Etichettato: assicurazioni

I rischi delle assicurazioni inglesi (e delle altre)

Appartiene all’esito paradossale del nostro tempo che le incertezze spuntino come funghi laddove invece avrebbe dovuto allignare la certezza. La fame di sicurezza economica, ossia il sottotitolo dell’ossessione per la crescita, spinge le autorità monetarie ad abbassare i rendimenti stimolando per converso l’appetito del rischio. E così facendo coloro che dovrebbero garantire la sicurezza diventano fonte del contrario.

Si pensi ai fondi pensione, le balene del sistema finanziario, verso le quali si avventano i predatori dei mercati cercando di infligger loro morsi mortali sotto forma di asset incerti. O magari alle assicurazioni che, a dispetto del loro nome, sono diventati uno degli attori economici sui quali si concentra la sempre più ossessiva attenzione dei regolatori, che ormai con sempre più frequenza sollevano allarmi sulla loro tenuta in un tempo di rendimenti finanziari pressoché a zero.

L’ultimo di una lunga serie che ho trovato l’ha redatto la Bank of England nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria che ospita una preoccupata ricognizione del settore assicurativo inglese, che conta circa 600 compagnie, ormai cresciuto, quanto ad asset posseduti, alla grandezza di 1,9 trilioni di sterline, ossia equivalente al pil britannico e al 40% degli asset del sistema bancario. Vale la pena sottolineare che le prime tre grandi compagnie detengono il grosso di questi asset, un trilione su 1,9, mentre le prime tre banche 4 trilioni.

“Le compagnie di assicurazione – scrivono – giocano un ruolo importante nel supporto dell’attività economica, ma gli assicuratori sono esposti a numerosi rischi”. E soprattutto, possono trasmetterli a tutto il sistema finanziario. E non serve andare lontano per capirlo. Basta ricordare il disastro provocato dall’americana AIG fra il 2007 e il 2008 vendendo credit default swaps basati su carta inesigibile.

Ed è proprio questo il paradosso: le assicurazioni dovrebbero assicurare contro i rischi. Ma come possono farlo quando prezzare questi rischi, e fornirsi del collaterale adatto, diventa sempre più difficile? E soprattutto come possono riuscire a ricavare dai propri investimenti le risorse necessarie a coprire questi rischi, una volta che si materializzino le perdite, se gli investimenti diventano sempre meno remunerativi o, a loro volta, più rischiosi?

Il modello classico delle assicurazioni, che prevede la costante accumulazione di premi a fronte di esborsi più o meno lontani nel tempo, per quanto resiliente sta iniziando a mostrare la corda. E il perché è facile da capire: i bilanci delle compagnie assicurative sono esposti a rischi sia dal lato dell’attivo – i loro investimenti risentono dell’andamento del mercato – che da quello del passivo – i loro costi possono essere molto più elevati del previsto – aggravandosi queste fattispecie in un momento in cui i tassi sono a zero.

In Gran Bretagna le assicurazioni sono soggette alla vigilanza della Prudential Regulation Authority (PRA’s) coadiuvato dal Financial Policy Committe’s (FPC’s) che cerca di individuare i rischi sistemici che possono insidiare il lavoro degli assicuratori.

Queste entità hanno analizzato i canali di trasmissione del rischio che dagli assicuratori possono essere trasferiti all’economia reale, alla quale questi compagnie forniscono importanti strumenti di supporto, e all’economia finanziaria, di cui pure sono parte, attraverso una serie di procedure che vanno dalla riassicurazioni, il funding e le cartolarizzazioni.

Qualche esempio servirà a capire meglio. All’epoca dell’attacco terroristico dell’11 settembre le compagnie smisero di assicurare contro il rischio terrorismo. Senonché, le compagnie commerciali non possono volare senza un’assicurazione sulle terze parti. E poiché il trasporto aereo riveste un’importanza evidenza nell’economia di un paese, il governo britannico mise in piedi uno schema assicurativo chiamato Troika (che non è quella greca, pure se il senso è simile) che lavorò per un anno per garantire il funzionamento del traffico aereo. La socializzazione del rischio, oltre che delle perdite, è un’altra caratteristica del nostro mondo capitalistico.

