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Verso la legge di stabilità: la legge d’instabilità
Se fossi un creditore dello stato italiano andrei a leggere di corsa il capitolo quattro della nota di aggiornamento al Def pubblicata a settembre scorso dal governo, laddove si tratta della sostenibilità del nostro indebitarsi pubblico. Anche perché, dopo aver scoperto che violeremo sia la regola della spesa che quella del debito, che avremmo dovuto rispettare in omaggio ai nostri impegni europei, comincerei a soffrire d’insonnia pensando ai miei soldi affidati allo stato italiano.
Poiché però non sono creditore del governo, nel senso che non possiedo titoli pubblici, la questione della sostenibilità del debito italiano mi preoccupa poco. Se però penso alla circostanza che sono e sarò costretto a sostenerle con le mie tasse, queste obbligazioni, la questione improvvisamente diventa rilevante. E di conseguenza assai importante provare a capire quale futuro il governo preveda per il nostro debito pubblico, che in pratica è il giogo al quale tutti noi siamo sottoposti.
Scopro così che il governo è assai positivo circa la sostenibilità dei nostri debiti. Ma che, al tempo stesso, pure nelle previsioni più ottimistiche, tale fardello è destinato ad accompagnarmi finché sarò vecchio e pure dopo, rappresentando perciò un’ipoteca eterna sulla mia vita e quella dei miei figli.
La questione, insomma, a meno di eventi straordinari, sarà sempre presente nel nostro dibattito pubblico, funzionando ogni volta come la principale giustificazione delle vessazioni presenti e future cui le varie leggi di stabilità ci sottoporranno, a cominciare da quella in preparazione in questi giorni, sostanzialmente per rassicurare i nostri creditori, mentre a noi dicono che servono, tali leggi, al benessere di tutti. E forse sarà pure vero, ma non è tutta la verità, che è assai più spietata: dobbiamo rassicurare i nostri creditori se vogliamo avere un benessere futuro. Perciò la sostenibilità conta, eccome.
L’analisi di sostenibilità preparata dal governo nella nota di aggiornamento prende in esame scenari di breve, medio e lungo periodo e inizia ricordando che dall’inizio della crisi finanziaria del 2009 e fino al 2013 il debito pubblico lordo è aumentato di 15 punti, passando dal 112,5% del 2009 al 127,9% del 2013.
Le principali voci di spesa che hanno generato questi incrementi sono stati la spesa per interessi, la bassa crescita reale e gli impegni finanziari sottoscritti in sede europea per i vari fondi di salvataggio ai quali si sono aggiunti gli esborsi per pagare i debiti della PA. e per fortuna siamo riusciti, grazie alle varie manovre restrittive varate dal 2011 in poi, pure se a scapito del prodotto, a capitalizzare un buon avanzo primario (peraltro in calo costante) che ha contribuito a frenare l’ascesa del debito.
E tuttavia il realizzarsi degli scenari programmatici del governo provocherebbe una crescita del debito fino al picco del 133,4% l’anno prossimo per poi arrivare a un graduale miglioramento che dovrebbe condurci al 124,6% nel 2018. Sempre che, ovviamente, la crescita reale obbedisca alle previsioni. Ciò implicherebbe una riduzione totale del debito pari a quasi 9 punti di pil da realizzarsi fra il 2015 e il 2018, a patto che si riesca a cumulare un avanzo primario medio del 3% del Pil nello stesso periodo. La qualcosa è assai ipotetica.
Nel capitolo dedicato all’analisi degli scenari di medio periodo, quindi fino al 2026, si prendono in esame uno scenario base, che sussume le ipotesi macroeconomiche contenute nella nota di aggiornamento, laddove si ipotizza un tasso di crescita del deflatore del Pil che converga verso il 2%, quindi un’inflazione in crescita, entro il 2021, e un saldo primario del 4,1% a partire dal 2018.
Poi viene considerato uno scenario pessimistico, nel quale la crescita del Pil nel periodo 2015-18 sia dello 0,5% più bassa rispetto a quanto previsto dallo scenario base, e dove lo spread, per effetto della sfiducia, salga fino a 200 punti sul bund tedesco alle fine del 2018.
Poi si ipotizza uno scenario ottimistico nel quale si ipotizza che che la crescita aumenti dello 0,5% rispetto allo scenario base, e lo spread si riduca a 50 punti.
