Etichettato: Geminello Alvi

Il nuovo matrimonio fra Tesoro e Banca centrale

Ormai è chiaro a chiunque abbia orecchie buone abbastanza da intendere che c’è un crescente consenso a tutti i livelli – dall’accademia alla politica fino alla cosiddetta società civile – verso un allargamento sostanziale della sfera pubblica nell’azione economica. Ciò che sta accadendo nel nostro paese, dove ormai l’invadenza statale sta raggiungendo livelli parossistici fra gli applausi del pubblico pagante (le tasse), non è altro che il riflesso di un movimento più ampio che è innanzitutto culturale. Una sorta di riflusso.

Se ne trovano tracce in ogni dove, a cominciare dall’espansione monstre dei debiti pubblici (ma anche privati), giustificata con le esigenze della pandemia, che forse nasconde pulsioni assai più profonde. Il desiderio, vale a dire, che lo stato si occupi di noi assai più di quanto abbia fatto sinora, pure se al prezzo di un qualche grado di libertà. Che poi è il problema. Una volta presa questa china diventa sempre più difficile tornare indietro.

Ma poiché questa è l’aria che tira, tanto vale approfondirne gli esiti utilizzando le ampie e documentate ricognizioni che molti osservatori propongono per provare a delineare azioni possibili – quelle che si chiamano policy – per le gestione del mondo in questo inizio di secolo XXI. Tante analisi, tutte molto intelligenti, che arrivano sostanzialmente alla stessa conclusione: serve un’azione coordinata fra il Tesoro e la Banca centrale per gestire il dopo pandemia. Più potere pubblico, appunto.

Questa esortazione, è il cuore dell‘ultimo Geneva Report che già dal titolo (“It’s All in the Mix: How Monetary and Fiscal Policies Can Work or Fail Together”) ci dice tutto quello che c’è da sapere. Ossia che “Il concetto di policy mix, praticamente scomparso dai libri di testo di economia, è tornato con grande forza”. Una sorta di vendetta della Storia.

In sostanza stiamo assistendo al più classico dei movimenti di reazione, così simile a quelli passati raccontati ad esempio nella Grande Trasformazione di Karl Polanyi, che inverte una tendenza maturata nell’ultimo trentennio – il tanto vituperato neoliberismo che ha prodotto la globalizzazione e la crescita delle disuguaglianze – e che lentamente sta conducendo le nostre società verso un capitalismo sempre più regolato e quindi ad alto tasso di presenza pubblica nell’economia. Quell’ideale cinese, preconizzato da Geminello Alvi diversi anni fa.

Poco importa quanto sia sensata questa tendenza. Importa che dobbiamo farci i conti. E questo gli autori del Rapporto lo sanno bene. Per questo già dalle prime righe avvertono che “mentre un mix di politiche monetarie e fiscali è a volte necessario, la storia ha dimostrato che senza un forte e credibile quadro istituzionale, il coordinamento monetario-fiscale può finire in lacrime”.

Lacrime di coccodrillo, viene da dire. Dovremmo avere imparato – ma evidentemente non ancora – che gli avvertimenti degli apprendisti stregoni della teoria economica possono poco contro le forze che contribuiscono ad evocare con le loro esortazioni. Dire che il governo e la banca centrale devono stare attenti a quello che fanno non basta ad evitare i guai che derivano dal fatto che – sostanzialmente – non sanno quello che fanno, perché non lo sa nessuno.

Tant’è. Se la credibilità “è la chiave”, come ripetono i nostri autori del Rapporto, servono anche politiche fiscali sostenibili capaci di ampliare la credibilità della Banca centrale senza minacciare l’avvento di quella fiscal dominance che tutti (a parole) dicono di voler evitare. A sua volta la Banca centrale deve contribuire “alla sostenibilità dei debiti” riducendo il rischio di crisi di panico. E sappiamo già come.