Un altro esempio servirà a chiarire l’importanza sistemica delle assicurazioni rispetto al sistema finanziario. Ogni volta che una banca concede un mutuo è pratica comune che generi un contratto assicurativo a carico del proprietario. Perciò in molti mercati assicurativi una eccessiva concentrazione di questi contratti in pochi soggetti può far fibrillare il sistema qualora il mutuo vada in sofferenza.

Ed è proprio la concentrazione una delle principali fonte di rischi del settore assicurativo britannico.

Poi c’è la questione dei servizi che consentono di accumulare risparmio. Nel 2014 le assicurazioni avevano debiti verso i sottoscrittori del ramo vita per 1,506 trilioni, fra pensioni e piani di accumulo, a fronte dei quali detenevano asset corrispondenti investiti in diverse classi di asset, fra i quali, come si può osservare qui, primeggiano i corporate bond a fronte di un declino costante dei bond governativi, evidentemente meno remunerativi.

E’ evidente che se ogni volta che le assicurazioni reinvestono le cifre ricavate dagli asset scaduti devono tener conto dei debiti corrispondenti a queste obbligazioni e devono quindi fare in modo di investire su prodotti che garantiscano rendimenti sufficienti a coprire i flussi di cassa. Tutto ciò, pacifico in tempi di rendimenti normali, diventa complicato ai tempi nostri. Tanto è vero che sia il Fmi che la BoE hanno sollevato l’allarme sul crescente rischio di reinvestimento delle compagnie. Rischio diffuso, peraltro. Basta ricordare che la Bundesbank ha sottolineato come 12 compagnie tedesche su 85 non avranno più i requisiti di solvency con i mezzi propri se il return on asset, ossia il rendimento degli investimenti, rimarrà intorno al 2,5% fra il 2015 e il 2023. Altre 32 sono addirittura a rischio di default se i rendimenti dovessero tendere verso l’1,5% nello stesso periodo.

A complicare questa situazione, ormai sistemica, ci sono anche i rischi di disallineamento della liquidità, tipici del periodo di estrema volatilità che stiamo vivendo, che potrebbe rendere difficile trovare la provvista a breve che serve quotidianamente alle assicurazioni per far ruotare i propri asset, ma soprattutto la circostanza che, essendo dotate di asset a lunga scadenza, spesso le assicurazioni danno in affitto i loro asset come collaterali in cambio di un profitto.

Anche questa pratica, che prevede il richiamo o la riconsegna a vista degli asset, aggiunge altri rischi di liquidità. Anche qui l’esempio di AIG è istruttivo. Nel 2008 la compagnia americana fu incapace di trovare risorse sufficienti a far fronte al programma di lending security da 40 miliardi messo in piedi negli ani precedenti. Ciò provocò un drenaggio di fondi per oltre 17 miliardi dalle casse di AIG solo nella seconda metà del 2008.

Un’altra fonte di rischio viene individuata nell’opzione di flessibilità che gli assicuratori concedono in molti contratti, che implica la possibilità di ricontrattare le polizze al variare delle condizioni di mercato. Anche qui, un esempio sarà eloquente. Quando scoppiò la crisi asiatica nel ’97-’98 i tassi di interesse salirono dal 12 al 30% a fine 1997. Molti possessori di polizze indicizzate chiesero di cambiare le condizioni del loro contratto costringendo le assicurazioni a una vendita precipitosa di asset (cd fire-sale) per fare fronte alle proprie obbligazioni. Alcuni paper recenti hanno stimato che le assicurazioni tedesche sono sottoposte a rischi siffatti solo che i tassi salgano di appena il 2%.

