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La scommessa del Giappone diventa pericolosa
Sono pressoché sicuro, pur non avendolo mai visto, che Haruhiko Kuroda, da bravo giapponese, nonché massima autorità della banca centrale, sia una persona totalmente ammodo, titolare di una faccia che ispira immediata fiducia e di una postura impeccabile, come impone il bushido dei governatori.
Perciò ho preso l’abitudine di leggermi i suoi sempre istruttivi resoconti, avendo maturato con l’età una certa attitudine lombrosiana che mi spinge a fidarmi a scatola chiusa di personcine siffatte. Tanto più quando governano la moneta in un paese che ormai è un’autorità riconosciuta in tema di deflazione, debito pubblico enorme e crescita risicata, ossia il paradigma vivente della Grande Stagnazione che molti preconizzano sarà il destino dell’Occidente, pure se il Giappone lo vive da Oriente.
Ma questo non vuole dire. L’Oriente in fondo non è altro che estremo Occidente. La recessione patrimoniale che ha colpito il Giappone a fine anni ’80 e che ancora trascina i suoi effetti quasi trent’anni dopo è un ottimo viatico per fare i conti con la nostra storia. E quindi osservare le vicissitudini giapponesi è insieme un monito e un’opportunità per capire quello che potrebbe attenderci.
Da questo punto di vista il QQE, che sta per quantitative e qualitative easing, al di là della tecnicalità che ormai conosciamo già lo si potrebbe rappresentare come l’estremo della politica monetaria e un’enorme scommessa: il governo giapponese, e con lui la banca centrale, che dal governo sarà pure indipendente ma che certo non soffre di sordità, sta scommettendo sull’inflazione. Il che è perfettamente logico, atteso che ha patito vent’anni di deflazione.
Tutta la straordinaria fatica che la banca centrale giapponese sta consumando per acquistare titoli pubblici di qualunque scadenza, svalutare lo yen, approfondire i rendimenti negativi impliciti, altro scopo non ha oltre a quello di portare il tasso di inflazione alla magica soglia del 2%, che prima o poi cercheremo di capire perché debba essere proprio il 2%.
L’inflazione è il sacro Graal delle politiche monetarie giapponesi, e giocoforza anche di quelle economiche e fiscali. Poter contare su un’inflazione costante del 2% significa abbattere il debito pubblico, visto che i tassi già nulli diventanno negativi. Vuol dire far aumentare il Pil nominale, e quindi migliorare la sostenibilità del debito pubblico. Vuol dire spingere i consumi, visto che la gente sarà più disposta a spendere, una volta che sarà uscita dalla trappola della deflazione che spinge a rimandare gli acquisti. vuol dire, quindi, rilanciare gli investimenti, perché le imprese saranno più incoraggiate a indebitarsi (e con loro le famiglie) per soddisfare tale domanda se i tassi saranno negativi e le prospettive di domanda migliori.
Tutto questo con un semplice numeretto magico: l’inflazione del 2%. Capite bene perché anche i nostri banchieri centrali, per tacere di quelli americani, stiano facendo del loro meglio per far salire i prezzi.
Bene, il senso di questa scommessa, che promette miracoli, porta con sé anche diversi rischi che Kuroda, da brava persona quale sicuramente è, non sottovaluta e che ha illustrato a New York lo scorso 8 ottobre parlando all’Economic club.
Già. Il pericolo fondamentalmente è uno: che la scommessa non venga vinta. Cosa succederebbe all’economia giapponese se l’inflazione rimanesse ferma?
Kuroda non vuole neanche pensarci. E anzi, in conclusione del suo intervento, sottolinea che “la banca raggiungerà il suo obiettivo della stabilità dei prezzi con il target del 2%” e che “l’economia giapponese raggiungerà un più alto tasso di crescita potenziale”.
Poi però si sveglia.
E fuori dalle fideistiche aspettative c’è un tasso di crescita potenziale che lo stesso Kuroda riconosce essere al momento dello 0,5%, a fronte del 2% di fine anni ’90. C’è una popolazione anziana, e quindi vocata naturalmente alla tesaurizzazione. C’è un costume nazionale forgiato da un ventennio di deflazione che fatica ad accettare i rischi che la vertigine del turbocapitalismo regala ai suoi adepti, pure sotto forma di un prestito. In più con un mercato del lavoro dove la disoccupazione è appena al 3,5%, ai confini di quella fisiologica.
Non credo che esista rappresentazione migliore di una società stagnante.