Questo nuovo matrimonio – finalmente non più morganatico – fra Tesoro e Banca centrale deve essere evidentemente celebrato a spese dei mercati, che dovranno contentarsi del banchetto pagato dai creditori (o almeno da buona parte di questi) come ha spiegato senza troppi imbarazzi qualche tempo fa Oliver Blanchard.

E così il cerchio della nostra narrazione (o favoletta) pubblica si chiude. I creditori, ossia coloro che hanno goduto della bonanza neoliberista, pagheranno il conto dei debitori, ossia di chi ne ha sofferto le storture, sotto l’egida benigna del Tesoro e della BC che officeranno questa nuova Grande Trasformazione (rectius, Redistribuzione).

E tutti vissero felici e contenti.

Le metamorfosi dell’economia: Il capitale asociale

Il capitale vero, ha scritto Geminello Alvi nel suo Capitalismo, verso l’ideale cinese, “è operosità scontata con parsimonia, quello fittizio sono le banche centrali che fingono un risparmio e una crescita inesistenti in sconto fin troppo prodigo”, osservando in seguito come l’esito della crisi, in fin dei conti, sia stata la conversione del capitale privato fittizio, creato dal sistema bancario, in debito pubblico, acquisizione ormai pacifica ma ancora poco popolare nel 2011, quando il libro è stato scritto.

E mentre leggo del capitale fittizio, così egregiamente descritto da Alvi, ripenso a Sismondi, che nel 1827, nella parte finale dei suoi Nuovi principi di economia politica, scriveva cosa simile ma con parole differenti, accennando stavolta al debito dello stato, a sua volta “un debito immaginario” che economisti confusi e governanti prodighi avevano contrabbandato come costituente della ricchezza nazionale. Pura rappresentazione, perciò, e fardello materiale per chi vivrà in futuro che con ben poco sforzo diventa un giogo spirituale.

Sistema bancario e debito dello stato sono potentissimi generatori di capitale fittizio. Da almeno tre secoli, pure se mai come ai tempi nostri, queste due entità hanno trovato nella sintesi della banca centrale lo strumento ideale per moltiplicare un denaro virtuale nascosto dietro un debito inesigibile, e perciò illusorio. La banca centrale “finge”, per dirla con le parole di Alvi, una crescita e un risparmio usando le previsioni del futuro per orientare le sue scelte di politica monetaria. Il governo fa lo stesso quando decide come impiegare il frutto della tassazione, nei suoi vari documenti di programmazione economica. L’esito che osserviamo è un moltiplicarsi di capitali virtuali, mentre l’economia langue, che ci dicono esser necessari per evitare che deperisca del tutto.

Secondo una delle tante agenzie di rating, nel 2016 le emissioni di debito pubblico nel mondo per 131 paesi arriveranno a 6,7 trilioni di dollari, che sono 6.700 miliardi, per i meno avvezzi all’aritmetica dell’assurdo, consolandosi persino col notare, l’agenzia, che sono in calo rispetto all’anno prima, quando erano quasi 6.900, a fronte di uno stock di debito cumulato che supera i 42 trilioni.

Questo capitale immaginario, come lo chiamerebbe Sismondi, è solo una parte e neanche la più grande della montagna di debito che i privati e gli stati hanno generato e accumulato finora facendolo corrispondere ad un credito altrettanto immaginario che oggi si sconta a tassi azzerati. Si calcola che i debiti abbiamo ormai superato i 130 trilioni di dollari, che sono 130.000 miliardi. E questo ammontare non tiene conto dei debiti impliciti che sono nascosti nelle garanzie pubbliche.

Le banche centrali, ormai, sono divenute emittenti instancabili di capitale fittizio, a livelli che Alvi forse neanche immaginava nel 2011. Qualche tempo fa è stato calcolato che gli asset delle principali banche centrali abbiamo superato i 22 trilioni e dentro c’è di tutto: debito pubblico e privato acquistato col miracolo della fiat money nel disperato tentativo di rendere questa costruzione immaginaria, che in pratica sostiene l’intero edificio finanziario, ancora credibile per tutti coloro che sono chiamati a sostenerla. Quindi ognuno di noi.

