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La crisi del debito che cova a Pechino

C’è una montagna di debito nascosta fra i bilanci cinesi che, sebbene finora sia stata appannaggio di pochi consessi internazionali, inizia ad emergere dalle cronache di questi mesi tormentati.

Di recente se ne sono occupati l’Ocse e il Fondo monetario internazionale, ma la grande stampa se n’è accorta solo pochi giorni fa, quando il Financial times ha pubblicato un articolo con le dichiarazioni allarmanti di un pezzo grosso della società di revisione contabile cinese Shine Wing, Zhang Ke, secondo il quale “il debito delle autorità locali cinesi è fuori controllo”. “Una crisi è possibile – ha aggiunto – ma non si ha ancora certezza sui tempi”.

Per dare un’idea dell’ordine di grandezza del problema, basti considerare che non è nemmeno chiaro di che cifra si stia parlando. Le stime parlano di debiti che oscillano fra fra i 1.600 miliardi e i 3.200 miliardi di dollari, ossia fra il 20 e il 40% del Pil cinese. Quasi al livello dei 3,4 trilioni di dollari di riserve del gigante asiatico.

La montagna ha iniziato ad accumularsi nel 2008, quando Pechino varò un imponente piano di stimolo per frenare il crollo seguito alla crisi subprime americana. I governi locali iniziarono ad emettere bond per finanziare opere pubbliche finiti nei bilanci delle banche cinesi, fuori perciò dal computo del debito pubblico ufficiale. Per farlo, poiché i governi locali non possono essere emittenti di debito, usarono speciali veicoli di investimento.

Ma la montagna c’è e inizia a preoccupare gli analisti. Tanto è vero che ai primi di aprile, per la prima volta dal 1999, l’outlook sul rating della Cina è stato declassato da positivo a stabile da Fitch. Forse perché, ancora nel primo trimestre di quest’anno, questi speciali veicoli avevano già emesso 283 miliardi di yuan di debito, più del doppio dello stesso periodo del 2012.

E la circostanza che tale montagna di debiti continui a crescere nel momento in cui il Pil cinese mostra segni di rallentamento spaventa non poco i finanzieri. E le banche cinesi in particolare, visto che “quando il momento arriverà – ha detto Zhang – non sarà il governo a doversi far carico di questi debiti, ma chi li ha emessi e le banche”. Che però sono pubbliche. Il film già visto per l’eurozona e gli Usa rischia di andare in seconda visione in Asia.

“La Cina ha più di 2.800 governi locali – ha concluso Zhang -. Se ognuno di loro ha emesso debito ne potrebbe venir fuori una crisi più grande di quella partita dagli Stati Uniti con i mutui subprime”.

Al tema dell’esplosisione dei prestiti bancari in Cina pochi giorni fa il Fondo monetario ha dedicato un approfondimento dove leggiamo che tali prestiti sono cresciuti a doppia cifra negli ultimi anni. Dalla già stratosferica quota del 130% del Pil si è arrivati al 172%. E, notate bene, malgrado la questione dei prestiti concessi ai veicoli speciali degli enti locali, viene fuori che è il settore corporate quello più esposto.

Il debito privato, ancora una volta, rischia di fare strame del bilancio pubblico. Basti considerare che alcune società cinesi hanno un livello di asset comprati a debito che supera l’80%, quando la quota prudenziale, secondo gli standard del Fmi, non dovrebbe superare il 30%. Con l’aggravante che i profitti delle compagnie non riescono più a tenere il passo dell’aumento dell’incidenza degli interessi sui debiti. La crisi finanziaria, insomma, è dietro l’angolo.

A fronte di questo sconquasso potenziale, che è insieme bancario e aziendale, e che potrebbe avere ripercussioni globali devastanti, il bilancio pubblico cinese mostra un aspetto rassicurante.

Nell’ultimo fiscal monitor del Fondo monetario leggiamo che il deficit cinese è previsto in calo dal -2,1% del 2013 al -1,8% del 2014, mentre il debito pubblico, dopo il picco raggiunto nel 2010, quando arrivò al 33,5% del Pil, scenderà al 21,3% nel 2013 e al 20% nel 2014.

Insomma, pare di capire che la contabilità pubblica cinese sia abbastanza capiente da sopportare una crisi debitoria della portata che abbiamo detto. Ma chi segue le cronache dell’eurozona ricorderà che la Spagna, prima della crisi bancaria, aveva un debito Pil intorno al 60%.

