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La disinflazione petrolifera fra esplodere i debiti cinesi

Sicché in Cina devono vedersela con un calo dell’inflazione che minaccia di rendere insostenibile la montagna di debiti, in particolare del settore immobiliare che complessivamente ha superato i 25 trilioni di yuan, cresciuta di oltre 15 dal 2010, 12 se si escludono i debiti collegati ai mutui.

Questa situazione si inserisce in un contesto dove i prezzi sono in deciso calo – circostanza giudicata necessaria dal Fmi nel suo ultimo Global financial stability report – pure se a tale necessità si aggiunge la complicazione che la disinflazione rischia di far finire in fibrillazione il sistema finanziario, visto che il tasso effettivo reale dei prestiti è di poco inferiore al 6%.

Non che il Fmi dica nulla di nuovo. Che sul capo della Cina pendesse un Mattone di Damocle era noto da tempo. La novità è che il filo che ancora tiene sospeso il rischio di un disordinato deleveraging si sta assottigliando, in un momento peraltro in cui la Cina dà segnali di rallentamento, cui certo contribuisce la montagna di debiti accumulata nella fase successiva alla crisi, quando i governanti cinesi decisero di rimediare al crollo della domanda globale che teneva in piedi il loro Pil con un volume inusitato di investimenti pubblici, pompando fino allo sfinimento l’industria delle costruzioni e quella ad essa collegate.

Ciò ha indotto la banca centrale cinese a allentare la politica monetaria replicando in sedicesimo quanto fatto dalle altre. Per dire: è stato aumentato il loan to value, ossia l’ammontare delle risorse che si possono prendere in prestito sul totale del valore dell’immobile, scaricando di fatto sul bilancio della banca centrale i rischi del settore privato. Lo scopo evidente è incoraggiare la domanda di abitazione da parte delle famiglie e provare a sostenere i prezzi, in deciso calo.

Il rapporto del Fmi ha l’utilità di aggiornare lo stato dei rischi della Cina, soprattutto in relazione alla sua capacità di contagio, veicolata dagli oltre 130 miliardi di debito estero emesso a partire dal 2010.

Il Fmi ricorda le difficoltà nelle quali, nel gennaio scorso, si è trovato uno sviluppatore, Kaisa, che mancò un pagamento creando un certo disordine negli spread del mercato asiatico delle obbligazioni high-yeld. Il Fmi ne deduce che “l’incertezza collegata alla seniority dei creditori esteri e il loro accesso ai collaterali può aumentare bruscamente”. Con tutto ciò che ne potrebbe conseguire.

Tanto più in un contesto di mercato dove i prezzi declinanti  – i prezzi delle case nuove sono visti in calo e previsti in decrescita – sta erodendo i flussi di cassa delle imprese e la loro capacità di ripagare i debiti.

Ciò a fronte di un aumento dell’indebitamento dei settori pubblico e privato che fra il 2007 e il 2014 è cresciuto dell’81% del Pil, 58 punti del quale nel settore corporate.

I settori a rischio, che includono oltre alle costruzioni, il chimico e le miniere, sono gli stessi che più pesantemente si sono indebitati dal 2009 in poi. E se da un lato il Fmi definisce “benvenuto” il ritracciare dai prezzi, dall’altro non può non notare come ciò comporti rischi sostanziali per i creditori.

Per le banche il rischio sembra gestibile, nota il Fmi. “Ma le loro esposizioni fuori bilancio, alcune delle quali sono servite a eludere le politiche macroprudenziali, possono essere molto più alte”. Il che potrebbe erodere rapidamente i loro ancora ampi buffer di capitale.

In questa situazione sono intervenuti i ribassi petroliferi, a complicare la situazione dell’inflazione, da un lato, e della gestione dei loro debiti, dall’altro. E non solo: “Il declino dei prezzi petroliferi ha tagliato la profittabilità delle compagnie energetiche, particolarmente in Cina”, anche se le prime difficoltà di ripagare i debiti per il momento si sono manifestate in Argentina, Nigeria, Brasile e Sud Africa.