Meraviglia dell’immaginazione umana e probabile concausa della nostra depressione, che è spirituale prima ancora che finanziaria, il capitale fittizio connota se stesso per una semplice caratteristica: è bugiardo. Si tratta di un debito che si contrae non per ripagarlo, ma per costantemente rinnovarlo. I 6,7 trilioni che saranno emessi nel 2016 sono la tabulare dimostrazione di questa evidenza. In quest’inganno, di cui tutti sono consapevoli e che anzi viene incoraggiato, si cela la sostanza del nostro benessere e insieme la sua più potente insidia. Fondato sulla menzogna, il capitale fittizio non può che generare sfiducia, che cresce al suo moltiplicarsi, e quindi crisi costanti ogni qual volta qualcuno vada e vedere il bluff nascosto nei bilanci bancari o in quelli pubblici.

In quanto generatore di fiducia volatile, o di sfiducia se preferite, il capitale fittizio è squisitamente asociale. Funziona finché l’avidità è maggiore della paura, sentimenti entrambi divisivi, che però sono il suo fondamento e, insieme, le costituenti dell’egonomia che ha invaso come una malattia l’agire economico.

In quanto bugiardo, il capitale fittizio instaura una relazione falsa fra i soggetti che lo originano, quindi il debitore e il creditore. Tale falsità si contagia nella società come una pestilenza e genera ricchezza falsa, come notava Sismondi quasi duecento anni fa, che finisce intrappolata nei giochi della finanza e non produce scambi perché non corrisponde a bisogni reali ma a semplice hybris immaginaria. Così facendo intrappola ognuno di noi nell’utopia di una ricchezza tanto infinita quanto irraggiungibile. E così ci sfinisce.

Questa mostruosa ipoteca sul nostro futuro, grava perciò anche sulla nostra immaginazione, che è chiamata a sostenerla fiduciariamente. E perciò ci svuota, lasciandoci esausti a contemplare una ricchezza virtuale che stimola i nostri peggiori istinti.

Quel che è peggio, tale deriva prosegue in perfetta soluzione di continuità. Dal 2008 il debito globale, che già sfiorava il 200 per cento del prodotto interno lordo del mondo, ora ha superato il 250% e tutto ciò che i decisori sono riusciti a fare, nel frattempo, è incantare il mondo con astruse magie monetarie che si propongono soltanto di rendere sostenibili questi debiti e quindi perpetuarli. Viviamo letteralmente immersi dentro l’illusione monetaria ed esposti al rischio costante di un risveglio apocalittico.

A fronte di tutto ciò si generano enormi ricchezza, che sono altrettanto virtuali, a fronte delle quali le società espongono crescenti povertà, avendo in comune, i ricchi come i poveri, la sensazione di camminare insicuri lungo un crinale che affaccia sulla disgrazia.

Che fare dunque?

Gli economisti dicono che la via maestra per abbattere il peso del debito è favorire la crescita ma non sanno più come evocare questa sorta di fantasma risanatore. Chiunque legga le ricette proposte dai principali osservatori internazionali ne ottiene solo rappresentazioni confuse e pensieri obsoleti che mutano col mutare delle stagioni.

La verità, nuda e cruda, è che dovremmo disincantarci dall’illusione monetaria, ma non possiamo. Chiunque pensi di fermare questa sorta di caleidoscopio impazzito si espone all’accusa di sabotatore e i più avveduti, che lanciano moniti sull’inevitabile esito del capitale fittizio – la sua distruzione – vengono emarginati.

In queste condizioni possiamo solo provare a cavalcare l’onda, provando però a decidere dove vogliamo arrivare. Il capitale asociale appartiene ormai al nostro bagaglio istituzionale, ci piaccia o no, e dobbiamo farci i conti. Siamo costretti a sostenere questa costruzione immaginaria, sapendo che è immaginaria. Ci troviamo insomma in quella condizione che Walter Bagehot, un secolo e mezzo fa nel suo ancora ottimo libro, Lombard street, illustrava a proposito del sistema bancario della riserva unica del Regno Unito fondato sulla banca centrale: un sistema che si provava essere foriero di infiniti problemi ma ormai talmente insito nell’organizzazione sociale che nessuno non solo non immaginava ma neanche desiderava metterlo in discussione.