E questo non è bastato.

Il silenzioso tramonto di Cindia

I segnali si vedono, chiari e forti, ma non se ne parla, come se la grancassa suonata in tutti questi anni abbia provocato una forma di pudicizia negli osservatori, che oggi voltano lo sguardo di fronte alla luce del tramonto dei due giganti d’Oriente, ossia Cina e India.

Eppure il destino di Cindia dovrebbe riguardarci, visto che sulla magnifiche sorti progressive del sub continente e della terra di mezzo i paesi ricchi hanno investito massicce dosi di ottimismo. O forse è proprio per questo che oggi, schiacciato dalla crisi e spaventato dal futuro, l’uomo d’occidente diventa pudico e guarda altrove.

Vediamoli questi segnali, dunque.

L’ultimo in ordine d’arrivo è l’analisi del Composite leading indicator point elaborato dall’Ocse, ossia l’indice che misura e anticipa il momento di ripartenza (o di stasi) di un’economia. L’indice parte da una base 100, superata la quale inizia la stagione di crescita. 

Gli unici paesi che nel 2012 hanno superato questa linea sono stati il Giappone, la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ossia quelli che stanno sperimentando notevoli allentamenti monetari. Il campione d’europa, ossia la Germania, ha registrato una crescita costante dell’indice, che quotava 98,7 nel settemebre 2012 e agennaio 2013 era già a 99,6, ma non sta ancora in ripresa. Persino l’Italia è migliorata, da 99 a 99,3, mentre la Francia è stabile a 99,5. Dati che fanno concludere all’Ocse che questi paesi sono alle prese con una ripresa già iniziata o in via di partenza, per la gioia di tutti.

Il discorso cambia quando andiamo a vedere i risultati dell’indice per India e Cina. L’indice per l’India quotava 98 a settembre 2012 e adesso è scivolato a 97,2, e la curva che ne raffigura l’andamento vira con decisione verso il basso. L’Ocse parla di crescita che va giù. Di poco diversa la situazione della Cina che, partita da un indice a 99,5 nel settembre 2012 è scivolata a 99 nel gennaio 2013. Una situazione che l’Ocse definisce di crescita moderata.

Stando così le cose si potrebbe pensare a una congiuntura sfavorevole, ma limitata nel tempo. Perciò ci siamo andati a leggere l’outlook 2013, sempre dell’Ocse, per l’intera regione del Sud Est asiatico pubblicato di recente, dove i tecnici hanno monitorato le economie dell’area con previsioni fino al 2017. Lo scenario che viene fuori non è rassicurante.

Relativamente alla Cina, la stagione della crescita a due cifre, quella fra il 2000 e il 2007 sembra ormai alle spalle. Per il quinquennio 2013-2017 l’Ocse stima un Pil medio intorno all’8%, che se è comunque un grosso risultato rispetto alle anemiche economie occidentali, è un chiaro segnale di rallentamento.

Lo stesso vale per l’India. Fra il 2000 e il 2007 la crescita media è stata del 7,1%. Per i prossimi cinque anni si andrà di poco sopra il 6%.

In comune i due giganti hanno che le previsioni preconizzano un rallentamento della domanda di beni dall’esterno. Ciò vuol dire che tutte le economie dell’area, nella quale Cindia fa la parte del leone, dovranno fare i conti negli anni a venire con un calo dell’export destinato a cambiare il volto delle loro economie export-led.

La crisi d’Occidente, insomma, fa venire meno i consumi e quindi le importazione dall’estero, ed è giocoforza che a pagarne il prezzo più salato siano le economie che sui consumi insaziabili dei paesi ricchi hanno costruito le loro fortune.

L’Ocse prevede infatti che i driver della crescita nell’area del Sud Est asiatico saranno sempre più i consumi interni, e gli investimenti, piuttosto che la domanda di beni dall’esterno.

In particolare, l’Ocse stima che i governi dell’area dovranno sempre più investire sui welfare locali e sulle infrastrutture, da un parte, mentre la crescita di ricchezza garantirà una crescita dei consumi interni, e quindi della importazioni.

