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Le metamorfosi dell’economia: Il capitale asociale

Il capitale vero, ha scritto Geminello Alvi nel suo Capitalismo, verso l’ideale cinese, “è operosità scontata con parsimonia, quello fittizio sono le banche centrali che fingono un risparmio e una crescita inesistenti in sconto fin troppo prodigo”, osservando in seguito come l’esito della crisi, in fin dei conti, sia stata la conversione del capitale privato fittizio, creato dal sistema bancario, in debito pubblico, acquisizione ormai pacifica ma ancora poco popolare nel 2011, quando il libro è stato scritto.

E mentre leggo del capitale fittizio, così egregiamente descritto da Alvi, ripenso a Sismondi, che nel 1827, nella parte finale dei suoi Nuovi principi di economia politica, scriveva cosa simile ma con parole differenti, accennando stavolta al debito dello stato, a sua volta “un debito immaginario” che economisti confusi e governanti prodighi avevano contrabbandato come costituente della ricchezza nazionale. Pura rappresentazione, perciò, e fardello materiale per chi vivrà in futuro che con ben poco sforzo diventa un giogo spirituale.

Sistema bancario e debito dello stato sono potentissimi generatori di capitale fittizio. Da almeno tre secoli, pure se mai come ai tempi nostri, queste due entità hanno trovato nella sintesi della banca centrale lo strumento ideale per moltiplicare un denaro virtuale nascosto dietro un debito inesigibile, e perciò illusorio. La banca centrale “finge”, per dirla con le parole di Alvi, una crescita e un risparmio usando le previsioni del futuro per orientare le sue scelte di politica monetaria. Il governo fa lo stesso quando decide come impiegare il frutto della tassazione, nei suoi vari documenti di programmazione economica. L’esito che osserviamo è un moltiplicarsi di capitali virtuali, mentre l’economia langue, che ci dicono esser necessari per evitare che deperisca del tutto.

Secondo una delle tante agenzie di rating, nel 2016 le emissioni di debito pubblico nel mondo per 131 paesi arriveranno a 6,7 trilioni di dollari, che sono 6.700 miliardi, per i meno avvezzi all’aritmetica dell’assurdo, consolandosi persino col notare, l’agenzia, che sono in calo rispetto all’anno prima, quando erano quasi 6.900, a fronte di uno stock di debito cumulato che supera i 42 trilioni.

Questo capitale immaginario, come lo chiamerebbe Sismondi, è solo una parte e neanche la più grande della montagna di debito che i privati e gli stati hanno generato e accumulato finora facendolo corrispondere ad un credito altrettanto immaginario che oggi si sconta a tassi azzerati. Si calcola che i debiti abbiamo ormai superato i 130 trilioni di dollari, che sono 130.000 miliardi. E questo ammontare non tiene conto dei debiti impliciti che sono nascosti nelle garanzie pubbliche.

Le banche centrali, ormai, sono divenute emittenti instancabili di capitale fittizio, a livelli che Alvi forse neanche immaginava nel 2011. Qualche tempo fa è stato calcolato che gli asset delle principali banche centrali abbiamo superato i 22 trilioni e dentro c’è di tutto: debito pubblico e privato acquistato col miracolo della fiat money nel disperato tentativo di rendere questa costruzione immaginaria, che in pratica sostiene l’intero edificio finanziario, ancora credibile per tutti coloro che sono chiamati a sostenerla. Quindi ognuno di noi.

Meraviglia dell’immaginazione umana e probabile concausa della nostra depressione, che è spirituale prima ancora che finanziaria, il capitale fittizio connota se stesso per una semplice caratteristica: è bugiardo. Si tratta di un debito che si contrae non per ripagarlo, ma per costantemente rinnovarlo. I 6,7 trilioni che saranno emessi nel 2016 sono la tabulare dimostrazione di questa evidenza. In quest’inganno, di cui tutti sono consapevoli e che anzi viene incoraggiato, si cela la sostanza del nostro benessere e insieme la sua più potente insidia. Fondato sulla menzogna, il capitale fittizio non può che generare sfiducia, che cresce al suo moltiplicarsi, e quindi crisi costanti ogni qual volta qualcuno vada e vedere il bluff nascosto nei bilanci bancari o in quelli pubblici.

In quanto generatore di fiducia volatile, o di sfiducia se preferite, il capitale fittizio è squisitamente asociale. Funziona finché l’avidità è maggiore della paura, sentimenti entrambi divisivi, che però sono il suo fondamento e, insieme, le costituenti dell’egonomia che ha invaso come una malattia l’agire economico.