Infine viene elaborato anche uno scenario deflazionario, che è simile per presupposti a quello pessimistico, dove però si verifica che il deflatore del pil sia più basso nel periodo 2015-18, e quindi sostanzialmente dove l’inflazione bassa appesantisce la nostra intera contabilità nazionale.
Tralascio di osservare le diverse variabili legate ai vari scenari perché qui mi interessa solo darvi i dati sul debito pubblico previsto fino al 2026. Nello scenario base per allora il nostro debito/pil dovrebbe attestarsi al 92,1% a fine periodo. In quello più ottimistico al 79,5%, in quello di minore crescita al 109,5, in quello di minore crescita più deflazione al 120,9%. In quest’ultimo caso, quindi, nel 2026 staremmo peggio di come stavamo nel 2009. E lascio alla vostra immaginazione ipotizzare a che tipo di leggi di stabilità serviranno fino ad allora per rendere questa montagna di debiti sostenibile.
Nelle analisi di lungo periodo, che si spingono fino al 2060, si quotano una serie di variabili che tengano conto dell’invecchiamento della popolazione e della spesa ad essa connessa, pensioni e sanità in testa, in base ai quali si elaborano, in sede europea, gli indici di sostenibilità S1 e S2, che misurano la quantità dell’aggiustamento teorico necessario per condurre il debito/pil nelle soglie prefissate.
Per non annoiarvi troppo con i numeri, mi limito a rilevare come la sostenibilità di lungo periodo del nostro debito richieda di mantenere un ampio avanzo primario, superiore al 4% del Pil (parliamo di oltre 60 miliardi l’anno) da oggi fino al 2060. Se l’avanzo primario rimanesse al 2%, com’è adesso, il nostro debito/pil si stabilizzerebbe fra il 120 e il 130% del Pil fino al 2060, e non si capisce bene come dovremmo convincere i nostri creditori a rifinanziarlo.
Insomma, qualunque sia l’orizzonte di riferimento, quello che ci aspetta è una lunga quaresima che dovrà purgare gli eccessi di indebitamento che abbiamo cumulato negli ultimi quarant’anni.
E capisco allora che alla stabilità che per legge il governo cerca di garantire ogni anno corrisponde, uguale e contraria, l’instabilità del nostro Paese, continuamente chiamato a fare i conti col suo passato disastroso per non doverli fare con un futuro peggiore, provocando ciò una costante fibrillazione politica, economica e sociale.
La legge di stabilità servirà pure a far dormire sonni tranquilli ai nostri creditori. Ma per me, che sono cittadino di questo stato, è assai più cogente un’altra legge, più subdola e strisciante.
La legge dell’instabilità.
(3/fine)
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Esercizi di retorica sul DEF: la retromarcia dell’avanzo primario
Mi sorprendo sempre nel notare il grande consumo di intelligenza e talento che circonda le cose economiche. Cervelli oltremodo eccellenti si cimentano in esercizi astrusi, compilano tabelle e disegnano grafici, al solo fine di convincere qualcuno di qualcosa, in un modernissimo esercizio di retorica.
E poiché questo qualcosa ha a che fare con il denaro, in un modo o nell’altro, ecco che ricevono un’attenzione ormai quasi più a nessuno riservata. Sicché finisce che gli economisti, o i semplici compilatori di tabelle e grafici, diventino delle piccole star.
La seduzione dell’economia è il modo contemporaneo col quale celebriamo l’antica e immutabile seduzione del denaro, a ben vedere.
Ed è comprensibile che tutto ciò, specie in tempi di crisi, germini una pletora di popolazioni economaniache.
Oggidì gli studiosi/esperti/appassionati/doscenti/discenti di cose economiche nel nostro paese è probabile abbiano superato per numero quelli che una volta compilavano formazioni e strategie della nazionale di calcio. Da una nazione di commissari tecnici, stiamo diventando una nazione di commissari economici.
E non è detto che sia un progresso.
Perciò ogni tanto è utile fermare l’attenzione per far capire di cosa parliamo quando parliamo di economia. O meglio, cosa facciamo quando parliamo di economia.
Meglio di ogni altro ragionamento, varrà un esempio.
