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Il futuro dell’Ue si decide (anche) a Basilea

Confuse dal QE di Supermario e più o meno felici per le elezioni greche, le opinioni pubbliche europee hanno molto di cui discutere e altrettanto su cui dividersi. Come puntualmente sta accadendo.

Senonché, mentre il dibattito s’infervora consumando infiniti e inutili fuochi di paglia, solo pochi ricordano che i veri cambiamenti stanno intervenendo nel tessuto connettivo del mercato unico, ossia il mercato finanziario.

L’Europa, dopo aver marciato verso l’unificazione monetaria, adesso si prepara a quella del mercato dei capitali, ulteriore conferma, qualora fosse necessario, che una unità d’intenti politici è nei fatti prima ancora che nel diritto.

Ma non bisogna stupirsi. Gli alfieri di questa integrazione, silente perché procede nei consessi tecnici più esclusivi e nelle aule dei convegni piuttosto che nel dibattito pubblico, sono ben consapevoli che la crisi ha notevolmente affievolito il consenso pubblico verso l’Ue, e sanno altresì che, di conseguenza, i politici, che tale consenso sono chiamati ad interpretare, fanno e faranno sempre maggior fatica a procedere verso una trasparente unione fiscale e poi politica, come postulate dalle massime autorità europee non più tardi di pochi anni fa.

Sanno altresì che non c’è tempo da perdere. Che la fiducia comprata a colpi di QE dalla Bce è volatile, non essendo legata ad alcun dato economico realmente positivo, quanto piuttosto all’euforia. E ciò rende il progetto europeo tanto ambizioso quanto fragile, esposto ai marosi del malumore interno e, soprattutto, delle decisioni esterne, che rischiano di creare non poche avversità al nostro continente.

Ecco quindi che la soluzione va ricercata nei cavilli della regolazione finanziaria. Nel tecnicismo astruso, che assicura, proprio perché volta molto in alto sopra le nostre teste – e figuratevi quanto sopra quelle dei politici – una azione efficace pari a quella di una norma di legge, pure se legge non lo è.

Ne ho piena contezza finendo di leggere uno degli ultimi interventi del governatore della Bundesbank, Jens Weidmann, che risale al 15 gennaio (“An outlook for the year ahead”), prima quindi della decisione della banca centrale svizzera di abbandonare il cambio fisso con l’euro, prima che Draghi armasse il suo bazooka e prima che i greci votassero. Ma questo non conta granché. Perché il discorso di Weidmann è, si può dire, universale.

Ve lo sommarizzo in poche battute perché la notizia sta alla fine.

Il punto, osserva, è che la crisi ha svelato la debolezza del framework istituzionale europeo, dove una politica monetaria centralizzata in un organismo sovranazionale indipendente, la Bce, è stata affiancata a una gestione nazionale delle politiche fiscali.

Affinché tale anomali regga la prova della realtà, ogni stato deve essere responsabile nella tenuta della propria contabilità per evitare di creare problemi all’insieme degli stati e, in ultima analisi, alla moneta unica. E questo spiega bene perché si sia lavorato sul fiscal compact. Il trattato di Maastricht, ricorda poi, non prevede mutualizzazioni dei debiti né trasferimenti fra gli stati dell’Unione, e tantomeno che la Bce compri debito pubblico dagli emittenti. A maggior ragione, perciò, ogni stato deve darsi una regolata e non minare la fiducia con i proprio comportamenti sconsiderati.

Per farvela semplice: l’unione monetaria può funzionare solo che ogni partecipante tiene la casa in ordine. Basta una mela marcia a rovinare il cesto. E purtroppo nell’eurozona si fa prima a contare quelle non marce che quelle sane.

Ciò implica che occorra costantemente persuadere il resto del mondo che l’eurozona è un corpo sano, malgrado tutto. E per riuscirci, osserva Weidmann, non bisogna temere di far fallire uno stato.

Sempre per rassicurare il mercato, osserva, è stata realizzata l’Unione bancaria, che prevede una supervisione e una autorità di risoluzione centralizzata delle banche. E, dulcis in fundo, viene spiegato uno dei principali obiettivi di tale operazione: spezzare il vincolo incestuoso fra debito sovrano e banche residenti, una delle ossessioni più ricorrenti di Weidmann. Perché, dice, “la responsabilità è un elemento centrale del nostro sistema economico”.