In quanto bugiardo, il capitale fittizio instaura una relazione falsa fra i soggetti che lo originano, quindi il debitore e il creditore. Tale falsità si contagia nella società come una pestilenza e genera ricchezza falsa, come notava Sismondi quasi duecento anni fa, che finisce intrappolata nei giochi della finanza e non produce scambi perché non corrisponde a bisogni reali ma a semplice hybris immaginaria. Così facendo intrappola ognuno di noi nell’utopia di una ricchezza tanto infinita quanto irraggiungibile. E così ci sfinisce.

Questa mostruosa ipoteca sul nostro futuro, grava perciò anche sulla nostra immaginazione, che è chiamata a sostenerla fiduciariamente. E perciò ci svuota, lasciandoci esausti a contemplare una ricchezza virtuale che stimola i nostri peggiori istinti.

Quel che è peggio, tale deriva prosegue in perfetta soluzione di continuità. Dal 2008 il debito globale, che già sfiorava il 200 per cento del prodotto interno lordo del mondo, ora ha superato il 250% e tutto ciò che i decisori sono riusciti a fare, nel frattempo, è incantare il mondo con astruse magie monetarie che si propongono soltanto di rendere sostenibili questi debiti e quindi perpetuarli. Viviamo letteralmente immersi dentro l’illusione monetaria ed esposti al rischio costante di un risveglio apocalittico.

A fronte di tutto ciò si generano enormi ricchezza, che sono altrettanto virtuali, a fronte delle quali le società espongono crescenti povertà, avendo in comune, i ricchi come i poveri, la sensazione di camminare insicuri lungo un crinale che affaccia sulla disgrazia.

Che fare dunque?

Gli economisti dicono che la via maestra per abbattere il peso del debito è favorire la crescita ma non sanno più come evocare questa sorta di fantasma risanatore. Chiunque legga le ricette proposte dai principali osservatori internazionali ne ottiene solo rappresentazioni confuse e pensieri obsoleti che mutano col mutare delle stagioni.

La verità, nuda e cruda, è che dovremmo disincantarci dall’illusione monetaria, ma non possiamo. Chiunque pensi di fermare questa sorta di caleidoscopio impazzito si espone all’accusa di sabotatore e i più avveduti, che lanciano moniti sull’inevitabile esito del capitale fittizio – la sua distruzione – vengono emarginati.

In queste condizioni possiamo solo provare a cavalcare l’onda, provando però a decidere dove vogliamo arrivare. Il capitale asociale appartiene ormai al nostro bagaglio istituzionale, ci piaccia o no, e dobbiamo farci i conti. Siamo costretti a sostenere questa costruzione immaginaria, sapendo che è immaginaria. Ci troviamo insomma in quella condizione che Walter Bagehot, un secolo e mezzo fa nel suo ancora ottimo libro, Lombard street, illustrava a proposito del sistema bancario della riserva unica del Regno Unito fondato sulla banca centrale: un sistema che si provava essere foriero di infiniti problemi ma ormai talmente insito nell’organizzazione sociale che nessuno non solo non immaginava ma neanche desiderava metterlo in discussione.

Il nostro sistema finanziario, in fondo, non è altro che una evoluzione di quel tempo. La turbofinanza, così odiata e amata insieme, è una costituente delle nostre società che non potremmo estirpare senza distruggere tutto il resto. Sarebbe saggio prenderne atto e provare a utilizzarla con giudizio veicolando lentamente le nostre società verso una nuova evoluzione.

Quale? Se davvero l’unico modo per guarire dall’ossessione del debito è aumentare la crescita, ciò significa che dovremmo sostituire l’economia reale a quella finanziaria, ossia scambiare il capitale fittizio, che è asociale, con quello reale, che sociale. Ma prima dobbiamo ri-conoscerlo.

E questo richiede un piccolo approfondimento.

(18/segue)

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Il capitalismo morirà di vecchiaia

Se chiamiamo capitalismo il modo in cui si è organizzata nel tempo la nostra vicenda socioeconomica, allora mi convinco sempre più che non serviranno rivoluzioni per cambiare le nostre società. Il capitalismo, che si evolve come un qualunque organismo socioeconomico, morirà di morte naturale, quindi di vecchiaia, come un qualunque organismo biologico, rimanendo ironicamente vittima del suo successo.

