Etichettato: inflazione di fondo

Cosa ci dice il confronto fra inflazione Ue e Usa

Inevitabilmente l’inflazione rimane la grande protagonista del dibattito economico internazionale, se non altro per la circostanza che, a parte gli effetti distruttivi sull’equilibrio sociale, è l’autentico fatto nuovo del nostro tempo.

Una interessante analisi pubblicata sul Bollettino economico di Bankitalia, a tal proposito, ci ricorda una evidenza che troppo spesso viene trascurata quando gli istituti di statistica rilasciano i propri indici: le inflazioni non sono tutte uguali e la loro fisionomia molto dipende non solo dalla conformazione economica di un paese – ad esempio sulla sua disponibilità di materie prime – ma soprattutto dal contesto istituzionale in cui mature l’evento inflazionistico e dalle risposte di policy che vengono a determinarsi.

Nulla di strano, ovviamente. Semmai è degna di attenzione la circostanza che situazioni tanto diverse debbano essere gestite con una cassetta degli attrezzi con dentro manovre di restrizioni della politica monetaria, di competenza della banche centrali, mentre assai più in ombra rimane il ruolo dei governi, che gestiscono l’altra metà della luna delle politiche pubbliche: quella fiscale. Questa “disattenzione” rischia di alimentare politiche strabiche o addirittura contraddittorie, che finiscono col rallentare la normalizzazione dei prezzi, che invece dovrebbe anticiparsi il più possibile per evitare che la tensione inflazionistica si trasferisca nel tessuto economico, cambiando le aspettative e mettendo sotto stress il sistema produttivo, sia lato azienda che lavoratori.

Queste considerazioni si possono ricavare dalla semplice analisi dell’andamento dell’inflazione complessiva negli Usa e nell’Ue guardando però non semplicemente all’indice dei prezzi, ma alla sua composizione.

La prima cosa che si osserva è che le due inflazioni hanno in comune un andamento declinante a partire dalla seconda metà del 2022, in sostanza da quando le restrizioni monetarie delle banche centrali hanno iniziato a trasmettere i propri effetti sull’economia. “L’inflazione negli Stati Uniti, misurata sulla base dell’indice dei prezzi al consumo, è scesa di circa 6 punti percentuali (dal 9,1 per cento di giugno 2022 al 3
in giugno 2023); l’andamento è stato simile nell’area dell’euro (dal 10,6 per cento di ottobre 2022 al 5,5 in giugno 2023), dove la dinamica dei prezzi ha seguito quella degli Stati Uniti con alcuni mesi di ritardo”, osserva Bankitalia.

Ma le somiglianze finiscono qui. L’Europa infatti ha visto crescere notevolmente il contributo della componente energetica sui prezzi – tra l’inizio del 2021 e l’estate del 2022 i prezzi del gas sono infatti cresciuti di circa 17 volte in Europa, e “solo” di quasi 4 negli Stati Uniti – mentre negli Usa la componente dei servizi è stata quella che più di altre ha contribuito non solo alla crescita dell’indice, ma anche alla persistenza dell’inflazione, ormai “contagiata” alla componente di fondo.

Un’altra caratteristica che distingue l’Europa dagli Usa è il contributo dei generi alimentari, molto alto in Europa, assai meno negli Usa. Una buona notizia a metà per l’Europa, visto che la componente alimentare pesa circa i due terzi dell’indice complessivo, ma non tocca la componente di fondo, che è quella che ispira le decisioni della Bce. Ovviamente rimane un problema: se il cibo costa caro la gente non si consola certo pensando che la componente di fondo dell’inflazione sta tornando sotto controllo. Però è giusto sottolinearlo.

Un’altra interessante considerazione la propone Bankitalia: “l’eccezionale ampiezza dei rincari energetici avrebbe indotto revisioni anche dei prezzi dei beni e dei servizi che rientrano nella componente di fondo
più frequenti nell’area dell’euro”. Significa che la struttura economica dell’Europa trasferisce più facilmente gli shock energetici nella componente di fondo rispetto a quella statunitense. Detto diversamente: l’Europa ha un problema con l’energia. Molto difficile da risolvere. I nostri prezzi di fondo sono assai più sensibili ai rincari energetici di altri paesi e questa è sicuramente una fragilità. La scomposizione dell’inflazione di fondo fra componenti energetiche e non energetiche lo mostra con chiarezza.

Questa fragilità, tuttavia, nasconde anche forza: il sistema economico europeo, al netto dell’energia, è più resiliente all’inflazione. Quindi se l’Europa trovasse il modo di superare i suoi deficit energetici, a scenari invariati, sarebbe assai meglio attrezzata degli Usa per affrontare l’insidia inflazionistica.