Tale cambiamento, che non è esagerato definire epocale, dovrà fare i conti con le enormi disparità che ancora si annidano in questi grandi paesi, dove la crescita della classe media, ormai irrefrenabile, contribuirà sempre più a squilibrare le bilance dei pagamenti, con conseguenze dirette sulla crescita del Pil.

Sempre che i governi riescano a sanare alcune inefficienza strutturali che riguardano la capacità di riscuotere le imposte, il flusso dei capitali esteri e la gestione delle tuttora corposa “dollarizzazione” degli scambi interni, che falsa notevolmente il monitoraggio dell’inflazione.

Su questo scenario grava l’incognita del fuuro dell’America. Se la crescita ripartirà al galoppo negli Usa, anche i paesi asiatici non potranno che giovarsene, ma è evidente che ormai non potranno sottrarsi alla necessità di irrobustire la propria domanda interna per garantirsi lo sviluppo.

Una lezione che Cindia sembra aver compreso.

A differenza di quanto accade in Europa.

I debiti di guerra del XXI secolo

Il debito dei paesi ricchi, che ha iniziato a camminare a metà degli anni ’70, ormai corre. Una corsa che ogni anno deve essere sostenuta da gigantesche emissioni globali di bond sovrani. Almeno 10,9 trilioni di dollari nel 2013 secondo l’Ocse, che al tema dei prestiti agli stati ha dedicato un recentissimo outlook dove, fra le altre cose, è contenuto un grafico che illustra l’andamento del debito pubblico/pil delle economie avanzate dal 1880 ai nostri giorni.

Seguendo questa curva capiamo che la corsa forsennata del debito dura senza sosta ormai da decenni senza che nessuno sappia bene come e quando si riuscirà a tirare il fiato. Agli albori del XXI° secolo sembra ci sia un arretramento, ma è solo una rincorsa. Dal 2001 la curva s’impenna vertiginosamente, diventa ripidissima e sale verso quota 80%. Ancora una breve flessione, a metà del primo decennio, e poi, dal 2007 un’impennata ancora più ripida, irreferenabile. Nel 2012 la vetta è praticamente raggiunta.

I paesi ricchi sono riusciti a tornare dov’erano alla fine della seconda guerra mondiale: al 120% del debito sul pil.

All’epoca il deleveraging fu rapido e traumatico, lo si vede chiaramente osservando la curva. L’iperinflazione post bellica riportò la curva del debito/pil dal 120% al 40% in pochissimi anni. Dai primi anni ’50, la curva del debito scende ulteriormente, arrivando a poco più del 20% nei primi anni ’60, l’epoca del boom. Un po’ come accade oggi alle economie emergenti.

Nel decennio successivo la curva del debito torna a salire, tocca un picco vicino al 40% e poi si riabbassa. Gli shock petroliferi e l’inflazione che ne seguì consentono agli stati di pagare le prime cambiali siglate per garantirsi la pace sociale promuovendo il welfare.

Ma la nostra guerra, quella che oggi ci presenta il conto, comincia da lì in poi.

E che sia una guerra, combattuta con le armi della politica, dell’opinione pubblica, dell’economia, ormai è noto a tutti. Il fatto stesso che gli stati debbano cercare ogni anno oltre 10.000 miliardi di dollari per saziare la propria fame di debito ne è la conferma. In una situazione di risorse scarse, o comunque non illimitate, la lotta per la sostenibilità dei bilanci pubblici è di per sé una lotta per la sopravvivenza. Specie quando riguarda stati ricchi, abituati a vivere da decenni ben al di sopra delle proprie possibilità, con opinioni pubbliche molto civili e altrettanto viziate.

L’outlook Ocse esamina anche le diverse strategie messe in campo dagli Stati per assorbire questo debito monstre. Dedica ampio spazio alla crisi dell’euro, e rivela alcune curiosità come quella che la Fed, solo nel 2011, ha comprato oltre il 60% del debito emesso dal Tesoro Usa. Un po’ come faceva l’Italia prima del divorzio con la Banca d’Italia del 1981.

Ma anche i bilanci delle banche centrali hanno un limite. A parte la Fed, il cui bilancio è sostanzialmente quadruplicato dal 2008 al 2012 proprio per sostenere la fame di debito del Tesoro, anche le banche centrali non americane hanno visto crescere le proprie riserve di titoli di debito Usa. Nel 2007 detenevano poco più del 15% dei Treasury in circolazione, nel 2012 avevano superato abbondantemenre il 40%.