E’ o dovrebbe essere, aggiungo io.

“Credo che l’opinione pubblica e i governi siano meno disposti a procedere verso una unione fiscale, visto che questo significherebbe cedere una grande quantità di diritti sovrani nazionali in materia di politica fiscale”, dice Weidmann, e poi cita Kohl, che in un celebre discorso tenuto al Bundestag nel novembre 1991 disse che “l’idea di un’unione economica e monetaria senza un’unione politica è un errore”. Ma solo per dire che lui pensa, al contrario, che una unione monetaria possa funzionare anche senza unione politica. A patto che le regole firmate dagli stati vengano da questi onorate. Pacta sunt servanda, diceva i nostri padri latini. E i tedeschi, pure a costo di rendersi antipatici, non si peritano di ricordarcelo.

Il recente dibattito sulla flessibilità, inoltre, piace poco al nostro banchiere, ” e i commenti della commissione Ue indicano, sfortunatamente, che tali tendenze tenderanno a diventare più forti”. E ciò potrebbe indebolire la fiducia nell’eurozona nel suo complesso.

Al contrario, osserva, il principio della responsabilità nazionale nei confronti del bene sovranazionale dovrebbe essere portato alle sue estreme conseguenze: “Anche ai governi dovrebbe essere consentito di fallire”ripete.

Ed è a questo punto che il pallino del rischio sovrano nelle pancia delle banche diventa coerente col ragionamento. Se le banche smettono di comprare debito sovrano, e la Bce non può comprarlo, le possibilità che uno stato irresponsabile fallisca sono sicuramente maggiori.

Ma tale “miracolo” non accadrà mai finché qualcuno non costringerà le banche a non comprare titoli di stato. E poiché di sicuro i politici non faranno mai questo passo, la soluzione andrà ricercata nella regolazione. Precisamente nell’eliminazione del requisiti preferenziali concessi ai titoli di stato dalle regole di Basilea II, di cui ho più volte scritto in passato.

Ricordo ai meno appassionati che gli stress test della Bce hanno ipotizzato la rimozione graduale dei filtri prudenziali sul debito sovrano, di fatto considerandolo un asset che necessità di capitale per essere detenuto. Quindi il clima è quantomai propizio all’innovazione. E le banche ne sono perfettamente consapevoli.

La novità, che lo stesso Weidmann ci comunica è che il 2015 vedrà progressi in quest’area. “Ho accolto come una buona notizia il fatto che il Comitato di Basilea sulla supervisione bancaria (composto per lo più da governatori di banche centrali), abbia incluso questo problema nel suo programma di lavoro“.

Il futuro dell’Ue passerà di sicuro dalla Commissione, dalla Bce e dai vari parlamenti nazionali.

Ma passa pure per Basilea.

 

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Dal Co.co.co al Co.co.ci: pure il bond diventa precario

Viviamo tempi precari, e questo ormai è chiaro a tutti.

Quello che ancora pochi sanno, invece, è che la precarietà ormai ha invaso anche il mondo degli strumenti finanziari. Quelli che, in teoria, dovrebbero esplicitare chiaramente rendimenti e rischi, sono finiti nella logica del “finché dura”, potendo cambiare il proprio stato giuridico, e quindi il loro livello di rischiosità, al mutare del contesto e delle “contingenze”.

Proprio come un povero co.co.co, che ha un lavoro finché dura, questi strumenti hanno lo stato di bond, sempre finché dura.

Questi aggeggi si chiamano contingent convertible capital instruments.

Dal co.co.co, al co.co.ci.

Non ci saremmo mai occupati di queste astruserie finanziarie, se la Bri, nel suo ultimo Quaterly report, non avesse dedicato loro un corposo articolo pieno di numeri e scenari, spiegando che i co.co.ci, che in gergo finanziario si chiamano cocos, sono le star prossime venture del debito subordinato delle banche.

Il debito subordinato, per chi non lo ricordasse, si compone di strumenti che prevedono la clausola di postergazione, in virtù della quale tale debito (e quindi il credito relativo) è previsto, in caso di liquidazione, venga rimborsato solo dopo quello non subordinato o senior. Da questo punto di vista, il debito subordinato viene in qualche modo equiparato ai mezzi propri della banca, quindi all’equity azionario che, in caso di guai, è l’ultimo ad essere restituito a chi l’ha versato nell’impresa bancaria.