Come se tutto ciò non bastasse, molte assicurazioni hanno aumentato la loro esposizione a prodotti di breve termine per il loro funding. Si calcola che le assicurazioni americane siano esposte per oltre 11 miliardi di euro e che il sistema assicurativo abbia 27 miliardi di repo attivi nei confronti di 17 istituzioni finanziairi, pronte a “bollire” in caso di rarefazione della liquidità.

Quest’ultima circostanza mette in rilevo il ruolo rilevante ormai incarnato dalle assicurazioni nei confronti di importanti controparti, a cominciare da quelle bancarie, col quale il settore è profondamente interconnesso, come anche dimostra l’interessamento recente dell’European Systemic Risk Board. Ma la tendenza è globale. E si manifesta anche nella crescente quota di obbligazioni finanziarie detenute dalle assicurazioni nei loro portafoglio.

Negli Usa, ad esempio, le compagnie assicurative hanno in pancia 195 miliardi di obbligazioni del settore corporate, la metà delle quali emesse da banche. In Uk il fenomeno è meno vistoso, ma esiste. Si calcola che le assicurazioni abbiano il 16% del loro portafoglio obbligazionario investito in bond bancari e il 10% del loro portafogli equity in azioni bancarie. Qualora le assicurazione cambiassero il loro portafogli di conseguenze, la banche non potrebbero che risentirne.

In sostanza, la configurazione attuale del settore assicurativo incoraggia quelli che gli economisti chiamano comportamenti pro-ciclici, ossia decisioni che seguono l’onda dei cicli finanziari, favorendo i rialzi quando ci sono e i ribassi altresì. Il che ne converrete non è molto sicuro. E poiché le assicurazioni hanno imparato a usare anche i derivati per proteggersi dai rischi – in UK il valore nozionale dei contratti supera i 400 miliardi, a fronte de 1,12 trilioni negli Usa – ecco che si spalanca un’altra porta attraverso la quale il rischio fa capolino. Per usare in maniera efficiente i derivati, infatti, bisogna avere un accesso costante a questi mercati che, come abbiamo visto, sono i primi a entrare in fibrillazione quando le cose vanno male.

E così torniamo al punto di partenza. Ciò che si vuole sicuro genera potenzialmente instabilità. Il desiderio di sicurezza, che le assicurazioni dovrebbero incarnare, genera insicurezza. Ma nessuno ci fa caso.

Finché non è troppo tardi.

Le Assicurazioni europee non rassicurano

Non è che mi diverta questo cercare il pelo nell’uovo, sollevare timori e additare rischi, quando il mondo intero, e l’Europa in particolare in quanto ultima arrivata, balla sul Titanic del QE.

Però, vedete, mi ci tirano per i capelli. Specie quando mi accorgo che alcune mie malfondate intuizioni hanno finito col trovare spazio nelle argute analisi di persone assai più intelligenti di me. Della qualcosa dovrei forse compiacermi, se non fosse che spero sempre di sbagliarmi, quando vedo nero.

E invece no: di fronte al dilemma salvare banche o assicurazioni, la BCE ha scelto le banche. Ma mica lo ha fatto per cattiveria. E’ solo una questione di tempi. Le banche, a differenza delle assicurazioni, hanno una struttura patrimoniale che le espone costantemente al rischio di trasformazione e di duration, mentre le assicurazioni, specie quelle che agiscono sul ramo vita e delle polizze, hanno tempi assai lunghi.

Ciò le rende più capaci di sopportare rendimenti bassi dei propri investimenti. Ma ciò non vuol dire che, in un ambiente come quello in cui viviamo adesso, dove i rendimenti obbligazionari sono negativi per i tempi medio-lunghi, tale robustezza non abbia a risentirne.

E infatti il Fmi, nel suo ultimo Global financial stability report parla proprio di questo. Concentrandosi in particolare sul mercato assicurativo europeo, che deve vedersela con rendimenti negativi dei bond governativi, ossia quella classe di asset sulla quale il settore assicurativo investe parecchio.

