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Se la moneta “privata” diventa privata davvero
Una bella allocuzione di un banchiere centrale britannico pone la questione delle monete digitali sotto una luce diversa dal solito. Merita di essere raccontata perché, aldilà della tecnicalità, ha a che fare con il modo in cui si pensa debba essere organizzata la moneta, ossia la società. La domanda è chiara già dal titolo: “Abbiamo bisogno di una moneta pubblica?”
La risposta presuppone già una conoscenza alquanto articolata di come funzioni adesso il meccanismo che regge la moneta, che il banchiere riepiloga brevemente: in sostanza la moneta che usiamo è una creatura metà pubblica e metà privata, nel senso che viene cogestita dal duopolio banca centrale/banca commerciale, con la prima ad emettere la moneta fisica – le banconote – e le riserve di banca centrale, e la seconda a fornire la moneta cosiddetta bancaria che giace nei depositi. Moneta che il nostro banchiere, a rischio di generare qualche equivoco, chiama “moneta digitale”, quando forse sarebbe più chiaro chiamarla moneta elettronica, per non confonderla con le monete digitali di banca centrale alle quali abbiamo dedicato numerosi approfondimenti.
Ma forse l’uso un po’ ambiguo del termine digitale per la moneta elettronica è voluto. Perché se si dice che la moneta bancaria è già in larga parte digitale, mentre quella delle banche centrali non ancora, si capisce che non è tanto la forma della moneta – digitale versus analogica – il tema dell’intervento del banchiere britannico, ma la sua titolarità.
Il succo dell’argomento è molto semplice. Nel tempo, “la convenienza, specie a causa dell’e-commerce – ha spinto la domanda pubblica di moneta digitale. Come risultato l’uso di moneta pubblica nella forma di cash fisico è stata declinante”. Traduzione: le persone usano sempre più moneta elettronica/digitale di provenienza privata, ossia bancaria, e sempre meno banconote, ossia moneta di banca centrale. Quindi si fa sempre uso di moneta privata invece di moneta pubblica. Fra le altre cose, il banchiere osserva che in UK ormai la moneta bancaria “privata” pesa il 95% del totale della moneta in circolazione e che solo il 23% degli scambi quotidiani viene regolato in moneta fisica pubblica, ossia in contanti. Dieci anni fa era il 60%.
E’ un problema? Affatto: il nostro sistema attuale si basa proprio sul rapporto virtuoso fra le due entità bancarie che si sono distribuite nel tempo i compiti: la banca centrale, con la sua credibilità, garantisce il valore della moneta. Le banche commerciali che emettono moneta privata accettano la regolazione imposta dal governo per garantire la loro robustezza e possono contare sulla banca centrale non solo per regolare le loro transazioni interbancarie, ma anche come cassaforte a cui attingere in caso di stress.
Il governo dal canto suo ha pure creato degli strumenti di assicurazione sui depositi che tutelano il risparmiatore dai rischi che possono derivare da un uso spericolato della moneta privata da parte delle banche. “Privata” di diritto, più che di fatto, si potrebbe dire.
Il sistema, che ci ha messo vari secoli a prodursi, funziona talmente bene che nessuno che non sia un addetto ai lavori ha mai notato la differenza fra la moneta pubblica delle banca centrale e quella privata delle banche commerciali, per la semplice ragione che il sistema di garanzie attorno alla moneta privata l’ha resa pubblica quanto agli effetti. Per il cittadino normale un euro è un euro, e non c’è nessuna differenza fra la moneta fisica che tiene in tasca e quella che deposita sul conto corrente.
Il problema nasce nel momento in cui ai due protagonisti di questi gioco secolare si sono aggiunti altre entità che tendono a promuovere un nuovo tipo di moneta, facendo quindi scivolare la preferenza del pubblico sempre più verso la moneta privata, ma stavolta privata sul serio: un bitcoin o una stablecoin non hanno né una banca centrale che agisce da backstop quando necessario né uno strumento di tutela dei depositi. Sono monete finché esiste la fiducia nei loro confronti – una fiducia che nessuno garantisce a livello istituzionale – e che diventano un normale asset di investimento quando la fiducia cessa. Si pensi alla volatilità di Bitcoin.