Chi guarda all’economia come a un processo di evoluzione istituzionale non rimarrà sorpreso. Chi ancora legge Sombart e la straordinaria epopea del suo Il capitalismo moderno, sa bene che tale organizzazione socioeconomica per la quale proprio lo studioso tedesco inaugurò per l’accademia il nome di capitalismo, ha conosciuto una lunga evoluzione nel corso dei secoli che al tempo in cui scriveva, siamo nei primi venti anni del XX secolo, culminava nel tardo capitalismo, dopo aver attraversato il primo capitalismo e il capitalismo maturo. Dai tempi di Sombart, l’evoluzione ovviamente ha proseguito il suo cammino e ormai siamo entrati in quello che potremmo definire il capitalismo senescente.

Non serve essere sociologi, per capirlo. Basta osservare un po’ di statistiche demografiche e qualche tavola attuariale. Il segno del nostro tempo, ad esse riferito, mostra un crescente innalzamento dell’età delle popolazioni, in parte provocato dalla diminuita mortalità infantile, in parte dai miglioramenti sociali di cui godono i più anziani, indubitabili successo del capitalismo, che ha generato però nel tempo un vero e proprio rischio di longevità, come lo ha definito qualche giorno fa il governatore di Bankitalia Ignazio Visco in una Lectio Magistralis tenuta all’università di Trieste (Il rischio di longevità e i cambiamenti dell’economia) che gli ha conferito la laurea ad honorem in scienza statistiche ed attuariali.

Parrà strano a molti che non coltivano l’amore per il paradosso che il culmine del successo segni il prologo della rovina. Però è così che va il mondo: più in alto si sale, più aumenta il rischio di farsi male quando si cade. E il rischio di longevità, che potremmo intendere come il fatto che non sappiamo quanto siano attendibili gli strumenti di previsione demografici, rappresenta proprio il rischio di caduta di fronte al quale le nostre società si trovano di fronte dovendo fare i conti con coorti di popolazioni senza più anziane.

Per capirlo meglio servono un po’ di noiosi numeri, che per fortuna abbondano nella lezione di Visco. Citando Angus Maddison, storico dell’economia mondiale, Visco ci ricorda che “tra l’anno 1000 e l’anno 1820 l’aspettativa di vita alla nascita sarebbe aumentata da 24 a 36 anni, ovvero di soli 12 anni, per poi salire a 46 anni nel 1900, 66 nel 1950, 78 alla fine del Novecento”.

Nei paesi avanzati l’aspettativa di vita dalla nascita è aumentata di altri tre anni nell’ultimo decennio, il che ci porta alle stime più recenti delle Nazioni Unite, secondo le quali l’età di morte arriverà a 90 entro il 2100, col picco di 95 per l’Italia. Nei paesi meno avanzati il processo procede altresì, ma più lentamente. Negli ultimi 15 anni è arrivata a 70 anni e dovrebbe salire di altri 11 entro la fine del XXI secolo. Si osserva inoltre che “il miglioramento della speranza di vita tra il 1950 e il 2015 è stato ancora maggiore per le età fino ai 90 anni; per quelle comprese tra i 70 e gli 80, è stato persino superiore all’incremento registrato dalla speranza di vita alla nascita”.

Fra i driver del processo di invecchiamento c’è anche la diminuzione della natalità, che l’Onu vede in calo da 2,5 a 2 bambini per donna. Ma questa previsione, come tutte quelle che accompagnano le proiezioni demografiche, nasconde grande incertezza. E questo, lo vedremo poi, è uno dei problemi.

Nel complesso la popolazione mondiale dovrebbe crescere dagli attuali 7,3 miliardi a 9,7, per superare gli 11 miliardi entro la fine del secolo. Nei paesi più sviluppati dovrebbe rimanere stabile, a 1,3 miliardi calando percentualmente dal 17% del totale della popolazione mondiale di oggi all’11% del 2100. Il grosso della crescita, quindi, si registrerà nei paesi meno sviluppati.

Il combinato di queste tendenze determinerà un aumento sensibile del peso assoluto degli anziani rispetto ai giovani e l’immigrazione servirà poco a invertire questa tendenza. Gli ultra65enni, che oggi sono circa 600 milioni, supereranno il miliardo e mezzo nel 2050 e i due miliardi e mezzo a fine secolo. Anche qui, l’incremento più corposo sarà nei paesi meno avanzati che passeranno da 390 milioni a 2,2 miliardi. In Italia si passerà dagli attuali 13 milioni a 20 milioni nel 2050 per poi scendere a 17 milioni a fine secolo.