Lo spunto me l’ha fornito l’utilissima lettura della relazione del direttore generale della Banca d’Italia Signorini davanti alla commissione congiunta di Camera e Senato, riunita per discettare sul DEF del governo Renzi, che approfondirò un’altra volta, perché c’è tanto da dire e da capire.
Qui però vorrei limitarmi solo a un elemento, che poi è il punto centrale di tutto il costrutto argomentativo della nostra finanza pubblica: l‘avanzo primario.
Il nostro avanzo primario è la superstar del DEF, come d’altronde lo è sempre stato, atteso che misura il saldo fra entrate e spese correnti al netto degli interessi sul debito. O, per dirla in altro modo, sommando algebricamente l’avanzo primario al deficit otteniamo la spesa per interessi sul debito.
Come vedete il modo diverso di dire la stessa cosa ha un effetto notevole sulla percezione della questione.
Ma poiché per discorrere di economia servono i numeri, ecco che la nostra audizione ce ne fornisce a bizzeffe, così come anche di grafici.
Uno in particolare ha catturato la mia attenzione. Ossia quello intitolato “Avanzo primario: obiettivi e consuntivo”, che racconta esemplarmente la storia dei DEF che si sono succeduti dall’aprile 2011 in poi, relativamente a questa variabile.
In questo garbatissimo esercizio della memoria, facoltà purtroppo paradossalmente dimenticata, l’analisi dei DEF degli ultimi tre anni è illuminante.
Il DEF approvato nell’aprile 2011, ad esempio, stimava un avanzo primario di poco superiore al 2% nel 2012, che doveva sfiorare il 4% nel 2013 per superare il 5% nel 2014.
Nella nota di aggiornamento di settembre 2011, il governo dell’epoca addirittura alzò gli obiettivi, stimando un avanzo vicino al 5% nel 2013, con l’obiettivo di superarlo nel 2014.
Settembre 2011, lo ricorderete, era il tempo dell’agonia del governo Berlusconi, che avrebbe preparato il governo Monti, che seguiva a una terribile estate. Chiaro perciò che il governo avesse bisogno di aumentare le rassicurazioni all’interno e all’esterno del Paese. E quale strumento meglio dell’avanzo primario poteva giovare alla bisogna? E’ da almeno vent’anni che inseguiamo la chimera dell’avanzo primario per salvare la nostra finanza pubblica.
L’arrivo del governo Monti, che godeva di altra credibilità rispetto a quello “dimissionato”, riposiziona nuovamente il problema, ma poi neanche di tanto.
Nel DEF di aprile 2012 l’avanzo primario viene stimato fra il 3 e il 4% nel 2012, con l’obiettivo di arrivare pressoché al 5% nel 2013, per superarlo nel 2014. Anche stavolta l’Europa digerì il DEF. Potenza del professore.
Salvo poi, nella nota di aggiornamento di settembre 2012, scoprire che gli obiettivi erano vagamente sovradimensionati. Qui, infatti, l’obiettivo del 2012 viene riabbassato sotto il 3%, più o meno al livello di quanto previsto dal DEF di aprile 2011, quello del 2013 sotto il 4%, esattamente al livello del DEF aprile 2011, per arrivare fra il 4 e il 5% nel 2014, sotto il livello DEF aprile 2011.
Seguirono i soliti applausi e i soliti fischi, a seconda dei mittenti, e furono sprecati i canonici fiumi d’inchiostro a commentare lo sforzo risanatore del governo Monti. Ma alla fine dei conti nessuno sapeva di cosa stesse esattamente parlando. Tantomeno il governo. Anche qui: le stime erano un perfetto esercizio retorico, nulla più.
Un briciolo in più di realtà si affaccia col DEF di aprile 2013, quando l’ormai vacillante governo Monti rifà i conti per annunciare che sì, le stime erano un po’ esagerate. Sicché nel 2012 l’avanzo primario sarebbe rimasto compreso fra il 2 e il 3%, ma anche nel 2013, per arrivare a superare il 3% nel 2014 e il 4% nel 2015, quando rmai la curva crescente dell’avanzo primario avrebbe preso il volo, lanciandosi verso il 5% nel 2016 fino a sfiorare il 6% nel 2017.
Avrete notato a questo punto come l’avanzo primario sia tanto migliore quanto più distante nel tempo. E anche questo è un pregevole esercizio di retorica: figurarsi il futuro sempre migliore del presente per farne sopportare il peso.
