul DEF di Luigi Signorini, vice direttore generale della Banca d’Italia, scovo nei recessi della memoria un pensiero atavico che riemerge come un fungo velenoso dalla nebbia: si stava meglio quando si stava peggio.
E non sono tanto le argomentazioni di Signorini, che sono cortesi e documentate come si conviene a un banchiere centrale, a farmi rifugiare nel passato. Piuttosto alcune tavole aggiunte in appendice che monitorano la nostra contabilità pubblica dal 2005 al 2014.
Mi rendo conto che, rispetto ad oggi, il 2005, che pure non è che fosse ‘sto granché, era una anno meraviglioso.
Per dire: avevamo un debito/pil del 101,9%, a fronte del 132,1 del 2014, la spesa pubblica era al 47,1% a fronte del corrente 51,1%. La pressione fiscale, compresi i contributi, era al 39,1, e ora siamo al 43,5 e pagavamo interessi sul debito per il 4,5% del Pil a fronte del 4,7 del 2014.
E mi accorgo, guardando queste cifre e poi rileggendo Signorini che tornare da dove siamo partiti, fosse anche il 2005, agli albori della peggiore crisi della nostra storia recente, richiederà ben altro sforzo che quello delineato nei documenti del governo che Signorini commenta con tono trattenuto, spinto dall’evidente dovere d’ufficio e insieme dal desiderio di seminare qualche elemento di ragionevolezza nel fantastico mondo delle previsioni governative.
Ma sarebbe ingeneroso dire che il DEF è un libro dei sogni. I tanti che lo dicono dimenticano quale sia la sua funzione precipua. Il DEF non è un documento di economia. E’ un documento politico, che usa retoricamente l’economia per sostenere decisioni politiche.
In tale contesto ha gioco facile chi individui battibecchi fra governo e Bankitalia, come quello sul presunto tesoretto che ha campeggiato sulla stampa in questi giorni. E’ del tutto evidente che Bankitalia faccia Bankitalia, ricordando la necessità di mantenere l’equilibrio dei conti pubblici, utilizzando eventuali risorse a consolidare il percorso di rientro fiscale. Così come è evidente che il governo faccia il governo facendo credere al popolo che sono in arrivo risorse aggiuntive per saziare la sua fame atavica.
Poiché questo gioco, che pure ho giocato anch’io, mi ha stancato, decido di leggere il DEF, e le valutazioni di Signorini provando a coglierne le qualità, invece delle quantità.
Ne viene fuori, oltre al pensiero che già vi ho detto, una fastidiosa sensazione, che il dettato del DEF e il commento di Signorini rafforzano: stiamo facendo una scommessa collettiva, peraltro con i soldi della Bce (ma soprattutto di Bankitalia).
Parlo di scommessa non a caso.
La premessa che il ciclo dell’economia mostri segni di miglioramento non basta a celare la sostanza della questione in gioco. “Lo scenario descritto nel DEF per il biennio 2015-16 – sottolinea Signorini – è plausibile, anche se non esente da rischi a breve termine: i miglioramenti della fiducia devono consolidarsi; l’incertezza sull’esito delle trattative sul programma di aggiustamento del governo greco resta elevata e può indurre
volatilità nelle condizioni finanziarie”.
Ma “questo scenario è reso possibile dal pieno dispiegarsi degli effetti del programma di acquisto di
titoli dell’Eurosistema”. Ossia dalla Bce, che con il suo QE ha rivitalizzato innanzitutto i mercati finanziari e valutari, incoraggiando la propensione al rischio e svalutando l’euro quel tanto che si spera basti per dare ossigeno alle esportazioni, ossia la voce principale che sostiene la crescita del nostro prodotto.
Le misure interne, infatti, dal credito d’imposta per i dipendenti agli sgravi Irap, “fornirebbero un contributo positivo di circa un terzo di punto percentuale alla crescita del prodotto nel biennio 2015-16”.
Se si nota che il grosso del nostro sviluppo dipenderà come pare dal contesto internazionale, si può apprezzare compiutamente il senso della scommessa del governo.
Ancor di più se si nota come il DEF, per il triennio 2017-2019 preveda un’espansione ancora più robusta, ma sempre basandosi sull’ipotesi che permangano “condizioni estremamente favorevoli sui mercati finanziari e l’ipotesi di quotazioni del greggio stabili, ai livelli minimi osservati negli ultimi mesi”.