Ora il problema non risiede tanto nei valori assoluti, ma nel loro valore relativo rispetto alla popolazione in età lavorativa. Gli ultra65enni sono oggi il 14% di chi lavora, arriveranno al 30% nel 2050 e supereranno il 40% nel 2100. Nei paesi sviluppati tale incremento passerà dal 29% attuale, al 50% nel 2050 e al 58% a fine secolo. Nei paesi meno sviluppati le percentuali corrispondenti sono l’11%, il 26% e il 41%. In Italia “tra oggi e la metà del secolo l’incremento del rapporto tra persone di 65 anni o più e persone in età lavorativa sarà eccezionale, quasi raddoppiando, dal 38 per cento al 74, per poi rimanere pressoché invariato”.

Ciò vuol dire che “per ogni persona di 65 anni o più ci sono oggi nel mondo quattro
“giovani” di età inferiore a 20 anni; nel 2050 ce ne saranno meno di due, a fine secolo uno solo. Nei paesi più sviluppati, il rapporto, già oggi di poco superiore all’unità, scenderà già a metà secolo a solo 0,8”. In sostanza saranno più gli anziani, presumibilmente pensionati, che i lavoratori che dovrebbero sostenerli.

Queste previsioni, che già sollevano inquientanti sfide organizzative per le società capitalistiche, devono fare i conti con un rischio che non è possibile quantificare: ossia che siano sbagliate. E poiché è “particolarmente sorprendente il progressivo e ampio miglioramento della mortalità alle età più avanzate”, ciò vuol dire che il rischio è che siano sottostimate. “Ciò ci porta a discutere le difficoltà che si incontrano nel prevedere la longevità”, spiega Visco, ed è facile capire perché.

Variazioni inattese delle tendenze di mortalità provocano, ad esempio, problemi assicurativi: “Nel caso in cui gli anni effettivi di vita degli individui appartenenti a una stessa coorte superino quelli attesi in media, avremo un rischio di longevità che non può essere diversificato tra questi individui, poiché colpisce allo stesso modo l’intero gruppo dei potenziali assicurati”.

Tale rischio si aggrava considerando che “le agenzie nazionali di statistica dei paesi avanzati sembrano avere sistematicamente sotto-previsto i miglioramenti nella speranza di vita, comportando significative sottovalutazioni del numero degli anziani, soprattutto dei più vecchi”.

Il problema quindi, da sociale, diventa tecnico. Visco spiega che le previsioni della mortalità vengono costruiti seguendo tre diversi tipi di approcci, dalle serie storiche ai modelli matematici. L’industria finanziaria basa gran parte delle sue previsioni sulle serie temporali, ma l’uso di modelli si è rivelato di migliore qualità predittiva, contribuendo perciò a raffinare la ricerca in questo campo. Ma ovviamente ciò non ha eliminato il rischio di errori, che hanno conseguenze anche gravi sulla stabilità finanziaria.

Uno studio recente relativo al mercato delle rendite in Slovenia ha mostrato che le tavole di mortalità a cui l’industria assicurativa deve attenersi tendono a sotto prevedere la riduzione della mortalità nel tempo, esponendosi quindi al rischio che i premi versati dagli assicurati, che corrispondono a rendite vitalizie, siano sottostimati. Uno studio Ocse del 2014 mostra che in diversi paesi avanzati ha mostrato come “l’uso di tavole di mortalità che non tengano adeguatamente conto dei miglioramenti
prevedibili possono comportare il rischio di consistenti squilibri nei bilanci delle istituzioni finanziarie che erogano rendite”.

Scopriamo così che il rischio di longevità, inteso come possibilità che l’età media cresca più di quanto oggi possiamo prevedere, è una componente inedita del rischio finanziario. Ma non solo. “La longevità è essa stessa fonte di notevoli effetti, che spaziano dagli impatti sull’offerta di lavoro e sul suo tasso di utilizzo a quelli relativi a conti pubblici e risparmio”. Ed ecco l’ironia: siamo felici perché viviamo di più, ma scopriamo che ciò potrebbe renderci infelici. Tanto più in un contesto ove “l’aumento della longevità si sovrappone e interagisce non solo con la tendenza calante della natalità ma anche con altre due grandi forze strutturali che stanno cambiando l’economia come la globalizzazione dei mercati e le tecnologie dell’informazione e della comunicazione”. Tutto ciò si aggrava perché “quando si verifica una netta discontinuità rispetto al passato, le dinamiche passate possono non essere più in grado di fornire un valido riferimento per prevedere il futuro”.

E che tale discontinuità si sia già verificata sembra fuor di dubbio.