Il nuovo governo Letta rivide il DEF a settembre 2013, siamo quasi a nostri giorni, e anche stavolta gli obiettivi furono sensibilmente ribassati. Nel 2013, ormai al lumicino, si confermò il range 2-3%, che sarebbe dovuto diventare il 3% nel 2014 per avvicinarsi al 4% nel 2015. Ma tranquilli: nel 2017 saremmo arrivati al 5% del Pil, livello comunque più basso di quello ipotizzato da tutti gli altri DEF.
Arriviamo al DEF del governo Renzi. Ma prima è utile dare un’occhiata all’unico consuntivo finora disponibile (ossia il dato vero), quello elaborato al marzo 2014. Ebbene, l’avanzo primario, nel 2012, si è collocato fra il 2 e il 3%, ossia quanto previsto nel DEF di aprile 2011, ossia l’unico che ci ha preso, anche se probabilmente sarà l’unico dato azzeccato di quel DEF, visto che i primi dati disponibili sull’avanzo primario del 2013 parlano addirittura di un calo rispetto al 2012, mentre il DEF di aprile 2011 raccontava che nel 2013 avremmo superato il 3%.
Il DEF targato Renzi ritocca ancora al ribasso le stime dell’avanzo primario rispetto alla nota di aggiornamento di settembre 2013. Lasciando da parte il 2013, ormai chiaramente al di sotto di quanto pensavano (o dicevano di pensare) i vari governi, nel 2014 il DEF stima l’avanzo sotto il 3%, che dovrebbe superarsi solo nel 2015, arrivando nel 2016 a superare il 4%, ossia il livello che l’aggiornamento del DEF 2011 stimava per il 2013, così come confermato dal DEF del governo Monti di aprile 2012.
Al livello del 5% non arriveremo neanche nel 2017, quando invece secondo il DEF di aprile 2013 (un anno fa) avremmo dovuto svettare verso il 6%.
Che ci dice tutto questo rosario di cifre?
Se fosse solo che sbagliano sempre le previsioni non sarebbe questa gran novità. E’ sempre difficile fare previsioni, specie quando riguardano il futuro, diceva un famoso scienziato.
Quello che ci dice, questo esercizio di retorica, è altro: l’economia è sempre politica. Ovvero la politica si fa con l’economia, strumento retorico per eccellenza del nostro tempo. Quindi, quando parliamo di economia parliamo di politica usando più o meno spregiudicamente la matematica.
Faremmo sempre bene a tenerlo a mente.
(1/segue)
Si scrive DEF, ma si legge FED
Nel bailamme di commenti, applausi e fischi che hanno caratterizzato il dibattito sulla prima vera prova del governo Renzi, ossia il DEF (documento di economia e finanza), rimane in ombra un’inezia che però fa la differenza. Ossia la circostanza che non siamo soli al mondo.
Per rimediare, di conseguenza, è bene abbandonare per un attimo le nostre cronache strapaesane e perdere un po’ di tempo a leggere l’aggiornamento del Global financial stability review del Fondo monetario.
Sfogliando il primo capitolo, a un certo punto mi imbatto in una simpatica allocuzione: “Gli Stati Uniti devono affrontare diverse sfide in relazione alla stabilità finanziaria. (…) L’eventuale percorso di uscita dalle politiche monetarie non convenzionali potrebbe avere importanti ricadute internazionali. Le economie emergenti sono particolarmente vulnerabili se il premio o il tasso a breve cresce più rapidamente del previsto”.
E noi che c’entriamo?
Eccome, se c’entriamo. All’interno dell’eurozona, la situazione dei PIIGS, almeno lato sostenibilità esterna, non è poi così diversa da quella dei paesi emergenti. L’Italia poi, con il suo 30% posizione netta negativa sull’estero e le sue pressanti esigenze di rifinanziamento del debito pubblico – abbiamo oltre 600 miliardi di debito pubblico collocato all’estero – è assai sensibile ai turbamenti dei tassi internazionali. Non siamo poi così diversi dal Messico, da questo punto di vista. Anzi, per certi versi stiamo pure peggio, visto che gli emergenti, a differenza nostra, possono fare politica monetaria.
E c’entriamo anche per un’altra ragione. “Il passo di normalizzazione della politica monetaria Usa – scrive il Fmi – è probabile abbia effetti significativi sulle altre economie”. E a parte le emergenti, ci sono anche le economie avanzate.
