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L’eco del Redde rationem che arriva da Basilea

Leggo con un filo d’apprensione la breve allocuzione di Claudio Borio, capo del dipartimento economico e monetario della Bis, che introduce l’ultimo quaterly report pubblicato ieri. E alla fine penetro la profonda dimensione tragica della sindrome di Cassandra, della quale la presentazione di Borio, forse senza volerlo, è impregnata.

Non riesco a immaginare nulla di più terribile che vedere i segni di qualcosa di straordinario all’orizzonte, usualmente terrificante, e non poter far altro che lanciare allarmi che finiscono col confondersi nel vociare insensato della nostra quotidianità, guadagnando al più centesimi di tempo e pochi grammi d’attenzione.

Mi dico che devo conservare il discorso di Borio per la semplice ragione che quando succederà ciò che paventa, vorrò inviarlo personalmente a tutti coloro che diranno che non avrebbero mai immaginato, che non sapevano, che sono sorpresi. E mi riferisco a quelli, e sono tanti, che hanno detto la stessa cosa non più di sette anni fa, prima che il Grande Crollo mutasse il modo del nostro stare insieme.

Mi consola pensare che l’eco del redde rationem che arriva da Basilea, spaventoso perché eco di un futuro molto più probabile che possibile, ormai si aggiunge a una letteratura che si fa di giorno in giorno più vasta.

Il giorno prima che la Bis rilasciasse la sua rassegna trimestrale, per dire, la voce del gestore di un importante hedge fund si è levata per lanciare un preoccupato monito alla Fed, ormai in aria di rialzo dei tassi, ricordandole il disastro del 1937, che nel mio piccolo avevo raccontato qui, provocato da una restrizione creditizia seguita a un momento di euforia giudicata eccessiva.

Ma, vedete, non è tanto il vociare convulso di chi dalle politiche monetarie della Fed ha solo guadagnato che mi preoccupa. E’ la visione d’insieme che Borio tratteggia con poche semplici parole. E il monito, assai persuasivo, che “se si continuerà a procedere su questo cammino, che non ha precedenti, i confini tecnici, economici, giuridici e persino politici verranno senz’altro messi alla prova. Sarà necessario tenere gli occhi aperti, poiché le conseguenze sarebbero rilevanti, per il sistema finanziario e non solo”.

Ecco il punto. Gli allentamenti monetari hanno generato una quantità enorme di liquidità che ha talmente impregnato il nostro tessuto economico da tramutarsi in uno stillicidio che gocciola dai piani alti della finanza sul tessuto connettivo della nostra società.  La droga del credito facile ha generato una dipendenza tossica della società. E adesso che lo spaccio volge al termine, chi può dire quali saranno i danni che provocherà l’astinenza?

Per adesso i testimoni come Borio possono solo ricordarci ciò che è accaduto e che sta ancora accadendo.

La prima circostanza è quella che potremmo definire la rassegnazione dei creditori: “Alla fine di febbraio 2.400 miliardi di dollari circa di debito sovrano a lungo termine venivano scambiati con rendimenti negativi. Di questi, oltre $1 900 miliardi erano riconducibili ai soli paesi dell’area dell’euro. Da allora, la tendenza discendente non si è fermata. Gli ultimi dati indicano che i rendimenti francesi, tedeschi e svizzeri sono negativi per le scadenze fino a quattro, sei e 10 anni rispettivamente”.

La seconda è che tale deriva sembra irrefrenabile: “Dagli inizi di dicembre sono state più di 20 le banche centrali che hanno allentato la politica monetaria, anch’esse spesso cogliendo di sorpresa i mercati. Alcune, come la People’s Bank of China o la Reserve Bank of India, reagivano soprattutto a condizioni interne; altre, come la Banca nazionale svizzera o la banca centrale danese, a condizioni esterne: i loro tassi di cambio si trovavano o rischiavano di trovarsi sotto enormi pressioni. Più in generale, l’elevata integrazione dei mercati finanziari significa che nemmeno un cambio flessibile è in grado di offrire un isolamento completo. Basti ricordare che il Diritto speciale di prelievo – il paniere delle principali monete di riserva – frutta attualmente meno di 5 punti base a tre mesi. In queste condizioni, un allentamento chiama l’altro”.

E poiché un allentamento chiama l’altro, la conseguenza è che “i rendimenti obbligazionari dell’area dell’euro sembrano aver influenzato significativamente quelli statunitensi. Dopo l’annuncio della BCE i rendimenti del Bund decennale sono scesi di 13 punti base, quelli del corrispondente titolo statunitense di ben nove”. Una novità non da poco nel panorama internazionale che deve anche vedersela con altre due seccature: il calo dei prezzi del petrolio, che peggiora la pressione al ribasso dei prezzi, e il rafforzamento del dollaro, che arriva proprio mentre si parla di aumento dei tassi negli Usa.