Per capire perché i co.co.ci stiano riscuotendo tanto successo, è necessario ricordare qualche nozione di tecnica bancaria.

Lo so che è noioso. Però se superiamo l’ostacolo della tecnica, ossia del significato, gratta gratta scoviamo la politica, ossia il senso.

Le banche, per funzionare, quindi per fare prestiti, prendono a prestito a loro volta, sostanzialmente emettendo obbligazioni. Le obbligazioni normali hanno la caratteristica di essere titoli liquidi, quindi facilmente vendibili sui mercati secondari, e dotati di un buon livello di sicurezza, visto che si prevede che, in caso di problemi della banca, abbiano la priorità del rimborso rispetto alle azioni. Questo debito, quindi, a livello di garanzie offerte ai sottoscrittori, è sullo stesso livello dei depositi bancari, anche se questi ultimi, fino a un certo ammontare (103.000 euro in Italia) godono anche di una protezione assicurativa.

Il debito subordinato è una sorta di via di mezzo fra il debito senior, raappresentato fra le altre cose dalle obbligazioni senior, e le azioni, ordinarie o privilegiate che siano, che stanno nel fondo della scala dei rimborsi.

Non tutti i debiti subordinati, peraltro, sono uguali fra loro. Si distinguono a seconda del grado di subordinazione, e quindi della rischiosità in esso insito. Né sono uguali le condizioni alle quali vengono onorati tali debiti. Di recente, ad esempio, Mps ha deciso che non pagherà le cedole per una certa classe di titoli subordinati, perché, appunto, si sono verificate le condizioni (contengenze) che davano alla banca il diritto di farlo.

Ora dobbiamo farci due domande: perché le banche usano questi strumenti?

E poi: perché un investitore dovrebbe comprarli?

Rispondere alla prima domanda richiede un altro piccolo passo nel magico mondo delle banche.

Il Comitato di Basilea, nel 1988, scrisse le regole per fissare i requisiti di adeguatezza patrimoniale delle banche. Tali accordi, successivamente ribattezzati Basilea II, prevedono che il patrimonio bancario di vigilanza sia composto da patrimonio di base, Tier 1, che comprende le azioni ordinarie e le riserve di utili non distribuibili, e dal patrimonio supplementare, Tier 2, che comprende una pluralità di strumenti, fra i quali troviamo i nostri debiti subordinati. Per questi ultimi, solitamente non garantiti da asset, il pagamento è subordinato al pagamento prioritario delle obbligazioni senior. L’upgrade di Basilea II, Basilea III, prevede che alcuni Cocos, quelli più rischiosi, possano entrare nell’AT1 (Additional Tier) insieme alle azioni privilegiate.

Da questa definizione risulta chiaro che il vantaggio per le banche nell’emettere prestiti subordinati risieda nel fatto che tali strumenti possano essere computati nel patrimonio di vigilanza. Vi parrà bizzara l’idea che la solidità di una banca sia direttamente proporzionale ai debiti assunti, però è così che va il mondo. Più debiti hai, più stai bene.

Quindi quando leggete sui giornali che le banche hanno aumentato la loro patrimonializzazione, e tirate un sospiro di sollievo, dovreste anche sapere che uno dei modi per aumentare il patrimonio è l’emissione di debiti subordinati, che infatti è esplosa negli ultimi anni.

La Bri calcola che, rispetto ai dodici mesi conclusi metà 2012, le emissioni di debito subordinato sono quasi decuplicate negli Stati Uniti e sono aumentate di 3,5 volte in Europa.

Ma il fatto che sia migliorata la patrimonializzazione delle banche usando strumenti che sono molto più rischiosi per chi li sottoscrive dovrebbe servire a farci sentire meglio o peggio?

Prima di rispondere, ripensate all’altra domanda. Perché qualcuno dovrebbe comprare questa roba?

La risposta è facile: rendono di più.

Per “pagare” all’investitore il rischio della subordinazione la banca deve garantire un rendimento più alto di una normale obbligazione senior, sennò non li comprerebbe nessuno. Lo spread fra un’obbligazone senior e una subordinata può tranquillamente superare i 2-300 punti.

Insomma, finché va bene sono tutti contenti. Le banche rafforzano i loro requisiti patrimoniali, e gli investitori diversificano, dando libero sfogo al loro appetito per il rischio.

Il problema è quando le cose vanno male.

Ed ecco che entrano in campo i nostri co.co.ci.

