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Il lato oscuro delle espansioni fiscali: il caso cinese
Oggi che tornano di moda, coccolate dai potenti e invocate dalle voci roche di popolazioni arrabbiate, le espansioni fiscali vengono definitivamente liberate dall’onere di provare che risolvano assai più problemi di quanti ne provochino. Si evoca il public spending, con imperiale noncuranza circa l’eventuale deficit, facendo credere, e magari credendoci sul serio, che allargando i cordoni tutto andrà bene, come nei peggiori film americani. L’austerità fa male, quindi spendi e guarisci. Eccola qua la politica economica della seconda metà del primo decennio del XXI secolo. Qualcuno obietterà che somiglia a quella di molti decenni trascorsi e che ci ha condotto al nostro tormentato presente, ma è notorio che la memoria breve faciliti certi entusiasmi.
Chi non si accontenti di tifare questo o quello, e magari mantenga spirito critico e curiosità, potrebbe perciò essere interessato alla lettura di un paper uscito qualche settimana addietro per il NBER, (“The long shadow of a fiscal expansion“) che ha il pregio di osservare gli effetti dell’imponente manovra di politica fiscale messa in campo dal governo cinese dopo la crisi del 2008. Ovviamente sarebbe errato dedurne che ciò che è valso per la Cina varrà anche per altre economie. E tuttavia sarebbe altrettanto inopportuno sottovalutare una semplice circostanza, che il caso cinese conferma ancora una volta: quando si manovra l’economia con la politica monetaria o quella fiscale, le conseguenze non intenzionali sono assai più pervasive e impreviste di quanto chiunque fosse in grado di anticipare. E sovente dannose.
Cominciamo dai numeri. Fra il 2009 e il 2010 la Cina mise in campo quattro trilioni di yuan di stimolo fiscale, equivalente al 12% del Pil. Per capirci, sarebbe come se il governo italiano mettesse in campo spesa aggiuntiva per 180 miliardi di euro in un biennio. Lo stimolo fiscale cinese fu finanziato tramite l’attivazione di veicoli di finanza locale, quindi fuori dal bilancio dello stato, che presero in prestito e spesero seguendo le indicazioni dei governi locali.
Il problema è che questi veicoli non smisero di spendere alla fine del 2010, quando l’attività doveva formalmente interrompersi. “Dopo la fine del programma di stimolo, la spesa da questi veicoli fu di circa il 10% del Pil ogni anno. Una quota crescente di questa spesa riguardava progetti commerciali essenzialmente privati”. E questo ci dice le prime due cose da ricordare: intanto che non è facile fermare una macchina che divora soldi una volta che sia stata attivata (e questo noi italiani dovremmo saperlo bene) e poi che a un certo momento se ne perde semplicemente il controllo.
Se guardiamo ai risultati, il paper ci dice che “la spesa fuori bilancio dei governi locali è probabilmente responsabile dell’aumento del 5% nel tasso aggregato di investimento e del declino del 7-8% del surplus del conto corrente della bilancia dei pagamenti registratosi dal 2008”. Non esistono pasti gratis. Neanche in Cina.
Infine lo studio sostiene che “i governi locali hanno usato il loro accesso a risorse finanziarie per facilitare l’accesso al capitale a imprese private favorite. Ciò ha potenzialmente peggiorato l’efficienza generale dell’allocazione del capitale”. Con la conseguenza che “gli effetti di lungo periodo di queste spese fuori bilancio dei governi locali può essere un declino permanente nel tasso aggregato della produttività e del Pil”. L’esito giapponese del miracolo cinese, appunto.
Paul Krugman, commentando la scelta cinese di un maxi piano di stimolo fiscale scrisse nel 2010 che la Cina si era impegnata “in uno stimolo molto più aggressivo di quanto abbia fatto ogni nazione occidentale e (questo stimolo, ndr) ha funzionato bene”. Capisco che i premi nobel siano esentati dall’onere della prova, tantomeno a posteriori. Questo non vuol dire che dicano cose sensate.