Giusto per ricordarvelo: siamo nella situazione nella quale in Germania i bond governativi hanno rendimenti negativi fino alla scadenza di sette anni, con un decennale che spunta pochi punti. E in una situazione simile a quella tedesca si trovano la Svizzera, la Finlandia, l’Olanda, l’Austria, il Belgio e la Francia. Persino l’Italia, di recente, ha venduto in asta un bot annuale praticamente a zero.

Sicché, mentre i giornali applaudono il crollo degli spread, è indice di buon senso ricordare che non esistono pasti gratis. Ciò che i governi risparmieranno sugli interessi dei loro debiti, lo pagheranno i risparmiatori, nella forma di rendimenti pressoché negativi sui loro investimenti finanziari, a meno di non voler rischiare l’osso del collo con investimenti assai rischiosi, e indirettamente le assicurazioni, che comunque gestiscono sempre soldi dei risparmiatori.

Perciò invece di raccontarvi dei prodigiosi progressi del mercati finanziari e valutari e delle promettenti prospettive del settore bancario, dopo l’avvio del QE di marca BCE, preferisco dedicare questo approfondimento al nostro settore assicurativo, chissà perché sempre trascurato dalle nostre cronache bancocentriche.

Bene. Cominciamo dal titolo che il Fmi dedica a questo approfondimento che dice già tutto: “Assicurazioni europee sulla vita: un modello di business insostenibile in un ambiente di bassi tassi”.

Chiaro no?

Sempre il Fmi scrive che “il corrente ambiente di tassi bassi, che il QE esacerberà, pone una sfida severa all’industria assicurativa europea del settore vita. La pratica dell’industria di sottoscrivere accordi di lungo termine, a volte superiori ai trent’anni, senza asset di corrispondente durata ha provocato un gap di duration negativo. Inoltre tali accordi prevedevano ritorni generosi (agi investitori, ndr) che sono insostenibili nel contesto di bassi tassi di oggi”.

E fin qui siamo alle linee di principio. Che però sono assai concrete.

Il Fmi, infatti, cita un recente lavoro dell’EIOPA (European Insurance and Occupational Pensions Authority) secondo il quale più della metà delle assicurazioni europee sta garantendo ai suoi investitori un rendimento che supera quello dei bond governativi locali a dieci anni, incorrendo in negativi spread da investimento”. Aggiungo, solo per amore della cronaca, che lo studio dell’EIOPA risale al 2013, quindi precede di parecchio l’attualità, che vede rendimenti ancora più bassi rispetto a due anni fa.

I paesi che soffrono insieme di ampi disallineamenti di duration e spread negativi sugli investimenti “sono particolarmente sensibili a un ambienti di tassi bassi”. E per una volta nella classifica degli inguaiati non troviamo l’Italia o la Grecia, ma la Germania e la Svezia, che pesano insieme il 20% del totale dei premi lordi sottoscritti nel 2013 e soffrono di entrambi i problemi segnalati. Ma sono in buona compagnia: nel gruppo dei fragili troviamo anche l’Olanda, la Francia, la Polonia e altri.

Sicché, sempre l’EIOPA, stavolta nel 2014, ha condotto alcuni stress test sull’industria assicurativa, che certo hanno avuto meno visibilità di quelli fatti dalla BCE sulle banche, ma sempre perché l’informazione è bancocentrica.

Peccato perché ce ne sarebbe da scrivere. A cominciare da quello che nota il FMI: “Gli stress test mostrano che il 24% degli assicuratori non sono in grado di raggiungere il 100% del loro solvency capital ratio richiesto in uno scenario alla giapponese”. Rassicura di più la circostanza che ci vorranno fra gli 8 e gli 11 anni prima che l’industria “incontri seri problemi” anche se “tale valutazione sembra ottimistica visto ce adesso i tassi sono molto più bassi di quanto fossero al momento degli stress test”.