E tuttavia la droga monetaria del BoJ sta smuovendo le acque. Gli indicatori sono tutti in crescita, e persino l’inflazione si è risvegliata. I tassi a lunga sui bond governativi stanno allo 0,5-0,6%, quelli dei prestiti commerciali al minimo storico dello 0,8% e le aspettative dell’inflazione sono schizzate all’1,6%. E che dire del Pil? Nel primo trimestre del 2014 il prodotto è cresciuto del 6%.
Poi però si è svegliato anche lui.
La campanella è suonata quando sono entrati in vigore i nuovi aumenti di tasse sui beni di consumo. Sicché il secondo quarto il Pil è sceso del 7,1% annualizzato rispetto allo stesso trimestre dell’anno scorso. Una reazione alquanto nervosa per un paese di anziani, che però Kuroda definisce come ampiamente previsto e che comunque ha lasciato al crescita annualizzata del primmo semestre alll’1%, che non sarà granché, ma che è sempre meglio di quello 0,5% del Pil potenziale. Insomma: tutta questa fatica per mezzo punto di Pil? Se vi sembra poco è perché ignorate il tormento che provoca a banchieri ed economisti l’idea della Grande Stagnazione. Dovranno rifare tutti i modelli matematici, quantomeno.
Ma quello che preoccupa è altro: se basta un piccolo aumento di tasse per far sprofondare il Pil, cosa succederebbe se arrivasse uno scossone come nel 2008?
Kuroda, come ho già detto, neanche vuole pensarci. Si limita ad osservare che, escludendo l’aumento delle tasse, il tasso CPI anno su anno, nell’aprile scorso si aggirava intorno all1,1%, a fronte del -0,4% dell’aprile scorso. Ma soprattutto sono migliorate le aspettative, spinte anche da alcuni aumenti salariali concessi ai lavoratori e dal deprezzamento dello yen. La qualcosa fa ipotizzare che il target del 2% di inflazione verrà raggiunto entro l’anno fiscale 2015.
Il problema però è che dovrà anche essere mantenuto, e pure a lungo, dovendo fare prima o poi i conti con le rigidità strutturali di cui soffre il Giappone. Ed è qui che il gioco si fa pericoloso.
Più di quanto non lo sia già adesso.
Si allarga lo spread fra governo e Bankitalia
Una cosa l’ho capita, leggendo la lunga audizione del vice direttore della Banca d’Italia, Luigi Signorini, in Senato sulla legge di stabilità del 29 ottobre scorso. Ho capito che il governo ha fatto una rischiosa scommessa al ribasso sullo spread da qui al 2016. E che da questa scommessa dipende lo stato di salute della nostra finanza pubblica, visto che tutti i conti tornano solo se questa scommessa verrà azzeccata.
Avere la conferma da una fonte così autorevole di una circostanza che mi era già parsa singolare, mi ha fatto capire un’altra cosa: lo spread determinerà il nostro futuro, con tutto ciò che sussume. Vale a dire la dipendenza della nostra politica fiscale dagli umori dei mercati finanziari e dal contesto internazionale.
Che poi è un altro modo per dire che l’ammontare del nostro debito pubblico, per la montagna di interessi che genera e la dipendenza dall’esteroo che provoca, è un’ipoteca sempre più pesante sul nostro futuro.
Faccio un passo indietro.
A un certo punto della sua lunga audizione, Signorini ricorda che nella Nota di aggiornamento al DEF che il governo ha presentato a settembre “le proiezioni a medio termine sono basate anche sull’ipotesi di una significativa discesa del differenziale di rendimento tra i titoli di stato italiani e quelli tedeschi, che passerebbe, sulla scadenza decennale, dagli attuali 245 punti base a 150 nel 2015 e a 100 nel 2016-17”.
Senonché, sottolinea, “attualmente le previsioni dei mercati sono meno favorevoli”.
E come se non bastasse, “l’evoluzione futura dei rendimenti presenta ampi margini d’incertezza, risentendo dell’andamento dei mercati finanziari, dell’evoluzione dell’assetto istituzionale europeo e del quadro interno nel nostro Paese”.
Dulcis in fundo, sottolinea Signorini, “secondo le nostre valutazioni, la riduzione dello spread ipotizzata contribuirebbe a una maggior crescita di 3-4 decimi di punto percentuale l’anno”.
Ricapitolo.