Questa tendenza verso una crescente privatizzazione della moneta, che alcuni decenni fa diede origine a un libro molto interessante di Von Hayek, motiva la domanda che titola l’intervento del banchiere britannico. Chi propone questa moneta privata, peraltro, non è una banca, e tantomeno una banca centrale, che è espressione di un un governo, ma quelle compagnie private multinazionali, che operano nell’Hi tech che abbiamo chiamato altrove Nazioni globali. “I loro modelli di business – dice – sono molto diversi da quelli delle banche: molti non hanno alcun interesse fornire credito, ma piuttosto cercano di integrare nuove forme di denaro nei loro servizi basati sui dati”. Il tema è ampiamente discusso, e non serve tornarci qui.
Ma se l’uso del cash diminuisce sempre più, e quindi si usa sempre meno moneta pubblica a vantaggio di quella privata dovremmo preoccuparcene oppure no? Per dirla con le parole del banchiere, “perché lo stato dovrebbe essere coinvolto nell’emissione di denaro al pubblico in concorrenza con il settore privato? Lo stato non ha smesso di fornire elettricità direttamente o acqua al pubblico nel Regno Unito? Perché dovrebbe fornire denaro?” La domanda è intrigante, visto che viene costantemente celata nel dibattito sulla fornitura di moneta digitale di banca centrale.
La risposta parte dalla considerazione che la decisione di uno stato se emettere o no moneta pubblica non dovrebbe essere condizionata dal fatto che se ne usa sempre meno. E questo già contiene in nuce la risposta completa. Perché contiene il pensiero che la moneta, che decida di emetterla o meno, è una funzione di stretto appannaggio della sovranità nazionale, come d’altronde insegna la teoria politica sin dall’inizio dell’età moderna. Un governo può affidare a una banca privata l’emissione di moneta, come fece il sovrano inglese con la Banca d’Inghilterra alla fine del XVII secolo, ma si tratta di una concessione di un diritto che rimane sovrano.
Ma di tutto questo il nostro banchiere non parla. Per adesso, dice, “in UK non si è presa alcune decisione sull’introduzione di una moneta digitale di banca centrale”, anche se le cronache evidenziano chiaramente quale sarà il peso specifico del governo britannico in questa decisione.
Ma se togliamo per un momento dal tavolo l’argomento politico – che comunque ha un peso rilevante – ci sono anche questioni tecniche che devono essere prese in considerazione contemplando la decisione se emettere o no una valuta digitale. Per dirla diversamente: l’assenza di una moneta pubblica ha effetti sulla stabilità finanziaria?
Il succo della risposta è sostanzialmente sì. Il motivo è resto detto: una moneta privata non può essere convertita in moneta pubblica – leggi banconote – se la moneta pubblica non esiste. E soprattutto una banca potrebbe non essere in grado di farlo se non fosse regolata dallo stato e non avesse alle spalle una banca centrale – che ricordiamo emette moneta pubblica sotto forma di riserve. Ciò per dire che il ruolo della moneta pubblica non è semplicemente quella di essere scambiata fra i soggetti economici, ruolo declinante come abbiamo detto, ma è quello di svolgere una funzione di stabilizzazione finanziaria simboleggiando il ruolo dello stato nel sistema. Chi mastica storia economica avrà memoria dei numerosi bank run fra il XVIII e XIX secolo, quando il sistema attuale era in corso di formazione.
Se questa considerazione vale per la moneta “privata” delle banche commerciali, figuriamoci per quelle delle Big Tech, che non sono neanche banche e quindi non hanno né regolazione, né banca centrale che li stabilizzi. Hanno però un notevole potere attrattivo verso i consumatori, che molto facilmente possono venire catturati dalla ragnatela di una piattaforma informatica.
E questo ci conduce al secondo elemento tecnico che la banca centrale – ossia il governo – ha tutto l’interesse a presidiare: il sistema dei pagamenti. Le piattaforme entrano in competizione con il sistema dei pagamenti tradizionali, cheproprio come la moneta, si regge sul duopolio fra banca centrale e banca commerciale. Le monete digitali hanno la potenzialità di migliorare notevolmente l’efficienza del sistema dei pagamenti, specie a livello trans-frontaliero, che poi in larga parte è il livello dove operano le piattaforme. Non a caso la Bis sta lavorando con un sistema di banche centrali a un progetto per migliorare l’infrastruttura di questi pagamenti.