Ne deriva che le assicurazioni di taglia media “si trovano di fronte ad alti e crescenti rischi di stress. Il fallimento di una di queste può provocare una perdita di fiducia”, e il resto del film potete immaginarlo da soli. Anche perché “la mancanza di uno schema di protezione o di un set di regole uniche per l’intera Ue magnifica il rischio di distruzione del mercato”.

Sta a vedere che adesso dopo la supervisione bancaria unificata dovremo mettere mano a quella assicurativa.

Questi tormenti si esasperano ricordando che il sistema assicurativo è pesantemente interconnesso con l’intero sistema finanziario europeo, visto che le assicurazioni sono spesso collegate alle banche e che gestiscono una robetta da 4,4 trilioni di asset.

Ed ecco che il rischio bancario, uscito dalla finestra del QE, rientra dalla finestra delle assicurazioni.

Ma questo non ce lo dicono tutti i giorni.

Dopo le banche, anche le assicurazioni entrano nell’ombra

All’ombra della regolazione non fiorisce solo lo shadow banking.

Meno noto alle cronache, ma non per questo meno fiorente, è lo spostamento di una montagna di debiti delle compagnie di assicurazione verso soggetti che sfuggono alle maglie della regolazione finanziaria. Gli studiosi chiamano questo fenomeno shadow reinsurer.

Il fenomeno è finito sotto la lente di alcuni economisti del Nber, che qualche giorno fa hanno rilasciato un paper intitolato “Shadow insurance” che da una misura chiara della posta in gioco negli Stati Uniti e solleva notevoli interrogativi circa la capacità dei regolatori di far fronte alla straordinaria fantasia elusiva della finanza globale.

Un primo dato serve a dare l’idea della dimenzione del fenomeno.

Le passività cedute dagli assicuratori sulla vita al sistema-ombra dei riassicuratori è cresciuto dagli 11 miliardi di dollari nel 2002 ai 363 miliardi nel 2012: in pratica si è moltiplicato per 33. Le compagni assicurative che usano tali pratiche pesano il 50% del mercato e cedono 28 centesimi per ogni dollaro incassato alle assicurazioni ombra, a fronte dei 2 centesimi nel 2002.

Perché le assicurazioni abbiano preso questa deriva è facile capirlo. Secondo gli autori, infatti, “in assenza di assicuratori-ombra i costi marginali aumenterebbero dell’1,8%”.

La ricerca dell’efficienza nei costi, così come quella dei ricavi, genera il rischio sistemico.

Lo shadow reinsurer si compone di entità speciali, per lo più veicoli finanziari, allocati in alcuni stati americani o in paradisi fiscali che sono soggetti a una regolazione meno stringente o a normative fiscali più favorevoli. E vista la quantità di risorse in gioco, è pure agevole capire perché tale pratica abbia finito col diventare di moda.

Nel 2012, infatti, le passività delle assicurazioni americane, quindi gli obblighi accumulati nei confronti dei loro sottoscrittori, avevano raggiunto la somma di 4.069 miliardi di dollari. Un ammontare di tutto rispetto, se confrontato con un’altra montagna di passività, ossia quella accumulata nei depositi di rispamio, che, sempre nel 2012, valeva 6.979 miliardi.

Fino  a pochi anni fa le passività delle compagnie assicurative non suscitavano l’attenzione degli osservatori, visto che venivano considerate più prevedibili e quindi stabili rispetto alle passività bancarie.

Ma i grandi cambiamenti nella regolazione hanno cambiato questo scenario.

Le compagnie di assicurazione, per garantirsi una gestione più efficiente (leggi meno costosa) delle propri passività hanno iniziato a spostare masse di debiti sul circuito ombra dei riassicuratori.

Così arriviamo ai 363 miliardi di passività censiti dagli autori che hanno trovato casa in questo circuito ombra.