Da una parte la Banca d’Italia osserva che le previsioni dei mercati sull’andamento dello spread sono meno favorevoli di quelle ipotizzate dal governo. Dall’altra che l’andamento di tale variabile solo in parte è conseguenza di quello che faremo come sistema Paese, mentre in gran parte dipende dal resto del mondo. E infine nota come fallire la scommessa dei ribassi previsti dal governo porti con sé conseguenze sul Pil nell’ordine dello 0,3-4% in termini di prodotto.
Ricordo che il DEF portava con sé la previsione di un Pil a +1,7% nel 2015 (spread a 150), a +1,8 nel 2016 e a +1,9% nel 2017 (spread a 100 punti). Le previsioni di Bankitalia portate in audizione non arrivano così lontano. Però è chiaro che si discostano da quelle del governo. Basta notare che la crescita prevista dal DEF per il 2014 è dell’1%, mentre Bankitalia si ferma a un +0,7%. E siccome il DEF si regge, oltre che sulla scomessa sullo spread anche su quella della crescita prevista, capite bene quanto sia caracollante il futuro che ci aspetta.
Ancora più interessante è leggere una nota in corsivo contenuta nell’audizione: “La Nota di aggiornamento non fornisce informazioni sul metodo di stima dei tassi d’interesse utilizzato nelle previsioni. L’andamento previsto per la spesa per interessi suggerisce che vi sia stato un cambiamento rispetto alla metodologia adottata negli ultimi documenti di programmazione, che utilizzava i tassi impliciti nella curva dei rendimenti per l’Italia”.
Non fatevi scoraggiare dal tecnicismo. Il senso è molto chiaro: il governo ha cambiato metodo di calcolo per ipotizzare l’andamento della spesa per interessi, e di conseguenza l’andamento del nostro saldo primario con tutte le conseguenza che ciò comporta su quello del deficit, sostituendo quello usato finora con uno assolutamente arbitrario.
Una scommessa, appunto.
Tanto è vero che, sottolinea, “le prospettive di una ripresa solida e duratura sono legate al realizzarsi di favorevoli condizioni interne e internazionali”.
Teniamo incrociate le dita. Perché vincere tale scommessa determinerà se davvero raggiungeremo il pareggio di bilancio nel 2015 (che dovevamo raggiungere a fine 2013), se non avremo bisogno di ulteriori manovre correttive, se, per farla semplice, riusciremo a mantenere i conti pubblici sotto controllo, a cominciare dal nostro livello di debito che, nota Signorini, nella Nota viene quotato, per il 2013, al 132,9% del Pil “livello superiore di quasi 12 punti rispetto al picco toccato a metà degli anni ’90“.
Vale la pena rilevare, a tal proposito, che in due anni il debito/pil è aumentato del 12,2%, del 7,7% se si escludono le somme versate per il sostegno dei paesi europei in difficoltà e l’effetto del pagamento dei debiti commerciali. Se non ci fosse stata la recessione che ha consumato l’Italia dal 2011 in poi, “si può valutare che il rapporto debito/pil sarebbe stato costante”, sempre al netto degli aiuti e del pagamento dei debiti commerciali.
Vuol dire, in pratica, che il nostro debito è inchiodato sostanzialmente da vent’anni.
Nel frattempo però la nostra pressione fiscale, calcolata come percentuale delle entrate totali delle amministrazioni pubbliche sul Pil, è arrivata al massimo storico, nel 2012, del 48,2% (era il 44,7 nel 2003).
Per capire dove siano finiti questi soldi, basta notare che la spesa per le amministrazioni pubbliche è passata dal 48,4% del Pil del 2003 al 51,2% del 2012. A tale andamento ha contribuito principalmente la spesa corrente (dal 44% al 48,1), è aumentata la spesa per interessi (compresa nella spesa corrente), dal 5,1 al 5,5%, mentre quella in conto capitale, quindi gli investimenti, è scesa dal 4,3 al 3,1%.
Vale la pena notare che l’incremento più rilevante della spesa corrente è stata quella per pensioni, passata dal 15,1% del Pil al 17,4%, malgrado le numerose riforme previdenziali.
Stando così le cose, capirete bene perché la scommessa del governo diventa rilevante. E anche perché Bankitalia si preoccupi di metterla in evidenza, ripetendo più volte che sarà necessario uno stretto controllo della spesa, che bisogna fare le riforme, e tutte le solite cose che sappiamo.
SIcché alla fine della lettura mi è sorto un sospetto.
Lo spread sul bund magari si restringerà.
Ma intanto si sta allargando quello fra il governo e Bankitalia.