Tutte variabili al di fuori del nostro controllo.
Da parte nostra, nota Signorini, dovremmo provvedere ad attuare le riforme – i politici – e riprendere a consumare e a investire, le famiglie e le imprese. Circostanze alquanto aleatorie.
E poi c’è la questione della finanza pubblica. E’ stato fatto qualche progresso nel contenimento della spesa, osserva Signorini, ma lungi dall’essere sufficiente. E il grosso del miglioramento dei nostri conti pubblici si deve sostanzialmente al calo della spesa per interessi, (variabile ancora una volta fuori dal controllo del governo) diminuita di o,3 punti di Pil, che però è stata compensata da un minore avanzo primario dello 0,2%.
E anche il rispetto delle regole europee sul deficit e sul debito è appesa all’andamento di quest’anno e del prossimo, quando le regole verranno violate, e siamo ancora in attesa di sapere cose ne dirà la Commissione europea.
Noto, grazie a Signorini, che l’introito previsto dal governo per le privatizzazioni, altro sacro graal governativo insieme con le spendig review e le riforme, è stato rivisto al ribasso, dallo 0,7 per cento del Pil ogni anno per i prossimi tre del DEF scorso, allo 0,4% del DEf attuale fra il 2015 e il 2018. Ma, nota il banchiere, bisogna spingere sul pedale dell’attuazione, esattamente come occorebbe fare per le riforme.
Insomma: siamo infilati in una scommessa che si gioca, letteralmente sulla fiducia. Questo capisco. E le persone ragionevoli che guardano ai numeri coltivano ampi dubbi circa l’esito di tale scommessa.
Ma d’altronde, come dicevo prima, il Def è un documento politico, roba per gente con parecchio pelo sullo stomaco e senza peli sulla lingua, non certo roba da signorine.
Tantomeno da Signorini.
Si allarga lo spread fra governo e Bankitalia
Una cosa l’ho capita, leggendo la lunga audizione del vice direttore della Banca d’Italia, Luigi Signorini, in Senato sulla legge di stabilità del 29 ottobre scorso. Ho capito che il governo ha fatto una rischiosa scommessa al ribasso sullo spread da qui al 2016. E che da questa scommessa dipende lo stato di salute della nostra finanza pubblica, visto che tutti i conti tornano solo se questa scommessa verrà azzeccata.
Avere la conferma da una fonte così autorevole di una circostanza che mi era già parsa singolare, mi ha fatto capire un’altra cosa: lo spread determinerà il nostro futuro, con tutto ciò che sussume. Vale a dire la dipendenza della nostra politica fiscale dagli umori dei mercati finanziari e dal contesto internazionale.
Che poi è un altro modo per dire che l’ammontare del nostro debito pubblico, per la montagna di interessi che genera e la dipendenza dall’esteroo che provoca, è un’ipoteca sempre più pesante sul nostro futuro.
Faccio un passo indietro.
A un certo punto della sua lunga audizione, Signorini ricorda che nella Nota di aggiornamento al DEF che il governo ha presentato a settembre “le proiezioni a medio termine sono basate anche sull’ipotesi di una significativa discesa del differenziale di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, che passerebbe, sulla scadenza decennale, dagli attuali 245 punti base a 150 nel 2015 e a 100 nel 2016-17”.
Senonché, sottolinea, “attualmente le previsioni dei mercati sono meno favorevoli”.
E come se non bastasse, “l’evoluzione futura dei rendimenti presenta ampi margini d’incertezza, risentendo dell’andamento dei mercati finanziari, dell’evoluzione dell’assetto istituzionale europeo e del quadro interno nel nostro Paese”.
Dulcis in fundo, sottolinea Signorini, “secondo le nostre valutazioni, la riduzione dello spread ipotizzata contribuirebbe a una maggior crescita di 3-4 decimi di punto percentuale l’anno”.
Ricapitolo.
Da una parte la Banca d’Italia osserva che le previsioni dei mercati sull’andamento dello spread sono meno favorevoli di quelle ipotizzate dal governo. Dall’altra che l’andamento di tale variabile solo in parte è conseguenza di quello che faremo come sistema Paese, mentre in gran parte dipende dal resto del mondo. E infine nota come fallire la scommessa dei ribassi previsti dal governo porti con sé conseguenze sul Pil nell’ordine dello 0,3-4% in termini di prodotto.