Questo per dire che far rallentare la corsa del debito non sarà facile, né indolore. La storia ci mostra con chiarezza che a picchi elevati di indebitamento sono seguiti rapidi crolli, con tutto il loro portato di depressione e caos economico. E’ successo dopo la prima guerra mondiale. E’ successo dopo la sbornia dei ruggenti anni venti con la crisi del ’29. E’ successo con ancora maggiore evidenza dopo il 1945. E potrebbe succedere anche per i debiti della guerra per il benessere, combattuta nell’ultimo quarto del XX secolo per transitare le società occidentali dal warfare al welfare.

Finita una guerra, può sempre cominciarne un’altra.

L’ottimismo dell’Ocse e il pessimismo della ragione

L’Ocse ha rilasciato il Composite leading indicator, uno strumento di analisi che serve a individuare i punti di svolta delle economia dell’area e a monitorarne i trend. Si tratta di una delle tante palle di vetro che gli analisti costruiscono per provare a scrutare nel futuro, ma in pratica valgono più per l’oggi che per il domani. Quantomeno sono utili indagini di clima. E il clima secondo l’Ocse non volge più al brutto. Ma neanche al bello però.

La schiarita in realtà non è uniforme. Se l’intera area Ocse, nel suo complesso, sembra fuori dal tunnel della grande crisi (l’indice è tornato sopra i 100 punti e sembra orientato al rialzo), rimangono profonde differenze fra le singole regioni, mentre sembrano ancora incagliati i paesi emergenti, specie la Cina.

Se guardiamo ai grafici dell’indicatore notiamo subito la grande differenza fra l’area euro, che sta faticosamente stabilizzandosi (peraltro a un livello di indicatore ben più basso di quello ante-crisi), e gli Stati Uniti. Questi ultimi, sebbene ancora non abbiano raggiunto livelli pre-crisi, mostrano un trend di deciso rialzo e lo stesso accade per la Gran Bretagna. Ma sono gli unici portatori di buone notizie.

In Giappone l’indice mostra una curva quasi piatta, orientata debolmente verso la crescita, proprio come accade in Brasile. Mentre la Cina addirittura mostra un andamento della crescita sotto il trend (indice sotto 100 in calo dal 2010). In Europa la Germania e l’Italia mostrano segni di stabilizzazione, ma anche in questo caso ben al di sotto dei livelli di appena due anni fa (indice ancora sotto 100). In Francia va addirittura peggio: l’andamento della crescita è previsto debole, esattamente come accade per il Canada (curva dell’indice sotto 100 orientata verso il basso).

Se si guarda per macro-aree, le cinque maggiori economie asiatiche sono orientate verso una crescita debole, a differenza dei paesi del Nafta, che mostrano una crescita più robusta.

Le altre due grandi speranze dei Bric, ossia Russia e India, mostrano una curva decisamente orientata al ribasso. In India l’indice è sceso sotto 98, in Russia ci si avvicina. Solo il Brasile mostra segni di crescita (ma l’indice è ancora sotto 100).

Stando così le cose il relativo ottimismo dell’Ocse può facilmente lasciare il posto a un solido pessimismo della ragione. L’economia mondiale sembra attaccata più che mai al carro statunitense che, faticosamente, sta cercando di riportarsi al livello del 2007 (quando l’indice quotava quasi 102). Basterà per tirar fuori dalle sabbie mobili il mondo intero?

Questo l’Ocse non lo dice.

Le nuove pensioni, ovvero l’eutanasia del rentier

Ogni tanto mi capita di incontrare un vecchio amico o un ex collega giunto felicemente all’età della pensione. I più fortunati, quelli che godono di buona salute, mente lucida, buone relazioni e una rendita pensionistica decente mi sembrano letteralmente il ritratto della felicità. “Finalmente posso fare quello che mi pare”, è la cosa che gli sento dire più spesso. E il primo pensiero che mi ispira è un benevolo “beato te”, insieme all’augurio di un post-pensionamento più felice e lungo possibile. Il secondo è che quelli come lui appartengono a un genere in via d’estinzione. Ossia coloro che vanno in pensione a un’età in cui non si sia del tutto decrepiti e con una rendita (ad avercela) che non sia di sussistenza.

