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Il bicchiere mezzo pieno (di ketchup) del governatore giapponese
Leggo divertito che quest’anno, per la prima volta da almeno venticinque, il prezzo del ketchup in Giappone è aumentato. Che sarebbe notizia di costume, se non fosse contenuta in un recente speech del governatore della Bank of Japan, Haruhiko Kuroda, a dimostrazione del fatto che i prezzi del Sol Levante, pigri come accade ormai da una generazione, stiano iniziando a stiracchiarsi.
E sarebbe strano il contrario, atteso che il Giappone da un biennio è alle prese con una manovra a dir poco spericolata, il quantitative and qualitative easing, frontiera dell’estremismo monetario di marca nipponica che si propone di risolvere una volta per tutte la stagnazione del Paese, ancora alle prese con i postumi della sbronza di fine anni ’80.
Leggere Kuroda perciò è utile perché ci racconta in breve cosa sia successo in Giappone in questi due anni durante i quali la banca centrale ha spinto come mai nella storia sul pedale dell’allentamento monetario per arrivare finalmente ad avere un’inflazione del 2%.
Nell’anno fiscale 2013 l’azione della BoJ sembrò avesse indirizzato l’economia verso i target auspicati dalla banca centrale. La crescita reale del Pil superò il 2% e l’indice dei prezzi al consumo salì dal +0,5 all’1,5% nell’aprile dell’anno successivo.
Ma fu una fiammata che si spense subito. L’anno fiscale aprile 2014/2015 vide tutti gli indicatori peggiorare. La ragione, secondo Kuroda, fu principalmente il rialzo delle tasse sui consumi il cui impatto, per quanto previsto, fu maggiore di quanto ci si aspettasse, combinandosi con il deciso calo delle quotazioni petrolifere. Ne è risultato una diminuzione della domanda interna, specie dei beni durevoli, che ha provocato un calo del Pil dello 0,9% rispetto all’anno precedente e il sostanziale azzeramento dell’inflazione.
Tuttavia il buon Kuroda non ha perso il suo ottimismo, anzi. La sua analisi parte dal presupposto che i due fattori che hanno determinato l’arretramento dell’ultimo anno, il rialzo delle tasse e il ribasso del petrolio, sono temporanei, mentre i fattori che dovrebbero condurre al mutamento di clima dell’economia giapponese sono diventati ormai strutturali.
Il primo è che le aziende giapponesi hanno raggiunto profitti record, superando i picchi dell’ultimo ventennio, grazie al fatto che la svalutazione dello yen ha aumentato il valore in valuta nazionale dei ricavi realizzati dalle aziende giapponesi delocalizzate e il calo del petrolio ha diminuito i costi di produzione. Ciò ha rimesso in moto gli investimenti, che una recente survey svolta dalle autorità giapponesi prevede in aumento.
Il secondo cambiamento strutturale riguarda il mercato del lavoro. L’economia giapponese, dice Kuroda, ha di fatto raggiunto la piena occupazione, con un tasso di disoccupati in calo dal 2008 e ormai intorno al 3%.
Questi due fatti, combinandosi, sembrano creare il clima ideale affinché la banca centrale centri il suo target di inflazione e questo, sottolinea Kuroda, sarà il segnale più chiaro che l’economia si è finalmente rimessa in moto. Rimane ancora deludente, nonostante la svalutazione, la performance dell’export, ma ciò dipende secondo il nostro governatore proprio dall’espansione delle produzioni estere delle imprese nazionali. Che però adesso, sottolinea ancora, stanno di nuovo tornando ad investire in patria, stimolate dal clima positivo e dalla svalutazione dello yen.
Questo quadro idilliaco viene appena turbato dalla considerazione che anche nel primo quarto 2015 l’export e la produzioni hanno mostrato segni di debolezza, collegati al contesto esterno, innanzitutto in relazione a Usa e area asiatica, che hanno rallentato. E certo, sottolinea, bisognerà anche tenere conto dell’evoluzione delle economie emergenti e degli esportatori, che più di tutti in questo periodo stanno patendo un sostanziale calo dei loro redditi. Insomma: tutto va bene, finchè va bene agli altri.
Se si rimuove dal tavolo l’ipoteca delle influenze esterne, che però pesano parecchio sull’economia giapponese, e si rivolge lo sguardo a quelle interne, i motivi di ottimismo di Kuroda si rafforzano. La piena occupazione ha condotto per la prima volta da vent’anni a un aumento dei salari, ossia uno degli elementi sui quali Kuroda conta per vedere tornare in crescita l’inflazione.
Tale evoluzione, che mira a invertire una consuetudine deflazionaria ormai quasi ventennale, durante la quale i salari e i prezzi si equilibravano al ribasso, sembra confermata dall’aumento della paga base, assente ormai dalla metà dei ’90 dallo shunto, ossia la pratica di negoziazione delle retribuzioni che ogni anno i rappresentanti dei lavoratori e delle imprese mettono in scena. Così era stata abbandonata la pratica tradizionale di innalzare i prezzi di un vasto campionario di merci all’inizio di ogni anno fiscale, ossia in aprile.