Per capire quanto sia rilevante questo spostamento di passività, basti considerare che nel 2004, quindi in pieno boom della finanza e prima del collasso, il mercato delle asset-backed commercial paper emesse dal circuito bancario ombra delle banche americane quotava 650 miliardi.

Ad aggravare i rischi contribuisce anche la circostanza che la pratica di dislocare passività nel circuito ombra sia appannaggio delle più grandi compagnia assicurative americane, che pesano circa il 50% del mercato.

“Abbiamo riscontrato – scrivono gli autori – che lo shadow insurance aggiunge un tremendo ammontare di rischi finanziari per le compagnie coinvolte che non viene considerato nel rating attuale di cui dispongono”.

Nelle loro stime, se le agenzie di rating tenessero conto di tale pratica, i coefficienti patrimoniale delle compagnie assicurative sarebbero abbattuti del 49% (risk-based capital) con un impatto sul rating di tre notches (per le compagnie medie). Quindi un rating A diventerebbe B+.

L’aggiustamento proposto dagli autori causerebbe perdite per l’industria di oltre 15 miliardi di dollari che “attraverso le garanzie di stato finirebbero in carico ai taxpayers e alle altre compagnie che non usano il circuito ombra”.

Come sempre accade, sono sempre i buoni a pagare il conto dei cattivi.

Peraltro, sottolineano, “mentre lo shadow insurance ha chiaramente questi costi, i benefici sono difficili da quantificare”.

Capite bene perché i regolatori americani si siano allarmati. Anche perché, sottolineano gli autori, la stima di 363 miliardi di valori di passività finite nell’ombra, “potrebbe essere solo la punta di un iceberg” qualora la pratica dello shadow reinsurer sia diffusa anche nel resto del mondo.

Peraltro, ricordano, la crisi ha mostrato che “anche un piccolo shock può essere amplificato dall’interconnessione che esiste nel mercato finanziario” e uno shock nei mercati assicurativi può avere ripercussioni sull’economia reale “attraverso il mercato dei corporate bond”.

Di recente le autorità hanno chiesto una moratoria di tali pratiche. Un appello pressoché ignorato anche in considerazione del fatto che “il settore assicurativo è regolato a livello nazionale” negli Usa e questo “rende il coordinamento nazionale difficoltoso”.

Anche gli americani, insomma, hanno i loro trilemmi.

Prima o poi dovremmo farci i conti pure noi.

AfFondo immobiliare

Perché in un momento in cui il mercato ristagna, i prezzi si prevedono in calo e gli investitori esteri fuggono, i fondi italiani hanno aumentato del 50% gli investimenti?

E’ accaduto fra il 2009 e il 2012, secondo un rapporto preparato da Bnp Paribas real estate, quando gli investimenti dei fondi italiani immobiliari nel settore passano dal 26 al 39%. Questo mentre il mercato si contrae e i prezzi si congelano.

Per rispondere alla domanda, serve innanzitutto spiegare cosa siano e cosa facciano i fondi immobiliari. Si tratta di organismi di rispamio collettivo (Oicr) amministrati da società di gestione di risparmio che in pratica rilevano beni immobiliari allo scopo di amministrarli (con l’affitto o la vendita). Per raccogliere le risorse necessarie al loro funzionamento, e quindi anche “ripagare” i beni immobiliari che finiscono nel loro portafoglio, i fondi emettono quote a investitori che lucrano sulle remunerazioni di tali quote e sulla loro liquidazione una volta che il fondo cessa la sua attività.

Il funzionamento è molto semplice. Mettiamo che io sia un’istituzione che disponga di un patrimonio immobiliare e non sappia o non voglia gestirlo direttamente. Posso conferire tale patrimonio a un fondo che, emettendo quote, mi fa avere una contropartita liquida immediata, di solito a sconto rispetto al prezzo di conferimento. Il fondo poi si incaricherà di gestire questo patrimonio rimborsando le quote ai sottoscrittori una volta venduti tutti i beni.