Prima di spiegare cosa abbiamo di così particolare, diamo un numero: nell’analisi degli economisti della Bri viene calcolato che le emissioni di co.cos dal giugno 2009 al giugno 2013 sia arrivata a circa 70 miliardi di dollari. Poca roba, rispetto alla montagna di strumenti obbligazionari in giro per il mondo, ma dal futuro molto promettente.

Per capire di che cifre parliamo, basta ricordare che nello stesso periodo le banche hanno emesso 550 miliardi di obbligazioni subordinate, e ben 4,1 trilioni di obbligazioni senior non assicurate. Ma negli ultimi due anni le emissioni di co.co.ci si sono impennate. 

Per capire come mai, diamo un’occhiata alle date.

Lo strumento inizia a diffondersi dal giugno 2009, ma è entrato nel vivo nel 2011, quindi in pieno credit crunch. Chi ricorda quegli anni sa bene con quanto difficoltà le banche riscuotessero fiducia (e quindi credito).

Quando ecco d’improvviso arriva il cocos (io preferisco co.co.ci).

Guardacaso, grandi protagoniste di queste emissioni sono le banche europee, in particolare inglesi (20,7 miliardi di dollari), svizzere (15,2), Olandesi (5,7) e irlandesi (4,1).

La particolarità di questo strumento è che, in caso di crisi della banca, il cocos assorbe le perdite e fa diminuire i debiti.

Com’è possibile? Semplice: se scatta (trigger) un particolare campanello d’allarme, il co.co.ci può smettere di essere un’obbligazione e diventa equity, quindi capitale azionario. Di conseguenza la massa debitoria si abbatte (meno obbligazioni, Tier 2), mentre aumenta il capitale proprio (più equity, Tier 1). E in questo modo la banca migliora il proprio patrimonio e può rientrare nei requisiti della Basilea II e III.

Non è una bellissima magia?

Ecco perché ci viene utile la breve premessa tecnica che ho fatto prima. Se non sapessimo cosa si intende per capitale proprio e per requisito patrimoniale, sarebbe impossibile capire come sia possibile che un debito rischioso diventi capitale di una banca, per la gioia dei sottoscrittori, che si trovano invece dell’obbligazione che avevano comprato un pacchetto di azioni che, in caso di crisi, possono anche arrivare a valere zero.

Ma le modalità di “conversione” del co.co.ci sono innumerevoli. I meccanismi di assorbimento delle perdite funzionano allo stesso modo se, anziché convertire il bond in azioni, si svaluta il valore dell’obbligazione, visto che a tale svalutazione corrisponde un aumento del peso dell’equity sul patrimonio.

Un esempio? Il CoCo bond emesso dalla Rabobank nel 2010 potrebbe condurre i sottoscrittori a perdere il 75% del valore facciale dell’obbligazione  in cambio del 25% cash. Un bel risparmio per la banca e una bella perdita per i sottoscrittori.

Il co.co.ci è bello rischioso, per questo paga bene.

Lo studio della Bri mette in evidenza anche questo punto. “I rendimenti offerti dai CoCos tendono ad essere più alti di quelli di altri strumenti dello stesso emittente”. E osserva che finora i compratori sono per lo più investitori privati, mentre gli investitori istituzionali, fondi pensione ad esempio, se ne tengono ancora ben lontani.

Ma la prima ragione del successo di questa diavoleria “è la loro potenziale capacità di soddisfare i requisiti patrimoniali chiesti dai regolatori”.

“Guardando avanti – scrivono i tecnici della Bri – i cocos hanno il potenziale per rafforzare la resilienza del sistema bancario”.

Ma davvero?

Abbandoniamo per un attimo il significato tecnico e guardiamo al senso politico. La fame di rendimenti, che non è mai diminuita malgrado la crisi, spinge alcuni soggetti a comprare questa roba. Dal canto loro le banche sono spinte a  usarla perché così possono caricarsi di più mezzi, e quindi godere di maggiori profitti, senza fare arrabbiare i regolatori. Che poi sono gli stessi che danno alle banche il diritto di usarli, salvo poi lamentarsi che le banche non sono abbastanza capitalizzate e che corrono troppi rischi, che rendono precaria la stabilità del sistema finanziario, eccetera eccetera.

Questo straordinario (e schizofrenico) gioco della parti ci riporta al discorso iniziale.

Viviamo tempi precari.