Il tal senso il risultato migliore del QQE, dice Kuroda, è stato l’esser riusciti a estirpare dalla testa dei giapponesi l’idea che i prezzi avrebbero contrinuato a declinare (“deflationary mindset”). “Dobbiamo cambiare – spiega – l’opinione sui prezzi di famiglie e imprese, che forma la base delle loro attività economiche”. Come se, quindi, la politica monetaria fosse un raffinato balsamo per le psicologie depresse.
Ebbene: nell’ultimo shunto le paghe base sono state aumentate per la prima volta in vent’anni e anche la pratica di aumentare i prezzi ad aprile è tornata in auge, anche se molte imprese si sono trattenute, sottolinea, perché sempre in aprile entrava in vigore l’inasprimento fiscale sui consumi, che ha avuto come effetto quello di deprimere la domanda interna. E tuttavia “nell’aprile di quest’anno il prezzo del ketchup è stato aumentato per la prima volta in 25 anni. E devo sottolineare che tale rialzo non è dovuto agli acquisti della Banca del Giappone”, conclude con un filo di autoironia.
Dal che deduco che l’ingrediente monetario, che il nostro banchiere padroneggia e propina con poco ritegno, sia il semplice succedaneo di quello che è l’autentico miscuglio segreto che Kuroda spande a piane mani ogni giorno: l’ottimismo, ossia qualcosa che non si misura e che però influenza ciò che si misura.
Vedere il bicchiere mezzo pieno, anche se solo di ketchup, è il vero QQE di cui l’economia giapponese sembra aver bisogno.
Kuroda ovviamente è il primo a saperlo.
Si prepara la terza guerra mondiale: quella del debito
Poiché stiamo scrivendo una nuova storia è bene darle subito un titolo che posizioni chiaramente il problema. Ci viene in aiuto l’Ocse, che ha rilasciato di recente un outlook sul Sovereign borrowing per il 2014.
Leggendolo scopriamo due cose: la prima è che il mondo avanzato, ossia i paesi Ocse, hanno raggiunto e ormai superato, lo stesso livello di debito sovrano che avevano cumulato alla fine della seconda guerra mondiale.
La seconda è che ogni anno questi debiti devono essere rinnovati. E la lotta per accaparrarsi risorse, oltre 10 trilioni lordi previsti per l’anno in corso, sta somigliando sempre più a una guerra, combattuta dagli stati per convincere prestatori sempre più riottosi a dar loro credito.
Al momento ci pensano le banche centrali ad alleviare la pressione, comprando a mani basse i titoli dei loro stati. Ma prima o poi questa pratica non convenzionale finirà. E solo in quel momento la guerra per trovare credito deflagrerà. Non conosciamo le conseguenza, ma ne abbiamo già avuto qualche sentore.
La premessa, come spiega bene l’Ocse, è che gli emittenti sovrani stanno sudando le proverbiali sette camicie per continuare a fare il loro lavoro dovendo gestire rischi crescenti di liquidità, tassi di lungo termine previsti in rialzo e crescita economica globale ancora periclitante. Come se non bastasse rimane ancora senza risposta la domanda principe del nostro tempo. Ossia: quando, quanto velocemente e come le banche centrali smetteranno di inondare con la loro liquidità i mercati mondiali del debito.
I numeri ci dicono che il fabbisogno lordo di prestiti da parte dei paesi Ocse ha raggiunto il suo picco nel 2012, raggiungendo gli 11 trilioni di dollari, che dovrebbero essere diminuti a 10,8 trilioni nel 2013 e dovrebbero diminuire ancora a 10,6 quest’anno. L’alta quota di rimborsi quota il fabbisogno netto in circa 1,5 trilioni, per quest’anno. Ma ciò non toglie che i poveri gestori dei debiti statali abbiano il loro daffare. Anche perché “gli indici del debito statale nei paesi Ocse sono previsti in crescita”.
Peggio ancora: “Per un gruppo dei paesi più grandi dell’Ocse – spiega – il debito generale del governo nel 2014 si prevede raggiungerà il livello più alto dalla seconda guerra mondiale”.
Come uscirne? All’epoca ci pensò l’inflazione a fare piazza pulita dei debiti di guerra, aiutandosi i paesi anche con tassi notevoli di crescita oggi difficilmente replicabili. Oggi l’uscita da questa situazione è complicata anche dalla circostanza che il fabbisogno di rifinanziamento per l’area Ocse raggiungerà il 29% del totale del debito esistente a lungo termine (che pesa circa l’88% del totale del portafoglio) entro tre anni, durante i quali, a quanto dicono i banchieri centrali, anche il loro grazioso aiuto inizierà a venir meno.
Detto in parole semplici: si rischia di rimanere a secco. Il che a un livello di debito Ocse, aggiustato per i prezzi, che ormai ha superato il 116% del Pil, non è esattamente rassicurante.