Il Fondo svolge anche alcune simulazioni per testare come un incremento dei tassi americani impatti su quelle di tutte le principali economie, partendo dall’ipotesi che è ragionevole aspettarsi un aumento dei tassi di 100 punti base dal livello “ancora depresso” di febbraio 2014.
“Anche se le principali banche centrali fuori dagli Usa possono controllare le aspettative sui tassi a breve – avvisa il Fmi – le stime suggeriscono che la normalizzazione del premio Usa possa conferire una pressione al rialzo sui tassi di lungo termine. Ovviamente un aumento del premio a termine e dei tassi a breve può avereun impatto ancora più grande”.
Detto in altri termini, quando la Fed inizierà ad alzare i tassi, tutti noi dovremo farci i conti.
A tal proposito il Fmi stima che un aumento del rendimento a lungo di 100 punti basi avrebbe un effetto di rialzo compreso fra i 35 e i 55 punti base sui rendimenti del decennale della Germania, unico stato europeo (non a caso) preso in considerazione nella simulazione. Non serve una laurea per capire che un aumento dei tassi tedeschi ha un effetto più che proporzionale sui nostri. Detto in altri termini, pure se lo spread rimane al livello attuale, se aumentano i rendimenti tedeschi aumenteranno pure i nostri.
E questo ci riporta al nostro DEF.
Se guardiamo alle tabelle diffuse dal governo leggiamo che la spesa per interessi per il 2014 è prevista al 5,2% del Pil. Sappiamo già che la spesa per interessi è la somma algebrica di avanzo primario (quando c’è) e deficit. Sicché l’avanzo del 2,6% (sempre previsto) nel 2014 ci consentirà di tenere il deficit al 2,6%.
Dal 2015 la spesa per interessi è prevista in calo, fino ad arrivare al 2018 al 4,7% del Pil. Contestualmente il saldo primario dovrebbe aumentare dal 3,3% del 2015 al 5% del 2018 (4,2% nel 2016, 4,6% nel 2017, 5% nel 2018), quando addirittura dovremmo ottenere un surplus netto di bilancio dello 0,3% del Pil. L’indebitamento netto strutturale, ossia corretto per il ciclo, dovrebbe arrivare al -0,1% nel 2015 per azzerrarsi (pareggio di bilancio) dal 2016 in poi.
Avere un surplus di bilancio significa avere la possibilità di abbattere lo stock di debito. Il Sacro Graal italiano.
Nel Def 2014 le stime sugli andamenti degli spread per i prossimi anni sono le stesse di quelle fatte dal governo Letta nel settembre scorso, nella nota di aggiornamento al Def 2013. Ricordo che all’epoca il governo prevedeva un avanzo primario del 2,9% sul Pil nel 2014, del 3,7% nel 2015, del 4,5% nel 2016 e del 5,1% nel 2017. Ciò a fronte di uno spread sul bund a 200 punti base nel 2014, di 150 nel 2015 e di 100 punti fra il 2016 e il 2017.
La prima evidenza che salta all’occhio è che gli avanzi primari stimati a settembre sono molto più alti di quelli stimati nel DEF 2014. E poiché il saldo primario è la differenza fra spesa per interessi e indebitamento netto, avere un saldo primario minore può significare che o è aumentato il deficit o è aumentata la spesa per interessi.
Il fatto che l’azzeramento dell’inebitamento strutturale sia rimandato di un anno rispetto a settembre 2013 (-0,1% nel DEF 2014) lascia sospettare che il deficit verrà interpretato un po’ più elasticamente.
La seconda tabella ci dà altre informazioni assai interessanti, laddove si esamina l’andamento delle varie componenti del Pil. La parte del leone, stima il governo, la faranno i consumi privati, previsti in crescita dello 0,2% nel 2014 (i famosi 80 euro in busta paga?), dello 0,9% nel 2015, dell’1,2% nel 2016, dell’1,6% nel 2017 e dell’1,7% nel 2018. Ricordo che nel 2013 i consumi privati si sono contratti del 2,6%.
Un contributo ancora più importante dovrebbe arrivare dagli investimenti fissi lordi, diminuiti del 4,7% nel 2013 erano, che si prevedono in crescita del 2% quest’anno, del 3% l’anno prossimo, fino ad arrivare al 3,8% nel 2018.