“Da metà 2014 – osserva Borio – il tasso di cambio del dollaro ponderato in base al commercio si è apprezzato addirittura del 20% circa – uno degli aumenti maggiori mai registrati in un lasso di tempo analogo; contemporaneamente, si è intensificato il deprezzamento dell’euro nei confronti del dollaro, lasciando intravedere il raggiungimento della parità“.

La domanda cosa implichi tutto ciò per la liquidità globale trova risposta nell’affermazione che, essendo il dollaro ancora la moneta più utilizzata a livello globale. “come attestano gli oltre 9.000 miliardi dollari di credito in essere a favore di soggetti non bancari al di fuori degli Stati Uniti”, “un ulteriore apprezzamento del dollaro, specie se accompagnato da una politica monetaria più restrittiva negli Stati Uniti, tenderà nel complesso a produrre un irrigidimento delle condizioni di finanziamento”.

Ed ecco il secondo punto, paradossale: l’abbondanza di liquidità genera le condizioni per la sua diminuzione, più o meno traumatica. Scorgo in questo logica contraddizione un altro esito tragico del nostro tempo.

Perciò non mi stupisco quando Borio osserva che “allo stesso tempo, sono progressivamente aumentate le vulnerabilità, sulla scia della vigorosa espansione creditizia in vari paesi meno colpiti dalla crisi”. La minaccia rappresentata dai paesi emergenti ormai appartiene a ciò che è notorio e al tempo stesso ignorato. “Va notato – ci ricorda ancora – che in base agli ultimi dati i boom finanziari in alcune economie emergenti avrebbero dato i primi segni di cedimento. In particolare, la crescita delle attività verso la Cina contabilizzate dalle banche dichiaranti alla BRI è rallentata bruscamente, collocandosi ad appena il 3% su base trimestrale nel terzo trimestre 2014. Le attività interbancarie, poi, si sono addirittura contratte”.

Insomma, le fragilità aumentano al crescere della robustezza (presunta) dell’economia globale mentre “a fare da sfondo a questi andamenti è proseguita la ricerca di rendimento, nonché la dipendenza dei mercati dall’accomodamento monetario delle banche centrali”. Dipendenza appunto.

Tutto ciò malgrado, i più ottimisti si contentano di osservare che la volatilità è bassa. Ma c’è sempre un ma: “I mercati non possono mantenersi liquidi quando è ormai da tempo che la via d’uscita si sta restringendo. Non bisogna farsi illusioni al riguardo”.

Non facciamoci illusioni perciò.

Speriamo di cavarcela.

 

Il virus Sovrano annidato nel sistema monetario

Mentre mi aggiro smarrito lungo la strada della storia, m’imbatto in un vecchio articolo di Robert Triffin intitolato “L’avvenire del sistema monetario internazionale” scritto nel lontano 1979 e mi colpisce con la potenza di una rivelazione l’incipit che trovo assai utile condividere con voi. “Non tenterò – scrive Triffin – di predire questo avvenire. Se cedessi a questa tentazione potrei soltanto dire che il sistema monetario internazionale non ha avvenire, poiché i nostri capi politici, e purtroppo i loro consiglieri economici, sono probabilmente incapaci della lucidità e del coraggio necessari per negoziare e realizzare le radicali riforme indispensabili per curare l’inflazione mondiale (erano gli anni Settanta, ndr), la recessione, gli squilibri di bilancia dei pagamenti, le caotiche fluttuazioni dei cambi, lo strisciante protezionismo e via dicendo, cui sembriamo oggi condannati”. E il fatto che l’oggi di ieri somigli disperatamente all’attualità mi fa comprendere quanto inutilmente siano trascorsi questi ultimi trentacinque anni, lungo i quali non abbiamo fatto altro che riprodurre, aggravandole, le criticità che Triffin con grande lucidità elencava nella sua analisi.

Ve ne dico solo alcune. L’incredibile aumento di riserve internazionali, guidate dalla proliferazione del capitale fittizio statunitense. la “fantastica” produzione di liquidità internazionale, guidata dalle banche centrali e da quelle commerciali. Il persistere degli squilibri globali. Qualunque resoconto attuale del Fondo monetario o della Banca dei regolamenti internazionali non direbbe nulla di diverso da quello che scriveva Triffin una vita fa. E tutti, sottotraccia, arrivano alla stessa conclusione: occorre un nuovo assetto del sistema monetario internazionale.

E anche qui non si dice nulla di diverso da quello che diceva Triffin e che già quarant’anni prima, nei terribili anni ’30, dicevano i banchieri centrali della Bis quando discorrevano del riassetto del sistema monetario dopo lo sconquasso del 1931. Anche allora, come più tardi Triffin e come oggi tocca a noi fare, si discorreva dell’importanza di un sistema monetario che fosse fattore di riequilibrio e non di instabilità. E anche allora, come oggi, non si cavò un ragno dal buco.

