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Le metamorfosi dell’economia: Il pensionamento della pensione
Ora che ci avviciniamo al termine di questa lunga riflessione sulle metamorfosi possibili, probabili o almeno auspicabili della nostra economia, non possiamo fare a meno di parlare del lato luminoso del rapporto di lavoro, così come ci hanno insegnato a pensarlo: la pensione. C’è tutta una letteratura e un’aneddotica correlata all’agognato momento del ritiro dal lavoro. Finalmente sgravato dagli obblighi, l’ex lavoratore scopre le gioie del tempo libero, ossia fare ciò che gli aggrada, potendo contare su una rendita, più o meno grande, per pagarsi pane e companatico. Cosa gli potrebbe capitare di meglio?
Questo pensiero è un probabile retaggio di un’epoca – sostanzialmente il XIX secolo fino allo scoppio della Grande Guerra – in cui in alcuni paesi una parte della popolazione viveva di rendita grazie all’assenza di inflazione e un livello di tassi di interesse remunerativo abbastanza da rendere un capitale in grado di pagare una pensione. Chiunque abbia frequentato la letteratura di quel periodo avrà notato questa peculiarità. Ma al tempo stesso è frutto di un’esigenza antica che le società hanno metabolizzato nell’arco di svariati secoli e poi istituzionalizzato sul finire dell’800: il diritto degli anziani di vivere dignitosamente. Ciò che noi oggi diamo per acquisito pacificamente, dimenticando che non sempre è stato così.
Furono i tedeschi, ai tempi di Bismarck, a creare i primi istituti pensionistici dedicati ai dipendenti pubblici, e poi seguirono gli altri, a cominciare dagli inglesi. L’istituto della pensione divenne familiare per milioni di persone, e ha conosciuto, nel corso del XX secolo, una sviluppo rigoglioso che ha finito col metterlo in discussione. Oggi qualunque analisi che si rivolga al futuro individua nei sistemi pensionistici una grande fonte di difficoltà per i governi a far quadrare i conti. E questo dipende essenzialmente dal fatto che, rispetto all’800, è cambiata la struttura della popolazione. All’epoca gli anziani erano relativamente pochi e vivevano meno. Oggi in alcuni paesi, come in Italia, sono una maggioranza relativa e la vita media si è allungata significativamente.
Quindi, per tenere in piedi le pensioni – e bisognerebbe intendersi su cosa intendiamo per pensioni – ci sono poche alternative: o si aumenta l’età pensionabile, o si diminuiscono gli assegni previdenziali. Nel dubbio i governi stanno finendo per fare tutte e due le cose, quando invece dovrebbero interrogarsi sulla forma che ha preso la società e chiedersi se sia socialmente sostenibile, prima ancora che contabilmente, un sistema che mette a carico di una minoranza – chi lavora – una sostanziale maggioranza. E poiché all’orizzonte non si intravede un cambiamento del modello demografico che intanto si è affermato, ma semmai un suo consolidamento, dovremmo iniziare a metabolizzare l’idea che la pensione, come istituzione, è destinata a un tramonto più o meno felice per arrivare pronti al momento in cui l’istituto conoscerà il suo definitivo declino. D’altronde le istituzioni nascono, crescono e muoiono come ogni cosa. E sarebbe stolto ignorarlo. Le pensioni, salvo rivoluzioni nel tessuto sociale, sono destinate a una graduale pensionamento.
Rimane il problema, quello sì, di come dare da vivere a queste coorti crescenti di anziani in un futuro più o meno lontano, ma assai più vicino di quanto ci possa apparire, visto che oggi i giovani stanno sostanzialmente pagando il costo della crisi e, soprattutto, quello dei diritti acquisiti delle generazioni venute prima di loro. L’Ocse di recente ha evidenziato come il rischio di povertà si sia ormai spostato dagli anziani sui giovani, ossia gli anziani di domani, che quindi rischiano di trovarsi in grave difficoltà nello spazio di pochi decenni. Ed è un problema complesso, che richiede profondi cambiamenti nel nostro modo di pensare, che siamo evidentemente impreparati a risolvere.
La risposta più semplice dalla quale dovremmo partire è che tutti, a cominciare proprio dagli anziani, devono essere messi in condizioni di vivere. Ciò che dobbiamo chiederci è se ciò implichi che queste persone siano brutalmente escluse dalla vita sociale mercé una prestazione previdenziale. Perché se piace a (quasi) tutti l’idea che si possa vivere gli ultimi anni senza obblighi di lavoro, ciò non vuol dire che siano da incoraggiare comportamenti che escludono persone dal circuito socio-economico. L’anziano è una straordinaria risorsa, e in una società dove si affermi la pratica di un lavoro di cittadinanza, nulla vieta che possa continuare a contribuire alla sua comunità svolgendo attività che siano compatibili con i suoi gusti e le sue possibilità. Peraltro accade già. A parte quelli che continuano a lavorare malgrado siano in pensione – e sono una quota crescente – ci sono pletore di anziani che svolgono infinite attività utili – pensate ai nonni baby sitter che chiunque abbia figli conosce bene – che però non vengono retribuite in alcun modo perché – si dice – hanno la pensione. I nonni sono degli ottimi ammortizzatori sociali, già oggi. Solo che questo ruolo non ha alcun riconoscimento, quando invece lo meriterebbe a pieno titolo.
In generale, toccherebbe a loro, come ad ognuno di noi, la responsabilità di creare servizi utili ai loro concittadini in cambio dei quali la società riconosce un corrispettivo, che può essere in moneta o in potere d’acquisto, secondo lo schema che abbiamo immaginato. Anche per i nonni, insomma, dovrebbe valere il principio di non rimanere mai disoccupati, rendendo perciò obsoleto l’istituto della pensione. Peraltro, liberare gli stati dal fardello dei pagamenti previdenziali significherebbe – una volta trascorso il periodo di transizione – non solo diminuire sostanzialmente il costo del lavoro sul mercato, ma soprattutto liberare risorse che potrebbero essere utilizzate in tanti altri modi. A cominciare dal sostegno di coloro che non sono in grado di contribuire col loro lavoro alla vita delle comunità. Perché i più deboli, se ci pensate, sono i più preziosi.
Rimane l’ipotesi che un anziano scelga di non avere nulla a che fare con nessuno perché, dopo una vita passata con gli altri, vuol godersi in pace i suoi ultimi anni. Poiché la società che stiamo provando a immaginare è una società libera, tale esigenza dovrebbe essere tutelata. Ma in tal caso a questa persona è richiesto di provvedere con i frutti del suo lavoro passato, costruendosi nel tempo il capitale sufficiente a pagargli una rendita finanziaria tramite meccanismi assicurativi o di investimento. Un po’ come accadeva in passato.
Ma prima ancora di studiare soluzioni tecniche, che di sicuro verrebbero trovate, dobbiamo accettare e capire che il pensionamento della pensione non è la fine della libertà per l’anziano. Ma l’inizio di una nuova, in coerenza con quella dell’intera società. Questa nuova libertà è basata sulla responsabilità personale e sulla creatività, e quindi è pienamente individualista, e insieme sullo spirito di servizio e un sano altruismo, e quindi fondamentalmente comunitaria.
Sarebbe l’inizio di un nuovo tipo di benessere.
(28/segue)