Così il capitalismo senescente ci sta lentamente transitando verso una terra incognita, dove le vecchie categoria economiche hanno perso senso. In tal senso dovremmo attrezzarci per mettere in piedi tutti i cambiamenti istituzionali necessari, che richiedono tempo, e prepararci a un’evoluzione del nostro pensiero.

Il primo banco di prova è davanti ai nostri occhi: i sistemi pensionistici. Visco ci ricorda che “nel corso dell’ultimo decennio diversi interventi di politica economica hanno mirato al rafforzamento dei sistemi pensionistici pubblici e allo sviluppo di forme di previdenza complementari a contribuzione definita”. Ma, ciò malgrado, “la strada verso sistemi che assicurino pensioni adeguate e sicure è ancora molto lunga”.

In futuro sembra ineludibile lavorare sulla sostenibilità finanziaria delle pensioni pubbliche, ma al tempo stesso occorre “assicurare le condizioni affinché le forme pensionistiche complementari siano in grado di generare per i lavoratori redditi da pensione adeguati”. Il primo esito osservabile è la graduale sostituzione dei sistemi a prestazione definita a quelli a contribuzione definita. La differenza è molto semplice: i primi assicurano una rendita fissa al sottoscrittore, i secondi di sicuro hanno solo la somma che l’iscritto versa, mentre la rendita è aleatoria. In pratica, il pensionato “è esposto sia al rischio di longevità sia ai rischi finanziari connessi con l’investimento dei contributi previdenziali in attività finanziarie; inoltre, al momento del pensionamento deve provvedere alla conversione di almeno parte del capitale accumulato in rendita vitalizia”.

A fronte di questa aumentata incertezza, il futuro pensionato dovrà fare i conti con le crescenti fragilità dei sistemi pensionistici pubblici “soggetti a margini di incertezza significativi” in economie dove “gli spazi di manovra per il finanziamento della spesa pensionistica si è ridotto a causa del sensibile aumento del debito pubblico”. Economie, peraltro, soggette a un rallentamento economico che qualcuno paventa come secolare e dove i giovani, ossia i pensionati del futuro, “tendono sempre più ad avere carriere discontinue”. Il che ha ricadute evidente sui flussi di contribuzione alle pensioni pubbliche.

Tutto ciò spiega perché ormai in tutte le sedi si afferma che sarà necessario “lavorare di più, in più e più a lungo”. Il che, in un modo che ancora non conosciamo, cambierà il senso economico stesso dell’istituto pensionistico, che come ogni cosa ha un inizio, che risale a poco più di un secolo fa, e potrebbe avere una fine, almeno come lo conosciamo.

Dovremmo preoccuparci? Sarebbe più saggio occuparcene. “Un recente rapporto dell’Ocse sui sistemi pensionistici dei paesi avanzati – ricorda Visco – mette in luce
l’importanza di misure volte a riconoscere contributi previdenziali a lavoratori che
interrompono l’attività di lavoro per vari motivi (maternità, disoccupazione, formazione o altro), così da evitare un calo del futuro reddito da pensione”. Ma, in generale, dovremmo adottare un atteggiamento pragmatico e non ideologico. Essere pronti all’inconsueto coltivando un ragionevole ottimismo, ricordando che l’invecchiamento della popolazione, ossia ciò che abbiamo più o meno consciamente perseguito nel tempo, “ha un impatto profondo sulla struttura dell’economia e del sistema finanziario”. E’ capace addirittura di provocare un cambio di paradigma.

La storia testimonia che è già successo. Come ci ricorda Sombart, la transizione dall’economia medievale a quella del primo capitalismo fu una fioritura per l’umanità, generando, come ogni fioritura, piante benigne e piante maligne, ma che ci ha condotto fino a qui, in un mondo con molte ombre, ma anche con molte luci, che dovrebbe incoraggiarci al miglioramento al quale dovremmo ambire e possiamo aspirare, senza che ciò sia capace, purtroppo, di provocare il contrario.

Parafrasando Sismondi, economista purtroppo poco ricordato del XIX secolo, non dovremmo desiderare ciò che è stato, ma volere qualcosa di meglio di ciò che è.  Come ha fatto di recente Jeremy Rifkin nel suo libro La società a costo marginale zero, dove immagina che il tramonto del capitalismo condurrà allo sviluppo dell’economia del commons collaborativo.

Insomma, il capitalismo sembra morirà di vecchiaia, o meglio, a causa della vecchiaia delle sue popolazioni. Evviva il capitalismo.