Nel 1933, quando fu convocata la conferenza di Londra per provare a stabilizzare le valute e rimettere il sistema aureo, opportunamente riformato, al centro del gioco, la defezione americana imposta da Roosevelt fece saltare il tavolo. Si venne a determinare un assetto sostanzialmente multipolare: i paesi del blocco dell’oro, quelli dell’area della sterlina e il gigante americano, che scopriva la sua natura protezionista e mercantilista. L’esito fu disastroso: deflazione peggiore e, più tardi, guerra.

Ottant’anni dopo siamo sempre lì, e non si intravede nessuna risposta. Le banche centrali hanno reagito alla crisi annacquando con un mare di liquidità i problemi, ma senza risolverli. Le riserve sono aumentate vertiginosamente dal 2008 in poi, gli squilibri sono peggiorati, l’inflazione nei paesi avanzati è anomalmente bassa, la disoccupazione in vaste aree del mondo, è ai massimi. Ma del futuro del sistema monetario internazionale non si parla, se non in astruse conventicole che nulla producono oltre a congetture altrettanto astruse destinate ad infrangersi sul muro dell’indifferenza pubblica.

Per evitare lo sconforto mi dico che forse bisogna trovare una risposta semplice a una domanda così complicata. E finisce così che trovo un altro paper, stavolta di poche settimane fa, che la Bis ha rilasciato nel mare magnum delle pubblicazioni che leggeranno solo in pochi: “The international monetary and financial system: its Achilles heel and what to do about it”. Leggendolo riscopro la potenza dei detti latini: nome omen.

Il nome è un presagio, davvero, e quindi un indizio di risposta. E la risposta è assai semplice, come per tutte le cose autentiche: non ci sarà nessun sistema monetario internazionale finché ci sarà una nazione capace di interferirvi o di destabilizzarlo. Ogni sistema monetario internazionale ove si annidi una qualche forma di sovranità nazionale di natura egemonica è destinato naturalmente a fallire, come è successo negli anni ’30, e poi, più tardi, nei ’70 dopo la fine di Bretton Woods, sistema casualmente voluto dagli americani e da loro stessi distrutto. Da allora viviamo, come è stato efficacemente detto, in un non sistema monetario internazionale dove le questioni sollevate da Triffin, non trovando soluzione, si aggravano, in attesa forse di una qualche catarsi che non potrà che essere distruttiva a causa dell’incommensurabile quantità di capitale fittizio che abbiamo generato.

Ma poiché si rischia di risultare apodittici saltando immediatamente alle conclusioni, vi riepilogo per sommicapi l’analisi del paper di Claudio Borio, autore dello scritto.

Il cuore dell’analisi di Borio è che il tallone d’Achille del sistema monetario internazionale sia l’eccesso di elasticità finanziaria, ossia l’attitudine dei regimi politici domestici a esacerbare la loro incacità di prevenire la nascita e lo sviluppo di squilibri finanziari che conducono inevitabilmente a serie crisi finanziarie e macroeconomiche. Detto in parole più comprensibili, gli stati si squilibrano e, così facendo, creano perturbazioni globali. “La visione che privilegia l’eccesso di elasticità finanziaria – scrive – privilegia gli squilibri finanziari più che quelli legati al conto corrente e un pregiudizio espansionario più che di contrazione nel sistema”.

Tale squilibri finanziari, che sono osservabili analizzando il conto capitale e finanziario più che il conto corrente, conducono inevitabilmente a cicli di boom e burst degli asset, che provocano crisi bancarie che, inevitabilmente, si trasferiscono altrove. Nulla di diverso, insomma, rispetto a quello che abbiamo visto egli anni recenti.

Con la conclusione che “il fallimento dell’aggiustamento delle politiche domestiche e le loro interazioni internazionali fa crescere un gran numero di rischi: radica instabilità nel sistema globale, conduce a una versione moderna delle divisive svalutazioni competitive del periodo fra le due guerre, e infine può provocare a una epocale rottura sismica del regime generale, conducendoci verso un’era di protezionismo commerciale e finanziario e, possibilmente, di stagnazione combinata con inflazione”. In sostanza a un combinato disposto fra anni ’30 e anni ’70, epoche nelle quali il sistema monetario è stato soggetto a tragici collassi.

In sostanza qualunque sistema monetario, stante l’analisi di Borio, è condannato al fallimento finché sarà possibile per uno stato grande abbastanza interferire con i suoi squilibri nel sistema globale. In tale visione gli stati nazionali somigliano a un virus, che si annida fra i gangli dell’organismo globale ammalandolo sempre finché non ne provocano prima un grave deperimento e poi la morte.

