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L’Occidente è finito nella trappola giapponese


Confesso che mi fa un certo effetto leggere il governatore della banca centrale giapponese definirsi, senza ironia apparente, “una delle persone più qualificate al mondo per parlare di tassi a zero”. Tanto più che la dichiarazione di Kuroda San fa parte di uno speech del 16 gennaio scorso (Japan’s Experience of Overcoming the Zero Lower Bound), che quindi ha preceduto di un paio di settimane la decisione della BoJ di portare alcuni tassi sottozero.

Ma non è questo il fatto interessante. Ciò sui cui Kuroda ci fa riflettere è un altra circostanza. Ossia il fatto che il Giappone si trova nella situazione in cui si trova adesso l’Europa, per non dire il mondo intero, da almeno un ventennio, da quando il crash finanziario e patrimoniale costrinse la banca centrale a farsi carico di quello che oggi si chiamano politiche non convenzionali, ma che all’epoca parvero chissà perché ordinarie.

Kuroda ha il merito di ricordarci che nel 1999 la BoJ introdusse la ZIRP (zero interest rate policy), in virtù della quale il tasso overnight fu condotto “al livello più basso possibile”. E che nel 2001 – udite udite – la BoJ introdusse il suo primo quantitative easing (QE) che spiega bene perché dieci anni dopo o poco più fu presentata ai mercati la sua versione aggiornata, ossia il QQE (quantitative and qualitative easing), proprio mentre il resto del mondo, a cominciare dagli Usa e dall’UK, realizzava il suo QE. Perciò, giustamente, Kuroda rileva che fu “un primo tentativo nella storia monetaria moderna” di usare i saldi della banca invece del tasso a breve come strumento principale della politica monetaria. “Queste misure furono rafforzate dall’impegno della banca a mantenerle finché certe condizioni di inflazioni non fossero state raggiunte. Ciò che ha fatto dell BoJ “una pioniera di quella che oggi è chiamata forward guidance”.

Insomma, il Giappone è stato un chiaro avanguardista, e chissà cos’altro ci riservi in futuro questa patria dell’innovazione.

Infatti, a inizio secolo, si discuteva se il Giappone stesse cadendo in una spirale deflazionaria “come quella sperimentata negli Usa durante la Grande Depressione degli anni ’30”. E tuttavia tali timori “sono stati scongiurati” e una delle ragioni fu che “la banca fornì ampi fondi al mercato finanziario”. Così facendo la banca “evitò uno slowdown economico significativo”. Nei fatti “la lezione imparata allora ha svolto un ruolo nella risposta delle banche centrali alla recente crisi globale”. E tuttavia “queste misure non furono forti abbastanza da mettere fine alla prolungata deflazione e condurci verso una crescita sostenibile”.

Sicché oggi alcuni studiosi indicano che il Giappone è caduto in quella che i manuali chiamano trappola della liquidità. Interessante chiedersi perché. Nell’opinione di Kuroda, ciò avvenne perché lo zero lower bound nominale si combinò con il rallentamento dell’economia che porta con sé un declino del tasso naturale di interesse. “Questi effetti avvennero insieme – spiega – e la banca non fu capace di abbassare i tassi reali a un livello significativamente inferiore al tasso naturale. In altre parole, aveva perso il canale più importante di politica monetaria”.

Il resto è cronaca. Nell’aprile 2013, la BoJ conobbe la sua evoluzione con il QQE, basato sul dichiarato impegno a portare l’inflazione al 2% e sull’acquisto di asset a un livello senza precedenti. “La prima caratteristica è unica in Giappone”, sottolinea, mentre la seconda è ormai comune, pure non al livello implementato dal Giappone. Infatti la base monetaria giapponese, aumentata regolarmente dalla BoJ, è arrivata ormai al 60% del Pil, il doppio o poco più di quanto abbiano fatto Usa e UK.

Dal punto di vista di Kuroda il QQE è stato un successo. “Il trend inflazionistico è migliorato”, dice, adducendo come prova che l’inflazione CPI (consumer price index), escludendo cibi freschi ed energia, è stato positivo per 26 mesi consecutivi, quando l’ultima volta era accaduto alla fine degli anni ’90. I dati riferiti a novembre 2015, sottolinea ancora, parlano di un tasso all’1,2%.