Tecnicamente il pensionato vive di rendita. Come i rentier di una volta ha accumulato un capitale, frutto del suo lavoro, e lo ha investito in un titolo permanente garantito dallo Stato: il bond previdenziale. Tale investimento produce una rendita che una volta veniva calcolata con un sistema assai vantaggioso per l’investitore (il retributivo) e adesso molto meno (il contributivo). A differenza dei grandi rentier di un tempo, che potevano contare su vasti patrimoni come d’altronde quelli di oggi, il pensionato assomiglia più al piccolo rentier di un secolo fa, quando i sistemi previdenziali erano ancora agli albori, che comprava un titolo permanente a tasso fisso dallo Stato dopo aver faticosamente risparmiato una vita e viveva dell’interesse, potendo contare su un sistema di prezzi alquanto stabile, almeno fino alla prima guerra mondiale, quando tutto crollò.

Il sogno di vivere di rendita, tuttavia, non è mai tramontato. E non è un caso che una delle grandi conquiste del XX secolo sia stata l’estensione di un diritto (campare di rendita, ossia fare quello che ci pare), una volta riservato solo alle élites e ai borghesi più o meno grandi. E poco importa che le pensioni pubbliche fossero una trovata della Germania di  Bismarck per assicurarsi vita natural durante la fedeltà dei dipendenti pubblici. Una volta che le pensioni si estesero in tutti i paesi sviluppati, si è persa persino la memoria del retropensiero quasi reazionario che le aveva originate.

Poi arrivò Keynes che nel suo libro “La Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta” del 1936, sviluppando pensieri già contenuti in uno scritto di dieci anni prima intitolato “Laissez faire and communism”, auspicò l’eutanasia del rentier come rimedio alla scarsità del capitale e quindi al freno dello sviluppo dell’economia. Una volta che i rentier si fossero estinti, per il semplice fatto che non viene reso più conveniente detenere capitale improduttivo, la situazione generale del sistema economico non poteva che giovarsene.

Con la nuova riforma delle pensioni, maturata negli ultimi vent’anni, l’eutanasia del pensionato/rentier è diventato una realtà. Almeno per gran parte dei futuri pensionati, che con molta fatica riusciranno a vivere di rendita con le loro pensioni. Sempre che riescano ad averne una.

Se guardiamo al caso italiano, il bilancio dell’Inps ci dice con chiarezza che l’equilibrio generale della previdenza pubblica viene sostanzialmente garantito dalla gestione positiva del fondo dei lavoratori parasubordinati. Quindi i precari. La normativa invece ci dice che, in media, coloro che andranno in pensione dopo 40 anni di contributi o 66 anni di età, avranno una rendita, agli attuali tassi di sostituzione, pari a circa il 50-60% dell’ultimo stipendio. Questo ad oggi, visto che la normativa prevede revisioni periodiche di tali tassi e un sostanziale allungamento dell’età pensionabile, talché chi oggi si trova nel mezzo della propria vita rischia seriamente di non poter lasciare il lavoro prima dei 70 anni. Peggio ancora va ai più giovani, che a furia di lavori trimestrali una volta sì e una no rischiano di non riuscire mai a raggiungere la quota magica dei 40 anni di contributi e potranno lasciare il lavoro solo per vecchiaia, con una rendita miserrima.

A livello globale la questione non si discosta di molto. Organismi internazionali  come l’Ocse e il Fmi non risparmiano allarmi sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici, complici il basso tasso di natalità e la risicata crescita economica. Lo stesso fanno le banche centrali. Anche perché gli attuari calcolano che da qui al 2040 la speranza di vita dei pensionati si allungherà sino a 88 anni per gli uomini e a 92 anni per le donne. L’eutanasia del pensionato/rentier, di conseguenza, sarà “keynesianamente” vissuta come una dolorosa necessità per garantire la sostenibilità di quei bilanci pubblici cresciuti nei decenni anche in nome di politiche keynesiane. A volta la storia economica coltiva un perfido senso dell’ironia.

Rimane la questione di cosa farne di questa pletora di anziani a mezza pensione da qui a trent’anni. Nel primo dopoguerra, quando l’eutanasia del rentier non era ancora stata ancora teorizzata ma praticata grazie all’iperinflazione, si videro intere masse di popolazione letteralmente alla fame. Dopodiché ci fu un’altra guerra.

Sta a vedere che stavolta al fronte ci andranno le pantere grigie.