La spesa delle amministrazioni pubbliche, negativa per lo 0,8% nel 2013, dovrebbe contribuire per lo 0,2% quest’anno e rimanere vicina a zero fino al 2018 (la famosa Spending review).
Infine, le esportazioni nette. Nel 2013 hanno contributo al Pil per il +0,8%, facendo gridare al miracolo dell’export italiano (guidato dal calo dell’import però).
Negli anni a venire il contributo dell’export netto si abbasserà gradualmente: dal +0,5% del 2014 al +0,1% del 2018. Sostanzialmente il grosso della crescita prevista dipenderà dalla domanda interna. E’ il modo italiano per interpretare la fine delle politiche mercantiliste nell’eurozona.
Stiamo facendo la politica della Germania senza avere i soldi della Germania.
Pompare la domanda interna, se può avere un effetto energizzante sull’umore di molti cittadini (sempre i famosi 80 euro) porta con sé un rischio notevole sul versante dei conti esteri, visto che solo di recente, e solo grazie al calo dell’import, il nostro saldo di conto corrente della bilancia dei pagamenti è tornato (di poco) positivo. Se si fosse voluto puntare sulle esportazioni avrebbe avuto più senso puntare sulla competitività dedicando i famosi dieci miliardi di tagli di cuneo fiscale interamente alle imprese, per abbassare i loro costi relativi.
E tuttavia, anche sul fronte del conto corrente della BoP le previsioni del governo sono buone. A fronte del surplus dello 0,8% del 2013, ottenuto soprattutto grazie alla bilancia commerciale, si stima che quest’anno il surplus salirà all’1,4% del Pil, mantenendosi a questo livello fino al 2018, quando il saldo aumenterà all’1,5%. Mi sono chiesto, senza trovare una risposta, da dove verrà fuori questo saldo, atteso che tutte le voci del conto corrente sono negative tranne quella delle merci, che peraltro di prevede in rapido prosciugamento.
Se qualcuno può spiegarmi questa stranezza gliene sono grato. Anche perché nel DEF non c’è scritto come si sia arrivati a questa stima del saldo corrente.
Ma non è tanto questo il punto, o almeno non solo. Il punto è che scommettere su uno spread calante, come già aveva fatto il governo Letta, significa implicitamente puntare sulla FED. Ossia scommettere sulla circostanza che la banca centrale americana continuerà ancora a lungo la sua politica monetaria ultraespansiva, tenendosi la Bce come riserva in panchina. Francoforte dovrebbe preparare il suo personale quantitative easing, come non a caso ha sollecitato il ministro Padoan durante la conferenza stampa di presentazione del DEF, per intervenire appena la FED dovesse decidere di rallentare il suo. Il solito dilemma fra squilibrio o depressione.
Solo che la BCE non è la FED. E il Fmi molto opportunamente ce lo ricorda.
Ve la faccio semplice: il governo sta puntando su una politica fiscale sostanzialmente espansiva, pure a rischio dell’equilibrio di conto corrente della BoP e del saldo fiscale, scommettendo sul proseguimento di una politica monetaria espansiva, nella speranza che si rimetta in moto la macchina della crescita e che gli squilibri trovino da soli di che riequilibrarsi.
Detto ancora più semplicemente: il governo scrive DEF, ma legge FED.
Viaggio in Italia: nella morsa degli opposti automatismi
E poi a un certo punto mi viene da ridere.
Stavo leggendo con raro masochismo l’ultimo Macroeconomic imbalances dedicato all’Italia della Commissione europea, di cui tutti hanno parlato ma chissà quanti hanno letto. I giornali se la sono cavata con i soliti titoli riciclati sulla bocciatura italiana e l’hanno subito buttata in politica: Saccomanni qua, Renzi là, e il solito balletto di frasi fatte e indignazioni.
Un vero peccato. Perché nelle 68 pagine del rapporto europeo ci stanno un sacco di informazioni che aiutano a capire bene lo straordinario cul de sac nel quale siamo finiti.
Una di quelle situazioni da romanzo nelle quali qualunque cosa fai sbagli.
Solo che non è un romanzo.