Il nostro sistema finanziario, in fondo, non è altro che una evoluzione di quel tempo. La turbofinanza, così odiata e amata insieme, è una costituente delle nostre società che non potremmo estirpare senza distruggere tutto il resto. Sarebbe saggio prenderne atto e provare a utilizzarla con giudizio veicolando lentamente le nostre società verso una nuova evoluzione.

Quale? Se davvero l’unico modo per guarire dall’ossessione del debito è aumentare la crescita, ciò significa che dovremmo sostituire l’economia reale a quella finanziaria, ossia scambiare il capitale fittizio, che è asociale, con quello reale, che sociale. Ma prima dobbiamo ri-conoscerlo.

E questo richiede un piccolo approfondimento.

(18/segue)

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Le metamorfosi dell’economia: Il tasso di disinteresse

M’interrogo pigramente su una questione che molti giudicherebbero di lana caprina, derubricandola a quello cui somiglia: una curiosità lessicale. Perché, mi domando, il saggio di rendimento del capitale finanziario è stato chiamato interesse? Cosa c’entra l’interesse, che evoca passione, motivazione, attenzione, con un cosa arida come un calcolo?

Poiché alla fine la domanda pare oziosa anche a me, decido di ignorarla. Ma quella, insistente, si ripresenta. Bussa alla porta della mia attenzione, prendendo a pretesto il fatto che, discorrendo di come l’economia stia vivendo la sua metamorfosi più profonda, non possa fare a meno di ragionare su un concetto, il tasso di interesse, che al pari degli altri che abbiamo esaminato – la ricchezza, il valore, la moneta – ha suscitato infinite discussioni, produzioni volumetriche di saggi e persino stigmi religiosi.

Il tasso d’interesse, dunque. Cedo alla curiosità e decido di cercare una risposta.

Non vi stupirà di sapere, conoscendo la mia attitudine alla divagazione, che la ricerca di tale risposta sia partita dall’etimologia. Ripesco da una biblioteca dimenticata il Dizionario etimologico italiano di Francesco Zambaldi, del 1889, che mi sembra vecchio abbastanza per offrirmi una visione remota quanto serve perché l’etimo non sia inquinato dalle distorsioni della modernità.

Qui la voce interesse viene rubricata come una derivazione del verbo essere, nel suo lemma latino esse. “L’infinito esse – leggo – dura nel latino inter-esse, essere fra le cose proprie: quindi stare a cuore: divenne il sinonimo interesse tutto ciò che importa o conviene all’utile, all’onore: poi tornaconto, utilità, affare, negozio, frutto del denaro: il sentimento che sprona a cercare il proprio utile (..)che bada solo al proprio utile e comodo”.

Fiuto un’indizio di risposta, ma ancora non mi basta. Corro sul web a sfogliare pagine più o meno attendibili e trovo un dettaglio che completa il quadro. “L’interesse è ciò che sta in mezzo, è un legame, una giunzione che avvicina qualcuno a qualcosa o a qualcun altro (…). Facile intendere anche l’immagine dell’interesse monetario: passa un certo tempo fra quando il prestito viene dato e quando viene restituito; l’interesse è ciò che (è stabilito) vale quel tempo che sta nel mezzo”.

Provo a farmi un’idea. L’interesse si interpone fra due persone o fra una persona e una cosa. Ha a che fare con l’utilità che traggo da questa interposizione, e nel tempo, per derivazione, ha finito con l’essere misurato dal denaro quando tale interposizione viene mediata da un capitale finanziario utilizzando il tempo come moltiplicatore.