Si dirà che non è per niente facile superare la fragilità energetica Certo. Ma l’inflazione che stiamo vivendo è un ottimo promemoria. Ci ricorda che non esistono soluzioni facili. E per questo vale la pena perseguirle con tenacia.

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Cartolina. Al fondo dell’inflazione

Era molto consolante pensare che il carovita fosse colpa dell’energia. Perché lasciava coltivare l’illusione che una volta che petrolio e gas fossero tornati a prezzi normali, anche il resto si sarebbe adeguato. Ma era un’illusione, appunto. Adesso che l’energia contribuisce negativamente alla dinamica dei prezzi, ci siamo accorti che la cosiddetta componente di fondo dell’inflazione, ossia quella al netto di energia e cibi freschi, non vuole saperne di retrocedere. Al contrario: si dimostra persistente, con i servizi a far la parte del leone, perché nel frattempo il carovita si è contagiato al settore produttivo e chi ha potuto ha alzato i prezzi. Anche nel settore dei beni si vede un contributo crescente all’inflazione, non solo perché le imprese difendono con le unghie e con i denti i propri margini di profitto, ma anche perché s’intravedono aumenti di salari. Al fondo dell’inflazione, insomma, non c’è più l’oro nero. Ma il rosso di chi non arriva più a fine mese.

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Cronicario: Il gong del 2% manda all’angolo Francoforte

Proverbio del 2 marzo Chi vuole fare trova il modo, chi non vuole trova una scusa

Numero del giorno: 18,2 % italiani che fanno almeno 2,5 ore a settimana di sport

E’ come se, nel mezzo di un bel match di pugilato, il colpo del knock out arrivasse dal pubblico. Da una parte il nostro beneamato Mago di EZ, coi suoi guantoni imbottiti di euri, dall’altra i prezzi, indomitamente bassi, che rimangono a terra senza convincersi a rialzarsi. Fino a che, un bel giorno di fine novembre, alcuni del pubblico – quelli dell’Opec, sapete – si stufano: si mettono d’accordo e lanciano una lattina di petrolio sui prezzi che ha l’effetto di un afrodisiaco. I prezzi si rialzano e cominciano a menare forte. Tre mesi dopo che ci dice Eurostat? Che l’inflazione annuale di febbraio è arrivata al 2%.

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Il rumore da fine round arriva bello forte nelle orecchie dei pugili, che finiscono subito all’angolo. Serve un conciliabolo con l’allenatore. Quelli della Bce cominciano a ragionare. Magari facciamo un esercizietto per vedere cosa succede alle banche se alziamo i tassi. Anche perché neanche 24 ore fa è arrivato il dato della Germania  e oggi è arrivato quell’altro sui prezzi all’importazione cresciuti del 6% su gennaio 2016.

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E poi da almeno due settimane ci sono quelle maledette cornacchie del Cronicario che starnazzano sull’inflazione.

Mentre ragionano, i banchieri centrali, guardano dati e tabelle in cerca di scappatoie.

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Finché ne trovano una: è tutta colpa del petrolio. Ed ecco la parolina magica più usata a Francoforte in questi giorni: inflazione di fondo. Anzi, come dicono quello istruiti, inflazione core, senza energia e cibi freschi.

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Notate che l’inflazione senza energia e cibi freschi è inchiodata allo 0,9% e che il contributo maggiore alla crescita dell’indice l’ha dato l’energia, col 9,2% in più. Ma che succederà quando l’inflazione di fondo si sommerà a quella indotta da i beni energetici?

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Nell’attesa che il gong finisca di rintronare i nostri pugili e l’incontro riprenda, possiamo distrarci guardando i dati della disoccupazione che, sempre nell’EZ, rimane stabile al 9,6%, ancora lontana dal minimo del 2007, quando stava a poco più del 7%, ma in deciso trend ribassista.

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Noi stiamo ancora sopra la media, ma di buono c’è che diminuiscono gli inattivi, -42mila, salvo che per i più giovani (15-24 anni) dove sono aumentati. Spero che questi neo-inattivi siano diventati tali perché hanno ereditato. Si osserva che nel periodo novembre 2016-gennaio 2017 l’aumento di occupati rispetto al trimestre precedente, pari a 37 mila unità, +0,2%, riguarda in gran parte gli uomini ultracinquantenni, un trend peraltro confermato su base annuale. Quindi se siete giovani, non avete ereditato, né avete prospettive di eredità, avete solo una cosa da fare: le valigie.

A domani.