Peccato che, includendo la componente energetica, la storia sia molto diversa. In sostanza la CPI sarebbe di poco sopra a zero. Il tutto, va ricordato, in una situazione del mercato del lavoro vicino alla piena occupazione che sembra invalidare uno dei capisaldi della vulgata mainstream: ossia che la deflazione porti sempre con sé la disoccupazione. Il recente outlook della banca centrale giapponese, conferma questa tendenza, sottolineando che per quanto l’economia mostri di rianimarsi, la ripresa rimane lenta ed esposta a rischi.

Kuroda glissa elegantemente su un’altra conseguenza della sua politica. Il bilancio della banca centrale si è espanso almeno quanto è cresciuto nel frattempo il debito pubblico, che corre verso il 230% del Pil dal 170% del 2007. E tutto ciò non è bastato né a far salire davvero l’inflazione né a far ripartire davvero la crescita.

Ciò nonostante, aggiunge, lo sforzo della banca di raggiungere la stabilità dei prezzi è ancora non sufficiente. Poiché il Giappone è stato in deflazione per 15 anni, “sdradicare la mentalità deflazionaria non è facile”. La trappola della liquidità nella quale il Giappone è finito è vischiosa, come l’acqua di una palude, e pare si curi poco degli espedienti monetari della BoJ.

Ma è la conclusione che è degna di rilievo. “La Bce – osserva – sta portando avanti una politica monetaria molto aggressiva (..) e non è una coincidenza che la Bce e la BoJ stiamo realizzando politiche simili”. Tre settimane dopo anche la BoJ, come la Bce, ha portato in territorio negativo il tasso su parte delle riserve bancarie detenute presso la banca centrale. Che è come dire che le politiche delle due banche sono sempre più simili.

Dal che deduco che il Giappone è ancora bloccato nella sua trappola della liquidità. L’Europa, e il resto dell’Occidente, stanno sperimentando invece la trappola giapponese. E sono solo all’inizio.

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Il bicchiere mezzo pieno (di ketchup) del governatore giapponese


Leggo divertito che quest’anno, per la prima volta da almeno venticinque, il prezzo del ketchup in Giappone è aumentato. Che sarebbe notizia di costume, se non fosse contenuta in un recente speech del governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, a dimostrazione del fatto che i prezzi del Sol Levante, pigri come accade ormai da una generazione, stiano iniziando a stiracchiarsi.

E sarebbe strano il contrario, atteso che il Giappone da un biennio è alle prese con una manovra a dir poco spericolata, il quantitative and qualitative easing, frontiera dell’estremismo monetario di marca nipponica che si propone di risolvere una volta per tutte la stagnazione del Paese, ancora alle prese con i postumi della sbronza di fine anni ’80.

Leggere Kuroda perciò è utile perché ci racconta in breve cosa sia successo in Giappone in questi due anni durante i quali la banca centrale ha spinto come mai nella storia sul pedale dell’allentamento monetario per arrivare finalmente ad avere un’inflazione del 2%.

Nell’anno fiscale 2013 l’azione della BoJ sembrò avesse indirizzato l’economia verso i target auspicati dalla banca centrale. La crescita reale del Pil superò il 2% e l’indice dei prezzi al consumo salì dal +0,5 all’1,5% nell’aprile dell’anno successivo.

Ma fu una fiammata che si spense subito. L’anno fiscale aprile 2014/2015 vide tutti gli indicatori peggiorare. La ragione, secondo Kuroda, fu principalmente il rialzo delle tasse sui consumi il cui impatto, per quanto previsto, fu maggiore di quanto ci si aspettasse, combinandosi con il deciso calo delle quotazioni petrolifere. Ne è risultato una diminuzione della domanda interna, specie dei beni durevoli, che ha provocato un calo del Pil dello 0,9% rispetto all’anno precedente e il sostanziale azzeramento dell’inflazione.

Tuttavia il buon Kuroda non ha perso il suo ottimismo, anzi. La sua analisi parte dal presupposto che i due fattori che hanno determinato l’arretramento dell’ultimo anno, il rialzo delle tasse e il ribasso del petrolio, sono temporanei, mentre i fattori che dovrebbero condurre al mutamento di clima dell’economia giapponese sono diventati ormai strutturali.