In tal senso, prima ancora della sua valorizzazione monetaria, l’interesse rappresenta un legame fra chi concede il prestito e chi lo prende. Tale legame è la concessione di credito, il più esemplare atto di fiducia (anche economica) che posso compiere. Il debitore ha interesse a prendere a prestito, il creditore ha interesse a dare a prestito. I due interessi hanno motivazioni diverse mentre convergono sull’oggetto dell’interposizione, ossia il capitale. A entrambi interessa una certa somma di denaro. Al creditore perché la rivuole indietro, e maggiorata. Al debitore per le sue ragioni di consumo o investimento.

Questo però rischia di confonderci. Mentre è del tutto evidente quale sia l’oggetto dell’interesse, – il capitale – sul quale calcolo, misurandolo nel tempo, il mio tasso di interesse finanziario/monetario, meno evidenti sono i soggetti che sostanziano l’interesse: il creditore e debitore. L’interesse finanziario, se lo osserviamo da questa angolatura, è la rappresentazione monetaria di un interesse che nasce da una relazione, determinando il prestito e la sua conclusione. Il creditore ha interesse a trovare un debitore e il debitore ha interesse a trovare un creditore. Ancora una volta tendiamo a scambiare il dito – il capitale – con la direzione – l’attivazione di una relazione sociale, che poi viene normata dalle consuetudini.

In tal senso l’affermazione “l’interesse è ciò che (è stabilito) vale quel tempo che sta nel mezzo” che abbiamo visto prima è puramente consuetudinaria e rischia di essere fuorviante. La sostanza della faccenda è che due soggetti effettuano uno scambio, sotto forma di un prestito di denaro, allo scopo di aumentare ognuno la propria ricchezza, ossia la propria utilità. Perché, ricordiamolo, due soggetti non farebbero uno scambio se non vi ravvedessero un utile.

Se la osserviamo da questa angolatura, il tasso di interesse non è altro che la rappresentazione monetaria, lato creditore, dell’incremento di utilità che deriva dalla sua relazione col debitore ed è quello più visibile, perché l’interesse del debitore, ossia il suo incremento di utilità, non è usualmente oggetto di indagine economica. Possiamo avvicinarsi a conoscerlo se magari calcoliamo il tasso di rendimento dell’investimento, che con quel prestito è stato effettuato. Ma è un terreno incerto e non regolabile da un’autorità pubblica, al contrario di quanto accade per l’interesse del creditore. Anche qui, dipende dalle consuetudini. Le società moderne sono molto interessate a conoscere (e regolare) i guadagni del creditore mentre si curano poco di quelli del debitore. Ma non è detto che vada sempre così.

Basteranno un paio di esempi a chiarire. Nel medioevo, quando il prestito a interesse era vietato dalla chiesa cattolica, a Roma era uso camuffare un prestito e il relativo interesse corrisposto, con la creazione di una carica pubblica, non operativa ma puramente onorifica, che veniva assegnata al creditore. In tal modo la retribuzione corrispondente serviva a restituire il capitale e gli interessi maturati. Noi oggi almeno la vedremmo così, perché siamo abituati a pensare che un capitale produca un reddito nella misura di un certo tasso di interesse. Ma forse nel passato il senso economico di questa transazione era assolutamente differente. La dignità di una carica pubblica, ad esempio, poteva essere per il creditore assai più interessante, per le sue ricadute sociali, del semplice tornaconto monetario. La cariche pubbliche venivano vendute, se lo ricordate.

Questo esempio, che ho tratto dal libro di Ignazio Augusto Santangelo (Debito pubblico e crisi finanziarie), mostra l’interesse nella sua forma più pura. Non una semplice remunerazione del tempo durante il quale sono stato privato del mio capitale, ma una relazione fra una persona e un’altra cui corrispondevano diritti e doveri per l’una e per l’altra che possono prevedere anche passaggi di denaro. Due persone in relazione economica condividono un interesse. Sociale, prima ancora che monetario.