La disinflazione petrolifera fra esplodere i debiti cinesi
Sicché in Cina devono vedersela con un calo dell’inflazione che minaccia di rendere insostenibile la montagna di debiti, in particolare del settore immobiliare che complessivamente ha superato i 25 trilioni di yuan, cresciuta di oltre 15 dal 2010, 12 se si escludono i debiti collegati ai mutui.
Questa situazione si inserisce in un contesto dove i prezzi sono in deciso calo – circostanza giudicata necessaria dal Fmi nel suo ultimo Global financial stability report – pure se a tale necessità si aggiunge la complicazione che la disinflazione rischia di far finire in fibrillazione il sistema finanziario, visto che il tasso effettivo reale dei prestiti è di poco inferiore al 6%.
Non che il Fmi dica nulla di nuovo. Che sul capo della Cina pendesse un Mattone di Damocle era noto da tempo. La novità è che il filo che ancora tiene sospeso il rischio di un disordinato deleveraging si sta assottigliando, in un momento peraltro in cui la Cina dà segnali di rallentamento, cui certo contribuisce la montagna di debiti accumulata nella fase successiva alla crisi, quando i governanti cinesi decisero di rimediare al crollo della domanda globale che teneva in piedi il loro Pil con un volume inusitato di investimenti pubblici, pompando fino allo sfinimento l’industria delle costruzioni e quella ad essa collegate.
Ciò ha indotto la banca centrale cinese a allentare la politica monetaria replicando in sedicesimo quanto fatto dalle altre. Per dire: è stato aumentato il loan to value, ossia l’ammontare delle risorse che si possono prendere in prestito sul totale del valore dell’immobile, scaricando di fatto sul bilancio della banca centrale i rischi del settore privato. Lo scopo evidente è incoraggiare la domanda di abitazione da parte delle famiglie e provare a sostenere i prezzi, in deciso calo.
Il rapporto del Fmi ha l’utilità di aggiornare lo stato dei rischi della Cina, soprattutto in relazione alla sua capacità di contagio, veicolata dagli oltre 130 miliardi di debito estero emesso a partire dal 2010.
Il Fmi ricorda le difficoltà nelle quali, nel gennaio scorso, si è trovato uno sviluppatore, Kaisa, che mancò un pagamento creando un certo disordine negli spread del mercato asiatico delle obbligazioni high-yeld. Il Fmi ne deduce che “l’incertezza collegata alla seniority dei creditori esteri e il loro accesso ai collaterali può aumentare bruscamente”. Con tutto ciò che ne potrebbe conseguire.
Tanto più in un contesto di mercato dove i prezzi declinanti – i prezzi delle case nuove sono visti in calo e previsti in decrescita – sta erodendo i flussi di cassa delle imprese e la loro capacità di ripagare i debiti.
Ciò a fronte di un aumento dell’indebitamento dei settori pubblico e privato che fra il 2007 e il 2014 è cresciuto dell’81% del Pil, 58 punti del quale nel settore corporate.
I settori a rischio, che includono oltre alle costruzioni, il chimico e le miniere, sono gli stessi che più pesantemente si sono indebitati dal 2009 in poi. E se da un lato il Fmi definisce “benvenuto” il ritracciare dai prezzi, dall’altro non può non notare come ciò comporti rischi sostanziali per i creditori.
Per le banche il rischio sembra gestibile, nota il Fmi. “Ma le loro esposizioni fuori bilancio, alcune delle quali sono servite a eludere le politiche macroprudenziali, possono essere molto più alte”. Il che potrebbe erodere rapidamente i loro ancora ampi buffer di capitale.
In questa situazione sono intervenuti i ribassi petroliferi, a complicare la situazione dell’inflazione, da un lato, e della gestione dei loro debiti, dall’altro. E non solo: “Il declino dei prezzi petroliferi ha tagliato la profittabilità delle compagnie energetiche, particolarmente in Cina”, anche se le prime difficoltà di ripagare i debiti per il momento si sono manifestate in Argentina, Nigeria, Brasile e Sud Africa.
A difendere la Cina per ora basta l’mponente muro rappresentato dall’ingente stock di riserve finora accumulate.
Ma la storia ci ricorda che le grandi muraglie, sottoposte alle pressioni, a un certo punto crollano.
Non c’è nessun motivo per il quale la Cina dovrebbe fare eccezione.