Per prevenire gli eccessi di elasticità finanziaria è quindi necessario, innanzitutto, che i singoli stati mettano ordine in casa propria e che, successivamente, si metta ordine nel villaggio globale, costruendo meccanismi di tutele e salvaguardia che prevengano le trasmissione dei contagi. E mentre i singoli stati hanno fatto qualche progresso, che abbiamo visto quanto sia relativo, il coordinamento a livello internazionale risulta ancora carente. Aggravandosi tale circostanza per il fatto che “l’eccesso di elasticità finanziaria viene amplificata dalla coesistenza fra un sistema finanziario liberalizzato e regimi monetari concentrati sul controllo dell’inflazione a breve termine”.

E qui individuiamo una delle radici dell’attuale situazione: la liberalizzazione dei movimenti di capitali non accoppiata a un sistema di regolazione globale. Ciò significa che, volendo mantenere la libera circolazione dei capitali, bisogna rafforzare la capacità globale di interferirvi con controlli e regolazione. In tal senso l’analisi di Borio conduce inevitabilmente a una conclusione: serve una grande convergenza verso un’organismo globale che elimini il virus alle radici, neutralizzando gli effetti distruttivi degli stati nazionali sul sistema finanziario globale.

Il problema, quindi, si sposta dal livello economico a quello politico, ammesso che tali sfere siano davvero separate. E ciò non può che coinvolgere il Fondo monetario internazionale, la cui riforma, lo ricordo è stata bloccata dall’inerzia degli Stati Uniti.

Ed ecco che torniano al nostro punto di partenza, ossia all’analisi di Triffin. Oggi, come ieri, non c’è da essere ottimisti circa la capacità degli uomini politici e dei loro consiglieri economici di fare quanto è necessario per far sopravvivere un sistema monetario internazionale capace, come dovrebbe essere, di favorire una crescita non eccessivamente inflazionaria e sufficientemente bilanciata. Quindi delle due l’una: o tale ambizione è irrealistica, oltre che ampiamente anti storica, oppure non siamo ancora pronti perché il virus, e segnatamente gli Stati Uniti che di tale gioco sono i dominus visto che controllano anche il Fmi, è ancora troppo forte.

Cosa dobbiamo aspettarci quindi? I dati raccolti da Borio mostrano che l’ampiezza e la durata dei cicli finanziari è aumentata da quando, dalla metà degli ’80, le policy hanno supportato sempre più i liberi movimenti dei capitali, e ancor di più dagli anni ’90, quando i paesi dell’ex blocco sovietico e la Cina sono entrati nel grande gioco della finanza globale. La curva che fotografa l’ampiamento del ciclo finanziario negli Stati Uniti lo mostra sempre più ampio, e quindi distruttivo, a partire dalla crisi petrolifera del ’73, passando per le crisi bancarie di fine anni ’80 e finendo con la crisi globale scoppiata nel 2008.

Da ciò possiamo dedurre una preoccupante conclusione: servirà uno scossone di inimmaginabile magnitudo per riformare, nel senso sotteso nell’elaborazione di Borio e in quella di Triffin, il sistema monetario internazionale. Per eliminare il virus bisogna eliminare gli stati nazionali, o quantomeno metterli in condizione di non nuocere all’organismo economico globale, sviluppando all’estremo gli organismi internazionali. Replicare, in sostanza, quanto è stato fatto nell’eurozona, che potremmo considerare una sorta di esperimento di laboratorio preparatorio della grande convergenza globale. E poiché la sensazione che stiamo preparando le condizioni per il crash prossimo venturo è alquanto fondata, nulla escude che tale evento distruttivo si verifichi.

Basterà solo un dato che ho estratto dal paper di Borio per capire a che punto siamo. Il livello di debito, pubblico e privato, escluso quello delle banche, dei paesi del G7, che nel 1986 era di poco superiore al 175% del loro Pil nel 2013 ha sfondato il muro del 275%, a fronte di tassi reali passati da circa il 4%, sempre nell’86, a tassi negativi. Un ambiente in cui “la politica può diventare più ostile e divisiva e la situazione economica deteriorare, a un certo punto”. Proprio come successe negli anni ’30.

“Finora – scrive Borio – il setup istituzionale si è dimostrato resiliente abbastanza da assorbire lo shock della grande crisi finanziaria (del 2008, ndr), ma può reggerne un altro? Ci sono segni preoccupanti che la globalizzazione possa ritracciare, di protezionismo finanziario e commerciale, con gli stati che a fatica stanno accettando di perdere sovranità, mentre cresce la tentazione di liberarsi dei debiti accumulati attraverso una combinazione di inflazione e repressione finanziaria”, come negli anni ’70.

Servirebbe neutralizzare le nazioni per affermare l’internazionalismo finanziario, insomma.

Ma questa elementare verità non la troverete negli scritti degli economisti.