Il primo è che le aziende giapponesi hanno raggiunto profitti record, superando i picchi dell’ultimo ventennio, grazie al fatto che la svalutazione dello yen ha aumentato il valore in valuta nazionale dei ricavi realizzati dalle aziende giapponesi delocalizzate e il calo del petrolio ha diminuito i costi di produzione. Ciò ha rimesso in moto gli investimenti, che una recente survey svolta dalle autorità giapponesi prevede in aumento.

Il secondo cambiamento strutturale riguarda il mercato del lavoro. L’economia giapponese, dice Kuroda, ha di fatto raggiunto la piena occupazione, con un tasso di disoccupati in calo dal 2008 e ormai intorno al 3%.

Questi due fatti, combinandosi, sembrano creare il clima ideale affinché la banca centrale centri il suo target di inflazione e questo, sottolinea Kuroda, sarà il segnale più chiaro che l’economia si è finalmente rimessa in moto. Rimane ancora deludente, nonostante la svalutazione, la performance dell’export, ma ciò dipende secondo il nostro governatore proprio dall’espansione delle produzioni estere delle imprese nazionali. Che però adesso, sottolinea ancora, stanno di nuovo tornando ad investire in patria, stimolate dal clima positivo e dalla svalutazione dello yen.

Questo quadro idilliaco viene appena turbato dalla considerazione che anche nel primo quarto 2015 l’export e la produzioni hanno mostrato segni di debolezza, collegati al contesto esterno, innanzitutto in relazione a Usa e area asiatica, che hanno rallentato. E certo, sottolinea, bisognerà anche tenere conto dell’evoluzione delle economie emergenti e degli esportatori, che più di tutti in questo periodo stanno patendo un sostanziale calo dei loro redditi. Insomma: tutto va bene, finchè va bene agli altri.

Se si rimuove dal tavolo l’ipoteca delle influenze esterne, che però pesano parecchio sull’economia giapponese, e si rivolge lo sguardo a quelle interne, i motivi di ottimismo di Kuroda si rafforzano. La piena occupazione ha condotto per la prima volta da vent’anni a un aumento dei salari, ossia uno degli elementi sui quali Kuroda conta per vedere tornare in crescita l’inflazione.

Tale evoluzione, che mira a invertire una consuetudine deflazionaria ormai quasi ventennale, durante la quale i salari e i prezzi si equilibravano al ribasso, sembra confermata dall’aumento della paga base, assente ormai dalla metà dei ’90 dallo shunto, ossia la pratica di negoziazione delle retribuzioni che ogni anno i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese mettono in scena. Così era stata abbandonata la pratica tradizionale di innalzare i prezzi di un vasto campionario di merci all’inizio di ogni anno fiscale, ossia in aprile.

Il tal senso il risultato migliore del QQE, dice Kuroda, è stato l’esser riusciti a estirpare dalla testa dei giapponesi l’idea che i prezzi avrebbero contrinuato a declinare (“deflationary mindset”). “Dobbiamo cambiare – spiega – l’opinione sui prezzi di famiglie e imprese, che forma la base delle loro attività economiche”. Come se, quindi, la politica monetaria fosse un raffinato balsamo per le psicologie depresse.

Ebbene: nell’ultimo shunto le paghe base sono state aumentate per la prima volta in vent’anni e anche la pratica di aumentare i prezzi ad aprile è tornata in auge, anche se molte imprese si sono trattenute, sottolinea, perché sempre in aprile entrava in vigore l’inasprimento fiscale sui consumi, che ha avuto come effetto quello di deprimere la domanda interna. E tuttavia “nell’aprile di quest’anno il prezzo del ketchup è stato aumentato per la prima volta in 25 anni. E devo sottolineare che tale rialzo non è dovuto agli acquisti della Banca del Giappone”, conclude con un filo di autoironia.

Dal che deduco che l’ingrediente monetario, che il nostro banchiere padroneggia e propina con poco ritegno, sia il semplice succedaneo di quello che è l’autentico miscuglio segreto che Kuroda spande a piane mani ogni giorno: l’ottimismo, ossia qualcosa che non si misura e che però influenza ciò che si misura.

Vedere il bicchiere mezzo pieno, anche se solo di ketchup, è il vero QQE di cui l’economia giapponese sembra aver bisogno.

Kuroda ovviamente è il primo a saperlo.