Ricordo che il DEF portava con sé la previsione di un Pil a +1,7% nel 2015 (spread a 150), a +1,8 nel 2016 e a +1,9% nel 2017 (spread a 100 punti). Le previsioni di Bankitalia portate in audizione non arrivano così lontano. Però è chiaro che si discostano da quelle del governo. Basta notare che la crescita prevista dal DEF per il 2014 è dell’1%, mentre Bankitalia si ferma a un +0,7%. E siccome il DEF si regge, oltre che sulla scomessa sullo spread anche su quella della crescita prevista, capite bene quanto sia caracollante il futuro che ci aspetta.
Ancora più interessante è leggere una nota in corsivo contenuta nell’audizione: “La Nota di aggiornamento non fornisce informazioni sul metodo di stima dei tassi d’interesse utilizzato nelle previsioni. L’andamento previsto per la spesa per interessi suggerisce che vi sia stato un cambiamento rispetto alla metodologia adottata negli ultimi documenti di programmazione, che utilizzava i tassi impliciti nella curva dei rendimenti per l’Italia”.
Non fatevi scoraggiare dal tecnicismo. Il senso è molto chiaro: il governo ha cambiato metodo di calcolo per ipotizzare l’andamento della spesa per interessi, e di conseguenza l’andamento del nostro saldo primario con tutte le conseguenza che ciò comporta su quello del deficit, sostituendo quello usato finora con uno assolutamente arbitrario.
Una scommessa, appunto.
Tanto è vero che, sottolinea, “le prospettive di una ripresa solida e duratura sono legate al realizzarsi di favorevoli condizioni interne e internazionali”.
Teniamo incrociate le dita. Perché vincere tale scommessa determinerà se davvero raggiungeremo il pareggio di bilancio nel 2015 (che dovevamo raggiungere a fine 2013), se non avremo bisogno di ulteriori manovre correttive, se, per farla semplice, riusciremo a mantenere i conti pubblici sotto controllo, a cominciare dal nostro livello di debito che, nota Signorini, nella Nota viene quotato, per il 2013, al 132,9% del Pil “livello superiore di quasi 12 punti rispetto al picco toccato a metà degli anni ’90“.
Vale la pena rilevare, a tal proposito, che in due anni il debito/pil è aumentato del 12,2%, del 7,7% se si escludono le somme versate per il sostegno dei paesi europei in difficoltà e l’effetto del pagamento dei debiti commerciali. Se non ci fosse stata la recessione che ha consumato l’Italia dal 2011 in poi, “si può valutare che il rapporto debito/pil sarebbe stato costante”, sempre al netto degli aiuti e del pagamento dei debiti commerciali.
Vuol dire, in pratica, che il nostro debito è inchiodato sostanzialmente da vent’anni.
Nel frattempo però la nostra pressione fiscale, calcolata come percentuale delle entrate totali delle amministrazioni pubbliche sul Pil, è arrivata al massimo storico, nel 2012, del 48,2% (era il 44,7 nel 2003).
Per capire dove siano finiti questi soldi, basta notare che la spesa per le amministrazioni pubbliche è passata dal 48,4% del Pil del 2003 al 51,2% del 2012. A tale andamento ha contribuito principalmente la spesa corrente (dal 44% al 48,1), è aumentata la spesa per interessi (compresa nella spesa corrente), dal 5,1 al 5,5%, mentre quella in conto capitale, quindi gli investimenti, è scesa dal 4,3 al 3,1%.
Vale la pena notare che l’incremento più rilevante della spesa corrente è stata quella per pensioni, passata dal 15,1% del Pil al 17,4%, malgrado le numerose riforme previdenziali.
Stando così le cose, capirete bene perché la scommessa del governo diventa rilevante. E anche perché Bankitalia si preoccupi di metterla in evidenza, ripetendo più volte che sarà necessario uno stretto controllo della spesa, che bisogna fare le riforme, e tutte le solite cose che sappiamo.
SIcché alla fine della lettura mi è sorto un sospetto.
Lo spread sul bund magari si restringerà.
Ma intanto si sta allargando quello fra il governo e Bankitalia.