Per la cronaca (storica) dopo la guerra, quando eravamo al livello di oggi, il debito/Pil Ocse era crollato sotto il 40% e dopo i vari boom, grazie alla crescita, era sceso ancora intorno al 20% nei primi anni ’60, dove, fra alti e bassi, lo troviamo ancora nella seconda metà degli anni ’70, quando la corsa del debito pubblico inizia senza freni.
E questo, meglio di ogni altra cosa, racconta cosa sia successo nei paesi avanzati negli ultimi quarant’anni.
L’overview dell’Ocse sullo stato attuale dei debiti sovrani ci fornisce anche altre informazioni di cui è bene tener conto.
Ad esempio è utile sapere che Giappone (34,1%) e Stati Uniti (33,3%) hanno totalizzato il 67,4% del totale del fabbisogno lordo di finanziamenti nel 2013 (10,8 trilioni). Noi italiani, terzi nella graduatoria Ocse dei debiti pubblici, abbiamo assorbito appena il 5,6%.
Ovviamente, anche quest’anno il copione si ripeterà sostanzialmente simile. La quota del Giappone è prevista in rialzo, al 34,9%, così come quella degli Usa, al 33,5, mentre noi italiani scenderemo al 5,1%.
Questi dati ci dicono una cosa elementare ma mai opportunamente sottolineata: America e Giappone assorbono oltre i due terzi del fabbisogno lordo di prestiti nel mondo. Questa evidenza spiega bene perché il comportamento delle loro banche centrali, impegnate in politiche monetarie ultraespansive, sia diventato così strategico. E soprattutto evidenzia come siano loro i grandi protagonsti della terza guerra mondiale: quella del debito. Le loro decisioni impatteranno, che piaccia o meno, sul resto del mondo.
Per comprendere perché basta farsi una domanda semplicissima: cosa succederebbe al mercato mondiale del debito se le banche centrali americana e giapponese smettessero di comprare a mani basse bond pubblici? Elementare Watson aumenterebbero i tassi.
Per comprendere quanto sia rilevante l’effetto degli acquisti di bond pubblici sul mercato da parte di Fed e BoJ, è opportuno riportare alcune cifre raccolte sempre da Ocse.
Dal 2008, per affrontare le conseguenze dello shock Lehman, tutte le banche centrali hanno aumentato i loro bilanci. La Fed, che prima del 2008 aveva asset per poco più del 5% del Pil americano, oggi è arrivata al 21,2%. La BoJ, che partiva dal 25% ora quota il 36,6%. La Bank of England è passata da cira il 5% al 25,3, mentre la Bce dal 13% circa al 25,9%.
Al di là dell’ampliamento dei bilanci è cosa c’è dentro che fa la differenza. E Fed e BoJ hanno acquistato a mani basse titoli di stato, al fine evidente di tenere bassi i tassi d’interesse garantendo il finanziamento del debito pubblico “fuori” dal mercato.
Conseguenza: nel 2011 la Fed aveva comprato il 60,2% dei titoli emessi dal Tesoro americano. A fine 2013 la banca centrale teneva a bilancio 2,15 trilioni di dollari di titoli americani, pari al 18,4% del totale dei titoli disponibili per le negoziazioni nel mondo. In pratica la Fed è l’azionista di riferimento del Tesoro americano.
Da notare come la gran parte di questi titoli, pari a 1,308 trilioni, abbiano scadenze superiori a cinque anni, pari al 40% dei 3,276 trilioni di titoli con questa scadenze emessi dal Tesoro.
Perché vi affliggo con questi numeri? Perché se i tassi saliranno, come pure la Fed minaccia ogni tanto, saranno proprio le scadenze più lunghe, di cui la Fed è imbottita, a soffrire le perdite più pesanti in conto capitale.
Stesso discorso vale per i giapponesi. Abbiamo già visto cosa sia successo in giappone nell’ultimo anno di QQE, ossia di diluvio monetario. Lato bilancio pubblico, è interessante notare che la BoJ sta comprando 7 trilioni di yen al mese di titoli del tesoro giapponese su tutta la curva dei rendimenti, che equivalngono a circa il 70% delle nuove emissioni gonvernative.
Tale politica, seguita pervicacemente nell’ultimo anno, ha portato il totale dei titoli pubblici giapponese in mano alla BoJ dagli 89 trilioni di yen di fine 2012 ai 143 di fine 2013, che dovrebbero diventare i 190 trilioni di fine 2014, ossia il doppio del 2012. Il mercato avrebbe mai comprato tutti questi JGBs? Evidentemente no.
Ed è proprio in questa strategia da economia di guerra che si individua il vulnus sistemico che preoccupa tutti coloro che dicono che, prima o poi, le banche centrali dovranno finirla. Abbiamo visto che Giappone e America assorbono oltre i due terzi del debito annuale di cui abbisognano il governi dei paesi Ocse. E abbiamo visto che quote rilevantissime di questi fabbisogni vengono comprati fuori mercato, dalle banche centrali.
Cosa significa tutto questo? Che poche decine di persone, ossia i partecipanti ai board delle due banche centrali, tengono in pugno l’economia mondiale.
Anche questa è guerra.