A difendere la Cina per ora basta l’mponente muro rappresentato dall’ingente stock di riserve finora accumulate.

Ma la storia ci ricorda che le grandi muraglie, sottoposte alle pressioni, a un certo punto crollano.

Non c’è nessun motivo per il quale la Cina dovrebbe fare eccezione.

 

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I debiti nel mondo superano quota 100 trilioni di dollari

La Storia, in fondo, si compone di piccoli momenti. E quando gli storici di domani arrancheranno cercando di capire la follia del nostro tempo, di sicuro si imbatteranno in questo dato che è davvero storico. Nel senso che mai eravamo arrivati così in alto: 100 trilioni di dollari. Ovvero 100 mila miliardi di dollari. Sto parlando del livello globale di debiti, ossia obbligazioni, che girano intorno al pianeta. Che quindi equivalgono a 100 trilioni di crediti.

Mai il mondo ha conosciuto un livello di ricchezza così elevata. E neanche di debiti così alti.

Se considerate che secondo gli ultimi dati della Banca Mondiale il Pil del mondo del 2012 è stato di circa 74 trilioni, pure al netto dell’approssimazione, viene fuori che il mondo ha un rapporto debito/pil intorno al 138%. Se fosse solo debito pubblico ne verrebbe fuori che noi italiani siamo quasi virtuosi. Ma nella montagna ci stanno tutti: stati, cittadini, imprese, banche. Il debito coatto non risparmia ormai nessuno.

Prima di confondervi con gli zeri, che sono davvero troppi, soffermatevi a riflettere sul fatto che quantità siffatte di solito albergano nell’infinitamente grande – le distanze stellari, ad esempio, – o nell’infinitamente piccolo. Si stima, ad esempio, che 100 mila miliardi sia il numero di cellule presenti nel corpo di un adulto di stazza media. I trilioni di carta che girano per il mondo, perciò, s’iscrivono di diritto nella categoria degli assurdi reali. Ossia di cose che ci dicono esistano, ma di cui è assai difficile trovare una prova. Dobbiamo fidarci. Ossia avere fede in quello che ci dicono. E d’altronde se non ci fidassimo, tutti questi debiti non potrebbero camminare per il mondo. Diverrebbero evanescenti.

Fidiamoci dunque. E poiché il dato arriva dalla Bri, che ha raccolto una serie di statistiche in un pregevole articolo del suo ultimo quaterly report, dobbiamo concedere a questo dato una fiducia rafforzata. Contempliamolo. Immaginiamo di camminare su questa montagna di debiti che mai potrà essere ripagata, e che si contenta di perpetuarsi al semplice scopo di rafforzare il dominio di chi questi debiti può esigerli. Ossia i creditori. Facile soffrire di vertigini.

Ma la vera vertigine è un’altra. Se la guardiamo da un punto di vista politico, un livello di debito così elevato autorizza un corrispondente esercizio del potere da parte di chi questi crediti li detiene. Il potere dei creditori, insomma, si esalta al crescere dei debiti. Così come le misure che possono mettere in campo per esigerli.

Detto in parole ancor più chiare, al crescere dei debiti aumenta il livello di tirannia nel mondo. Questo però la Bri non lo dice.

Se tralasciamo le considerazioni morali, che pure dovrebbero essere all’origine del ragionare economico (Adam Smith era un filosofo morale, lo ricorderete), rimane solo da contemplare esterrefatti la montagna di debito che solo nel 2001 valeva “appena” 40 trilioni e che in poco più di un decennio è più che raddoppiata.

In particolare, la massa debitoria aggregata, che era 70 trilioni nel 2007, è arrivata a 100 nel 2013. Quindi in sei anni è cresciuta quasi quanto era cresciuta nei decenni antecedenti al 2001.

Se non è storia questa…

Scopriamo, guardando i dati disaggregati, che il grosso di quest’esplosione di debiti si deve alle amministrazioni pubbliche, che dal 2008 in poi hanno dovuto moltiplicare le emissioni di bond per tappare le falle aperte dai debitori privati nelle varie banche. Con la conseguenza che sul totale stellare (o cellulare, fate voi) di 100 trilioni, circa la metà sono debiti pubblici. Per essere precisi, parliamo di 43 trilioni di dollari, cresciuti dell’80% rispetto al 2007.