Infine, ci sono questioni minori, ma non meno importanti, che motivano l’esistenza di una moneta pubblica: l’inclusione, ad esempio. Per usare le banconote non serve né un conto corrente né uno smartphone, al contrario di ciò che occorre con una moneta digitale. Al momento in UK vi sono 1,2 milioni di persone che non hanno conti correnti: come dovrebbero svolgere le loro transazioni se non ci fosse il contante? E poi ci sono le questioni di privacy, ovviamente. Una moneta elettronica è sempre identificabile. Una banconota mai.
Rimane il problema: non possiamo facilmente fare a meno di una moneta pubblica, ma ne facciamo sempre più a meno, e “le nuove tecnologie e l’ingresso di nuovi player è probabile rinforzino questi trend”. La moneta pubblica rischia di diventare il fantasma di quella privata. A meno che i governi non decidano di rilanciare. Non hanno ancora deciso. Ma ci pensano molto.
L’ascesa secolare del debito privato
A quanto pare c’è poco di nuovo da aspettarsi per il futuro. La prigione del debito nella quale le società si sono infilate non è una semplice circostanza, ma esprime addirittura una tendenza secolare che fa il paio con quella ribassista dei tassi di interesse e con quella del ristagno al quale sembrano condannate le nostre economie. Tutto si tiene d’altronde. E a noi che osserviamo resta solo da capire in che modo le nostre società, con le famiglie, le imprese e gli stati, dovranno rendere questi debiti sostenibili ben sapendo che comunque dovremo pagare il prezzo di una vita economica volatile e squilibrata.
Per il momento l’unica risposta è arrivata dalle banche centrali che, almeno nei paesi più sviluppati, si sono rassegnate a tenere a zero i tassi di interesse, pur sapendo che alla lunga rischiano di creare nuove pressioni sulla stabilità finanziaria. E tuttavia non possono far altro. La prigione del debito, a ben vedere, altro non è che il lato oscuro dell’altra prigione, quella del credito, nella quale le economie occidentali sembrano condannate ad abitare e che trova le sue ragioni nelle tendenze di fondo dell’economia delle quali i boom creditizi sono una manifestazione ineludibile.
Così almeno la racconta Jon Cunliffe, vice governatore della BoE che si occupa principalmente di stabilità finanziaria, al quale dobbiamo uno speech molto interessante dedicato proprio alla deriva creditizia delle nostre società. La prospettiva storica aiuta a comprendere la portata della questione. I dati sono riferiti al Regno Unito, ma il trend somiglia a quello di altre economie. L’UK, insomma, è un ottimo benchmark.
Nel 1880, dice il nostro banchiere, lo stock di debito privato – o, che è lo stesso, di credito concesso dalle banche al settore privato non finanziario – oscillava intorno al 16% del Pil. Da allora questa montagna di credito/debito è cresciuta costantemente, salvo le interruzioni dovute alla guerra, arrivando al 63% nel 1950, rimanendo a quel livello, fra alti e bassi, fino al 1980.
“Il tasso di crescita cambiò marcatamente negli ultimi 20 anni del secolo scorso – dice – che fu un periodo di prima liberalizzazione e globalizzazione del settore finanziario. Il credito iniziò a crescere più velocemente dell’economia e come risultato lo stock passò dal 63% del Pil nel 1980 al 120% dei primi anni ’90. Quindi rallentò alcuni anni a causa della recessione di quel periodo e poi riprese a salire. Nel 2009 aveva raggiunto il 177% del Pil. In aggregato le economie avanzate hanno visto un trend simile”.
Nei dieci anni fra il 1997 e il 2007 il credito è cresciuto in media del 7% l’anno a fronte di una crescita del prodotto del 3%, quindi più del doppio dell’economia. “Se questo trend non si fosse fermato, saremmo arrivati al 200% del Pil nel 2012 e al 300% nel 2023”. E questo meglio di ogni altro ragionamento fotografa ciò di cui siamo capaci.
La crisi interruppe questa ricorsa. Nel 2014 il credito scese dal 177% del Pil al 140, dove si trova adesso, quindi al livello del 2002. Dovrebbe scendere un altro 25% per tornare a livello del 1997 che, giova ricordarlo, non era basso.
La crescita del credito implica quella del debito, ovviamente. E infatti le famiglie britanniche hanno visto i loro debiti seguire lo stesso trend: più o meno intorno al 50% fino al 1980, e poi raddoppiarlo fino a superare il 100% nel 1990, per arrivare al 155% nel 2007. Ora si trova al livello del 2012, al 135%, che poi è lo stesso del 2004.