I fondi nascono in Italia nel ’94 ma hanno iniziato a farsi vedere solo alla fine degli anni ’90, quando venne la fregola di privatizzare il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali e, più tardi, dello Stato. Pompati dal credito bancario di quegli anni, i primi fondi immobiliari italiani misero radici nei primi anni del 2000 e da lì in poi si sono sviluppati con costante gradualità. Un rapporto della Banca d’Italia del 2009 nota curiosamente che “nonostante la crisi finanziaria, nel 2008 sono divenuti operativi 56 nuovi fondi immobiliari, arrivando a 228 a fine anno”.

Per sapere cosa è successo dopo fine 2009, leggiamo un altro studio, stavolta di Scenari immobiliari, che fotografa lo stato dell’industria dei fondi a maggio 2012. “L’industria dei fondi italiani ha continuato la propria crescita anche nel corso del 2011”, scrive Scenari Immobiliari. A fine 2011 i fondi operativi erano 312 e il patrimonio immobiliare detenuto direttamente era passato dai 40,6 miliardi del 2009 (a fronte dei 34,7 mld del 2008) a 46,4 mld a fine 2011, con una prospettiva di arrivare a 47,8 nel corso del 2012.

Quindi la crisi immobiliare, contro ogni logica apparente, fa da propellente all’industria dei fondi.

Ma in realtà una logica c’è. Per trovarla basta scrutare la composizione azionaria di gran parte di questi fondi. Grandi sponsor, diretti o indiretti, di questi strumenti sono come si può immaginare le banche e alcune assicurazioni che fanno accordi con soggetti specializzati nel settore delreal estate. Le stesse banche e assicurazioni che hanno grandi patrimoni immobiliari e la necessità di metterli a reddito, se non di liquidarli.

Le banche e le assicurazioni sono grandi sottoscrittori di quote di fondi immobiliari, delle società di gestione, se non direttamente loro promotori. Quindi, in un momento in cui i prezzi calano e c’è una crisi del credito aumentare gli investimenti sui fondi può essere un metodo efficace per le banche e le assicurazioni per gestire lo “sgonfiamento” ordinato della bolla che si è venuta a creare negli ultimi dieci anni sui corsi immobiliari. Oltre che un espediente per trarre valore immediato dal proprio patrimonio rimasto incagliato nella crisi sperando che nel tempo di gestione del fondo (di solito almeno dieci anni) il mercato si riprenda.

Insomma, dovendo raschiare il barile del mattone, le banche trovano il Fondo (vedi post omonimo).

Mi sono convinto che tale scenario abbia un senso leggendo un trafiletto pubblicato sul Sole 24 Ore il 25 gennaio. Si raccontava di un imprenditore bisognoso di credito, a cui una banca aveva proposto la concessione di un fido per alcune centinaia di migliaia di euro in cambio della sottoscrizione di quote a un fondo immobiliare della banca stessa. Lo sport preferito delle banche, ossia prestare soldi a se stesse per il tramite di questo o quel soggetto, sia esso una persona fisica o giuridica, non è passato di moda. Anzi.

Siamo in pieno afFondo immobiliare.

Il mattone scricchiola, le pensioni tremano

La crisi finirà da dove è cominciata: dal settore immobiliare. Se e quando il mercato si riprenderà – se ne sono avute recenti avvisaglie negli Stati Uniti – allora potremo dire che la paura del grande crollo sarà archiviata. Almeno fino al prossimo scossone.

Per dare un’idea di quanto sia concreta quest’affermazione basta scorrere uno studio recente della JP Morgan Asset Management, di cui fa menzione il Financial Times, nel quale si rileva che il 43% degli investitori istituzionali del mondo ha già notevolmente investito sull’immobiliare. Si calcola che tali investitori gestiscano in totale asset per 7.800 miliardi di dollari. E secondo gli esperti la quota di investimenti diretti sul mattone è destinata a raddoppiare nei prossimi dieci anni. E i prezzi seguiranno (sempre che il credito rimanga facile).