Traccia di questo pensiero lo troviamo ancora oggi nei precetti della finanza islamica che vieta formalmente il prestito ad interesse, instaurando una condivisione del rischio fra il prestatore e il prenditore che si sostanzia in una condivisione dell’utile (o della perdite). Un tipo di relazione che Keynes, celiando, stimerebbe ideale, assimilandosi a quella matrimoniale. Ma è proprio in questa relazione che l’interesse assume un senso economico del tutto assente nella versione “secolarizzata” che è invalsa nelle nostre pratiche economiche. Si penserà che ciò sia una raffinata forma di ipocrisia. Ma in realtà questo pensiero è assai diffuso, anche se fuori dalla nostra orbita economica, e ha prodotto un fiorente mercato di strumenti finanziari.

La nostra economia, invece, si basa su un principio opposto, ossia quello del disinteresse. La separazione fra gli agenti economici, di cui lamentava gli esiti nefasti già Sismondi all’inizio del XIX secolo, ha creato un mercato del denaro nel quale sia il creditore che il debitore si limitano a calcolare il proprio ritorno personale obbedendo al principio della capitalizzazione finanziaria e disinteressandosi delle conseguenze sull’altro. Sicché il senso interessante della relazione fra debitore e creditore è stato cancellato dalla quantificazione del tasso di interesse monetario che sarebbe più corretto definire tasso di disinteresse. Il denaro viene scambiato disinteressandosene, e in cambio si richiede una remunerazione sotto la minaccia di conseguenze legali. Creditore e debitore, nel migliore dei casi, si ignorano. Nel peggiore si odiano.

Sono consapevole che tutto ciò vi parrà sommamente astruso, e magari qualcuno si irriterà pensando che faccio filosofia di una cosa terribilmente concreta come il profitto. Ma, vedete, l’economia è filosofia, che poi diventa consuetudine di pensiero e infine tecnica grazie a un lungo percorso di assimilazione istituzionale. E poiché lo scopo di questo libro è contribuire al ripensamento dell’economia, quello che Irving Fisher chiamava “il collegamento fra le idee e le loro applicazioni pratiche”, è necessario ripartire da dove ci siamo messi in cammino, per vedere cosa è successo nel frattempo. Perché poi, infine, la realtà ci presenta il conto.

E non pensate che questo conto sia così difficile da osservare. Anzi è già visibile.

Le cronache del nostro tempo ci hanno mostrato la migliore rappresentazione possibile del nostro tasso di disinteresse: i tassi nominali nelle grandi economie del mondo si sono azzerati e quelli reali in molti casi sono addirittura negativi. Mentre scrivo la zona euro vende circa il trenta per cento delle sue emissioni di bond decennali a tassi negativi  e si discute appassionati e atterriti del rialzo del tasso di sconto  della banca centrale americana di un quarto di punto percentuale. Questa circostanza non può essere derubricata a curiosità della cronaca, essendo invece un evidente segno della storia. Quale migliore manifestazione della coincidenza fra filosofia e tecnica nella corrispondenza del nostro tasso di disinteresse con l’azzeramento del rendimento del capitale? Se il rendimento del capitale è nullo, che interesse posso trarre dalla mia relazione sociale?

La pratica secolare dell’economia del disinteresse, che ha trovato nell’uomo economico razionale, calcolatore e massimizzante, il suo Sigfrido, ha finito col provocare l’azzeramento del tasso di interesse. E poiché i nostri massimi esperti ci spiegano che il tasso di interesse dipende dall’andamento dell’economia, quindi si abbassa quando l’economia è debole e si rialza quando è forte, dovremmo dedurne che il nostro disinteresse ha finito con l’erodere la basi che rendono forte un’economia: ossia che gli agenti economici abbiano voglia di scambiarsi qualcosa convinti che tale scambio li arricchisca. Che abbiano interesse a fare economia, ossia relazionarsi vicendevolmente con profitto reciproco.

Qualcosa che avevamo e che abbiamo smarrito.