E scopriamo in questa storica socializzazione delle perdite private la sostanziale acquiescenza degli stati ai desiderata dei creditori che, come ci insegna sempre la storia, scrivono le cronache, compresa questa che state leggendo. E’ pressoché impossibile sfuggira alla tirannia del creditori. Troppo ampia è l’ipoteca che hanno acceso sulla Storia.

Chi sono gli investitori che hanno assorbito gli ingenti volumi di nuove emissioni? Secondo gli studiosi della Bri, ben 27 trilioni di titoli di debito erano detenuti da investitori non residenti, che pesano quindi circa il 25% sul totale delle consistenze globali. il resto, quindi circa il 75% era riconducibile a investitori nazionali.

Anche questa è una delle conseguenza della crisi. Gli investimenti transfrontalieri, vuoi a titolo di riserva o di semplice investimento di portafoglio, si sono contratti del 29%, facendo sospettare a molti studiosi che sia in conrso una processo di profonda revisione della pratica dell’integrazione finanziaria che ha guidato gli albori del XXI secolo. Ma potrebbe pure essere una circostanza momentanea, come pure lascia ipotizzare il fatto che il grosso della contrazione negli investimenti transfrontalieri l’abbia vissuta la zona euro.

Già: la disponibilità transfrontaliera di titoli di debito dell’eurozona, a fine 2012, era di circa il 47% del totale, circa dieci punti in meno rispetto al picco del 2006. E lo stesso è accaduto nel Regno Unito. Sicché è  toccato agli investitori nazionali sottoscrivere questa montagna di debiti, sperando che gli stati ce la facciano a reggere la ripida pendenza.

Al contrario è accaduto per i titoli di debiti americani che in gran parte sono finiti in mano a investitori esteri. La stessa cosa è accaduta per i titoli di debito emessi da prenditori delle economie emergenti. La quota totale in mano agli investitori esteri è salita al 12%, il doppio del 2008. E’ su quest’ultima montagnola di debiti che adesso si è acceso il faro degli investitori, sempre più preoccupati che i paesi emergenti non riescano a rispettare i patti.

Ma per adesso la resa dei conti è lontana.

Le imprese europee sedotte (dal debito) e abbandonate (coi debiti)

E’ una storia amorosa, con i suoi risvolti di tradimenti e abbandoni, quella che si è consumata nell’ultimo decennio fra le imprese e le banche europee. E come tutte le storie amorose del nostro tempo, si dibatte fra il sogno di un lieto fine e una realtà da fine assai triste, dove i crediti elargiti con graziosa generosità del passato sono diventati debiti vieppiù inesigibili. Il che toglie molto romanticismo a tutta questa vicenda.

A leggerla poi, questa storia, dall’ultimo bolletino della Bce qualunque sentimento amoroso evapora. C’è solo la triste e incolore realtà dei bilanci a farla da padrona. E i bilanci, come i creditori, sono implacabili. Perciò per provare a renderla intellegibile, ho pensato di dividerla in due atti: la seduzione e l’abbandono.

Atto primo: la seduzione. Il corteggiamento parte silenzioso nel 2001. L’integrazione monetaria, come ogni primavera, allenta il buon senso. L’eurozona, fresca di matrimonio, si abbandona a un consumo febbrile di liquidità. La cavalcata del credito, che viene elargito incurante di ogni fondamentale a chicchessia dura un settennio intero, alla fine del quale, all’inizio del 2007, i prestiti delle imprese finanziarie, quindi banche in testa, alle imprese non finanziarie, arrivano a sfiorare i 500 miliardi di euro, un po’ meno della metà totale della montagna di debito privato raggiunto dal settore corporate europeo. L’indebitamento corporate procede senza freni per tutto l’anno. Nell’ultimo quarto i prestiti alle imprese raggiungono quasi quota 600 miliardi su un totale di debiti di oltre 1.400. Il debitore corporate europeo raggiunge il suo picco. La calda estate del credito europeo, però, prepara l’autunno.