Perciò a un certo punto mi viene da ridere. Mi trovo a pagina 44 e leggo “che un calo nella domanda domestica in Italia colpisce negativamente i paesi dell’area euro”. E poco prima, sempre la commissione, aveva ammonito sulla delicatezza dei link finanziari fra banche italiane e del resto del mondo, europeo in particolare.
In pratica l’unione bancaria c’è già. Di fatto, se non di diritto.
Ma quando leggo di quanto sia rilevante la domanda interna italiana per l’eurozona, mi torna in mente tutta la lamentazione europea di venti o trenta pagine prima sulla politica fiscale, secondo la quale dovremmo avere un’avanzo primario di almeno il 5% del Pil per iniziare una traiettoria davvero declinante del debito. E per riuscirci possiamo solo continuare il consolidamento fiscale, che ovviamente ha un effetto assai drastico proprio sulla domanda domestica.
Epperò – che bello, mi dico – è tornata la fiducia sul debito italiano, che comunque è troppo alto, col rischio che il saldo di conto corrente, migliorato grazie al crollo delle importazioni, torni ad affossarsi a causa dei troppi afflussi di capitale dall’estero che infatti sono fondamentali, ma sono pericolosi, perché poi peggiora la posizione patrimoniale netta sull’estero e ci rendiamo vulnerabili ai deflussi, qualora la fiducia dovesse invertirsi. E poi fanno peggiorare il saldo dei redditi della parte corrente.
Ecco che succede: siamo vittime degli opposti automatismi. La versione aggiornata degli opposti estremismi di quarant’anni fa.
Cerco di spiegarmi meglio. Se l’Italia aumenta la domanda interna, peggiora il conto corrente, perché l’Import torna a salire e l’export è stagnante. Se l’Italia diminuisce la domanda interna, come è successo nel 2012-13, migliora il saldo corrente, ma crolla il Pil e di conseguenza il debito diventa insostenibile. E per giunta facciamo danni pure ai nostri vicini.
Allora aumentiamo la domanda pubblica? Manco a parlarne. La commissione Ue dice che dovremmo fare un avanzo primario da quasi 80 miliardi l’anno per pareggiare totalmente la spesa per interessi sul debito senza fare deficit. Come fa la Germania, insomma. E dovremmo farlo almeno fino al 2020 per vedere il debito tornare verso una soglia più commestibile, che comunque è intorno al 120%. E stendiamo un velo pietoso sui vari fiscal compact.
Che rimane? Ah, sì: le esportazioni. La teoria (ormai pratica) degli opposti automatismi prevede che gli attivi di conto corrente compensino, lato Pil, il calo della domanda domestica, e contribuiscano a sostenere i deficit fiscali. Per dirlo in modo più comprensibile, con gli incassi che prendo dall’estero tengo in piedi l’economia nazionale.
Da noi ha funzionato a metà, e solo dal 2012. Il conto corrente è tornato in surplus dello 0,1% del Pil, ma solo perché le importazioni sono diminuite drasticamente. Ma non è che ci abbiamo fatto granché. O meglio, abbiamo acquisito un filo in più di credibilità, godendoci un robusto ribasso dello spread, che però ha finito con l’essere risucchiato dal deficit,rimasto inchiodato al 3% malgrado il calo del costo degli interessi sul debito. E infatti nel 2013 l’avanzo primario è diminuito e il Pil pure.
Peraltro, il calo dello spread ha finito col fare aumentare il deficit sul saldo dei redditi della parte corrente della Bilancia dei pagamenti. Ciò in quanto è aumentata la domanda di titoli di stato italiani dall’estero (a 711 miliardi nell’agosto 2013) e quindi è aumentata la quota di interessi sul debito trasferita all’estero. Ormai tale deficit ha superato stabilmente circa l’1% del Pil. La conseguenza è che il peggioramento del saldo sui redditi si mangia l’attivo sulla bilancia commerciale, che aveva raggiunto il 3% del Pil, prosciugando di fatto il saldo netto sul conto corrente.
Insomma: se va bene fuori va male dentro. Se stiamo bene dentro finisce che stiamo male fuori. E siccome viviamo – letteralmente – con i soldi degli altri (perché non vogliamo usare i nostri), se stiamo male fuori, finisce che prima o poi staremo male anche dentro.
Una barzelletta.
Mi sono fatto una risata. Ho chiuso il fascicolo europeo.
Meglio le comiche.
(1/segue)
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