Me ne convinco leggendo un paper recente che la banca centrale del Regno Unito ha rilasciato per spiegare il declino secolare del tasso di interesse, che viene motivato da ragioni tecniche, non essendo negli intenti di una banca centrale fare filosofia. Qui osservo un grafico che misura il tasso di interesse reale del mondo dal 1870 in poi sui bond decennali. I dati dicono che il tasso reale non è mai stato a zero come è accaduto dal 2008 in poi, salvo che per un breve intervallo nel secondo dopoguerra, ed è stato negativo durante la prima e la seconda guerra mondiale, a causa evidentemente dell’inflazione bellica. La guerra d’altronde, non è un buon momento per fare economia, prevalendo il conflitto sulla cooperazione. E’ l’apoteosi del disinteresse.

Così l’interesse ridotto a calcolo, ossia ciò che connota lo spirito del capitalismo insieme all’invidia e alla vanità, per ricordare un bel libro di Geminello Alvi (Capitalismo, verso l’ideale cinese), non ha solo stravolto il senso dell’interesse, ma anche il significato. Ma la parola è rimasta, come un simulacro.

Mi chiedo cosa ci sia capitato. Come siamo arrivati a questo punto. E mi torna in mente Zambaldi: “Divenne il sinonimo interesse tutto ciò che importa o conviene all’utile, all’onore: poi tornaconto, utilità, affare, negozio, frutto del denaro: il sentimento che sprona a cercare il proprio utile (..)che bada solo al proprio utile e comodo”. Ecco cosa è accaduto. Esattamente in quest’ordine. L’etimologia, in fondo, è solo un altro modo di raccontare la storia.

(7/segue)

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Scaricate Eu-topia, il freebook con tutti i post della seconda stagione

Anche la seconda stagione di TheWalkingDebt è terminata. E’ stata lunga, faticosa ma esaltante. Voi lettori avete dato un contributo determinante all’evoluzione del nostro discorso economico. Perciò, come l’anno scorso, credo che il miglior modo di darvene atto e ringraziarvi sia quello di offrirvi come regalo un nuovo freebook che raccolga tutti i 220 post scritti fra settembre 2013 e luglio 2014.

Il libro potete liberamente scaricarlo qui, nei formati adattabili a tutti i vari device che deliziano, mettendoci in croce, oggidì la nostra vita hi tech. Chi volesse scaricare il primo freebook con tutta la prima stagione del blog lo trova invece qui.

Il nuovo freebook ho pensato di titolarlo Eu-topia, richiamando il fortunato titolo di un post scritto qualche mese fa. Credo sia il miglior modo per sommarizzare il nostro essere europei oggi, stretti come siamo fra l’utopia che ci fa credere/sperare di star costruendo il migliore dei mondi possibili, pure al prezzo di tragedie sociali impossibili da ignorare, e l’Eutopia di keynesiana memoria, ossia l’arte del possibile in un modo imperfetto. La mia sensazione, è che l’Ue, ossia l’Eu nell’inglese volgare che governa il nostro tempo, nel bene o nel male, sarà come è sempre stato nella storia, la terra dove si consumerà l’ennesimo conflitto, stavolta fra creditori e debitori, che sta logorando le nostre stanche società.

Quindi il destino dell’Eu-topia è il nostro destino. E tanto basta per occuparsene.

Il libro è interamente navigabile, ma con un’avvertenza: alcuni link fanno riferimento a post della prima stagione, che quindi non sono inclusi nel freebook della seconda. Per cui se lo sfogliate off line non stupitevi se cliccando su uno di questi link non arrivate da nessuna parte. Per una piena fruizione del libro, di conseguenza, sarebbe opportuno disporre di una connessione attiva.

La parte dei ringraziamenti è ancora più lunga di quella dell’anno scorso.

Il primo e il più sentito va a Leonardo Braghetto (@leobpd) che ancora una volta si è fatto carico di un lavoro incredibile raccogliendo tutti i post, editandoli, costruendo il libro, mettendo a disposizione un suo spazio web per il download e, last but not the list, realizzando la copertina che ho trovato straordinaria. L’Europa come una gigantesca macchia di Rorschach, dove ognuno ci vede quel che vuole, a cominciare dall’Europa stessa, che pensa di esaurire il planisfero del mondo e al contempo utopizza simmetrie impossibili quanto desiderabili: mi è sembrata una sintesi grafica geniale dell’idea stessa di questo libro.