Stando così le cose, vale la pena andarsi a rileggere un rapporto pubblicato qualche mese fa da Tre-Tamburini real estate con Cordea Savills per capire come l’andamento del settore immobiliare, e del suo mercato derivato dei fondi immobiliari, impatti sul sistema previdenziale italiano. Abbiamo già visto, in un post precedente, quanto pesi l’esposizione in titoli di stato italiani dei vari fondi pensione italiani. Adesso crediamo sia utile vedere come e quanto le diverse casse di previdenza, pubbliche e private, siano esposte sul mercato immobiliare, per compredere come gli scricchiolii del mattone rischino di far tremare l’intero sistema della previdenza.

Alcuni dati. Lo studio calcola in circa 20 miliardi di euro il patrimonio immobiliare di assicurazioni e fondazioni bancarie italiane. A questi si devono aggiungere altri 23,4 miliardi di patrimonio in pancia alle casse di previdenza, 18,8 dei quali in investimenti diretti, quindi proprietà vere e proprie, e 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari. Tale somma equivale al 21,25% del totale del patrimonio delle casse. Numeri che bastano a comprendere perché quanto l’andamento del mattone abbia un’influenza diretta sulla redditività (e sul patrimonio) di queste entità.

In dettaglio, la previdenza obbligatoria, privata e pubblica, detiene 19,7 miliardi di mattone, i fondi pensione 3,7 miliardi. I 4,6 miliardi investiti in fondi immobiliari dalla previdenza italiana pesano circa il 10% del totale del mercato dei fondi immobiliari (circa 50 miliardi). I18,8 miliardi di investimenti diretti equivalgono al 42% del patrimonio immobiliare dello Stato, valutato in 55,6 miliardi.

Inps e Inail detengono circa sei miliardi di patrimonio, il che porta al 49,8% l’esposizione della previdenza pubblica ai capricci dell’immobiliare. Circa 3,5 miliardi di questo patrimonio è messo (o dovrebbe essere) a reddito, il resto è patrimonio strumentale. Di questi 3,5 miliardi a reddito, 1,3 miliardi sono beni derivanti dalle ex cartolarizzazioni, sostanzialmente fallite.

Se guardiamo ai rendimenti, c’è poco da entusiasmarsi. Pure nella grande varietà di strumenti utilizzati per calcolarli, si evince che le varie casse spuntano rendimenti oscillanti fra l’1 e il 3% dal proprio patrimonio, a fronte di rendimenti di mercato che variano fra il 5 e il 7%.

La previdenza italiana, quindi, è pesantemente esposta nel mattone italiano, addirittura più delle assicurazioni, ma ne ricava ben poco. In caso di crisi prolungata del mercato, le cose non potrebbero che peggiorare.

La soluzione immaginata per sbloccare questo patrimonio incagliato è quella dei fondi immobiliari che, in teoria, dovrebbe gestire con maggiore efficienza i beni. Ma sempre che il mercato tiri, sennò l’unica valorizzazione che le casse otterrebbero sarebbe quella una tantum del trasferimento a prezzi correnti dei beni (valutati al costo storico) al fondo.

Ce n’è abbastanza per paventare un rischio pensioni? I più pessimisti direbbero di sì.

C’è da sperare che ci vengano in soccorso gli investitori internazionali, di sicuro incoraggiati dalla liquidità a basso costo. E se JP Morgan ha visto giusto, il raddoppio degli investimenti degli istituzionali in dieci anni condurrà senza dubbio ad un aumento dei prezzi.

Ma attenzione però. Kiyohiko G. Nishimura, vice governatore della Banca del Giappone, ha pochi giorni fa lanciato un monito: le bolle immobiliari sono da tempo riconosciute come un rischio per l’economia. Si è visto proprio in Giappone a fine anni ’80, e poi, più di recente negli Usa.

Non vorremmo rivederlo di nuovo.