Atto secondo: l’abbandono. Nel 2008 inizia la contrazione. Ancora contenuta nel primo trimestre, quando il totale dei debiti scende sotto i 1.400 miliardi, di cui quasi 600 di provenienza bancaria, si fa pronunciata nel secondo, quando il totale crolla a 1.200 e i prestiti bacanri a 500. Alla fine dell’anno il totale è sceso intorno ai 900 miliardi e la quota bancaria a poco più di 400. Il de-leveraging prosegue tumultuoso nel 2009, l’anno orribile dell’eurozona, al termine del quale il totale del credito concesso alle imprese scende addirittura sotto i 400 miliardi e i prestiti bancari diventano addirittura negativi.

L’abbandono è senza pietà, come vuole la prassi amorosa. Nel primo trimestre del 2010 i prestiti bancari diventano negativi per 100 miliardi e rimangono assenti sostanzialmente per tutto l’anno. Le banche si guardano bene dal prestare alle aziende che, per trovare di che vivere, devono sperimentare altre vie, emettendo azioni, titoli di debito o gestendo i crediti commerciali. Ciò malgrado le imprese europee non vengono risparmiate dal gelido inverno del credito.

Atto terzo: come finisce un amore. I dati del bollettino della Bce, aggiornati ai primi due trimestre del 2013, mostrano una curva di credito circolante ormai ridotto al lumicino, sotto i 400 miliardi, con il credito bancario che zavorra il totoale con quasi -200 miliardi. Le banche hanno altro da fare che prestare i soldi alle aziende. Più facile e meno rischioso comprare titoli di stato.

E ciò malgrado la Bce nota con una certa soddisfazione gli effetti benefici di tale de-leveraging. “Il rapporto fra debito delle imprese non finanziarie e il Pil ha continuato ad aumentare anche dopo lo scoppio della crisi, toccando il livello massimo del 105% nel 2009-2010 (..). Sebbene si osservi solo una lieve correzione nell’insieme dell’area, il quadro di riduzione della leva societaria appare più preciso a livello nazionale e per settore di attività”.

Già, la famosa frammentazione della zona euro. Prima che si frammentassero gli spread, la frammentazione era quella del credito. Nel senso che all’interno dei singoli stati ci sono state profonde differenze nell’elargizione del credito. Una cosa in comune però ce l’hanno, gli stati: fino al 2000 i debiti delle aziende europee erano contenuti. Poi l’indebitamento è esploso.

Ma non dite che è colpa dell’euro.

In Irlanda, per dare un’idea, il settore corporate è passato da poco meno il 100% di debito corporate sul Pil al 226% del picco. Ora le aziende irlandesi sono al 218%. “Nel secondo trimestre del 2013 le società (in alcuni paesi, ndr) hanno registrato progressi nella riduzione degli elevati livelli debito/pil”, nota la Bce. Ma rimangono ancora elevati in paesi fragili, come Portogallo e Cipro, dove la crisi ha fatto crollare il prodotto e quindi i debiti corporate sono rimasti a un livello assai superiori della media euro.

La buona notizia, visto che bisogna pur trovarne almeno una quando finisce un amore, è che si è ridotta la quota di debito a breve utilizzata per finanziare quello a lungo, passata, nell’area, dal 33% del 2000 al 24% del 2013. “Da questo punto di vista – nota la Bce – le società sembrano essere relativamente ben protette a fronte di brusche variazioni delle condizioni di fnanziamento di breve termine”. Sempre che si finanziano a tassi fissi e non variabili, visto le probabili future tensioni sui tassi. Anche perché in paesi come la Finlandia e l’Estonia oltre l’80% di questi prestiti, sia a breve che a lungo, sono stati contratti a tasso variabile.

Insomma: la nostra storia d’amore si conclude come da copione: con un bel divorzio.

Difficile capire però chi pagherà gli alimenti.