Quindi grazie Leonardo, senza di te questo freebook non sarebbe mai esistito.

Un ringraziamento altrettanto sentito va a i tanti che hanno sostenuto il blog con i loro RT e la loro cortesissima attenzione. La lista, però, è troppo lunga per essere riportata qui. Ciò non toglie che sia profondamento grato ad ognuno per il supporto, che è stato fondamentale.

A proposito. Poiché vi so amanti dei numeri, approfitto dell’occasione per darvene un paio sul nostro piccolo blog.

L’anno scorso di questi tempi TheWalkingDebt aveva superato i 10mila articoli letti, e già mi sembrava un risultato straordinario, essendo io un modesto giornalista socioeconomico con alle spalle null’altro che tanta buona volontà, in un mondo dove campeggiano esperti di ogni risma, figli di gran giornali e professoroni dotati di curriculum signorili. Mentre scrivo il contatore segna oltre 82 mila articoli letti, quindi potete tranquillamente moltiplicare per otto la straordinarietà del risultato raggiunto solo un anno fa, grazie alle migliaia dei vostri RT.

Altresì, sono parecchio cresciuti coloro che seguono il discorso economico di TheWalkingDebt, ormai stabilmente sopra i 2.400 affezionati, più del triplo di un anno fa. Siamo una comunità piccola, ma molto motivata. Lo dimostra il fatto che siate qui malgrado – e me ne rendo perfettamente conto – questo blog chieda molto alla vostra attenzione: i post sono sempre lunghi, a volte, malgrado i miei sforzi di esser chiaro, complessi, e senza neanche il conforto di una figura, che sembra quasi un’eresia in un blog di socioeconomia.

Ma, vedete, anche questa è una scelta. Questo blog punta sulla narrazione, non sulla tecnica. Anche perché ne trovate a iosa di blog e giornali che vi riempiono di grafici e tabelle. Qui invece si sta tentando di parlare di noi, del nostro tempo e delle nostre società. E per questo non servono i grafici, ma le parole giuste, scritte nel modo migliore di cui io sia capace.

Infine, mi sembra giusto ricordare i libri, e quindi gli autori, che mi hanno accompagnato in questa seconda stagione, tralasciando i romanzi che qualcuno (sbagliando) potrebbe giudicare fuori tema e le decine di paper che ho scaricato da internet, già in chiaro nei post. Questi libri, il cui elenco riporto in ordine di lettura, sono stati una straordinaria fonte di ispirazione per me e mi sembra giusto darvene testimonianza. Non si tratta quindi di libri suggeriti, ma delle mollichine che, come un novello Pollicino, ho lasciato sul mio percorso di istruzione e di scrittura:

C.M.Reinhart K.S.Rogoff – Questa volta è diverso; J.M.Keynes – Esortazioni e profezie; Thilo Sarrazin – L’Europa non ha bisogno dell’euro; Antonio Grilli – Le origini del diritto dell’Unione europea; Massimo Amato Luca Fantacci – Salvare il mercato dal capitalismo; J.M.Keynes – Eutopia; C.M. Cipolla – Storia economia dell’Europa pre-industriale; Alain de Benoist – Sull’orlo del baratro; Alexander Lowen – Il narcisismo; Geminello Alvi – Capitalismo, verso l’ideale cinese; Geminello Alvi – La Confederazione italiana; Geminello Alvi – Il secolo americano; Manuela Ciani – Il Pil, un problema di valutazione; Geminello Alvi – L’anima e l’economia; Sabino Cassese – Chi governa il mondo; AA.VV. Il sofisma economicista; Serge Latouche – L’invenzione dell’economia; K.Polanyi – La grande trasformazione; Alain Desroisières – La politique des grandes nombres; Gianfranco Bellini – La bolla del dollaro; Duccio Basosi – Finanza e petrolio.

That’s all folks.

Se ne avrete voglia e tutto va bene, troverete qui il prossimo freebook a più o meno un anno da oggi.

Grazie ancora.

E buona lettura.