Comprendere cosa ci sia dietro questa crescita di credito/debito è molto più che un esercizio accademico per il nostro banchiere, tanto più oggi che il credito è tornato a crescere anche se al momento sembra in linea con la crescita economica. Con l’ovvia premessa che “il credito o il debito non sono cattivi”, il nostro sottolinea che questa consuetudine di farli crescere ormai appartiene al nostro costume economico. Non sapremmo fare senza insomma. “La nostra società e la nostra economia – dice – sarebbero molto differenti, e io sospetto a noi meno congeniali se il rapporto fra credito e pil fosse lo stesso del 1880”. Ma questo non vuol dire che questo trend sia inarrestabile: “Gli alberi non possono raggiungere il cielo”, osserva.
In questo esercizio di realtà, nel quale si confrontano l’appetito potenzialmente inesauribile di una società e la capacità di un sistema bancario di sostenerlo, il punto centrale è che “il debito ha reso la nostra economia più vulnerabile”. “Un alto stock di debito nelle famiglie – sottolinea – , specie quando è garantito da asset immobiliari è stato alla radice di molte crisi finanziarie in passato”.
Quindi sembra che tutto cospiri a favorire il credito e al tempo stesso a rendere il debito un pericolo per la società. E non riesco a trovare definizione più precisa per esprimere la trappola paradossale nella quale ci siamo infilati con le nostre stesse mani.
Altre informazioni completano il quadro. Premesso che l’UK si è trovata alle prese con un lungo e tormentato ciclo finanziario, la prima domanda alla quale il banchiere prova a rispondere è dove siano finiti tutti questi soldi che le banche hanno generosamente provvisto. Perché se l’economia è cresciuta assai meno del credito, nel decennio prima della crisi, ciò vuol dire che questo fiume di denaro è finito immobilizzato da qualche parte. Le analisi dicono che in parte è stato utilizzato dalle imprese per i loro affari – circa un terzo – ma il grosso, quindi i due terzi, è finito in pancia alle famiglie in larga parte per comprare casa. Il debito assicurato delle famiglie inglesi è passato dal 70% del reddito degli anni ’90 a oltre il 110% del 2007, con uno stock assoluto passato da 300 miliardi di sterline a 700. “Il driver principale è stata la salita dei prezzi delle case”.
Ma cosa ha determinato il rincaro dei prezzi delle case? Il nostro banchiere ne individua la ragione principalmente nella discesa, anche questa secolare, del tasso di interesse di lungo termine, visto che quest’ultimo “è importante sia per il livello del debito che per il valore degli asset che finanzia”. Con la precisazione che “il tasso di interesse reale è naturalmente dipendente da fattori strutturali non dalle banche centrali”. Col che queste ultime vengono definitivamente assolte. I tassi si abbassano non perché le banche centrali – ed è il caso della Fed e della BoJ – li tengono pressoché a zero da quasi un decennio, ma perché sono all’opera tendenze di lungo periodo.
Negli ultimi 30 anni – guarda caso da quando il debito ha iniziato a crescere senza sosta – il tassi di interesse reale sono diminuti di 4,5 punti in tutti i principali paesi. “Il declino strutturale dei tassi reali ha fatto salire, in particolare, i prezzi delle case, a causa della loro offerta rigida e ha reso i debiti più facili da servire”, dice ancora. In tal senso, quindi, la tendenza delle BC di tenere i tassi nominali a breve a zero non fa altro che obbedire a principi profondi del nostro vivere economico contemporaneo e quindi dovremmo pure essere loro grati per la sollecitudine.
In questa narrazione, in cui sembra che non ci sia nessun colpevole e quindi tutti siamo responsabili – vuoi per la demografia, vuoi per la distribuzione del reddito, vuoi per i debiti che abbiamo cumulato – l’unica controindicazione è che i fattori strutturali sottesi al calo dei tassi, e quindi alle facilitazioni creditizie, sembrano siano in gran parte destinati a durare. E soprattutto una constatazione: ammesso che la crescita del credito sia ineludibile, ciò non vuol dire che non ponga enormi problemi di gestione del rischio e della stabilità finanziaria. Sarà pure più facile fare debiti, perché sarà più facile fare credito, ma questo non vuol dire che poi tali debiti non si debbano pagare. O meglio, almeno servire. Ossia pagare gli interessi.
Da questo punto di vista c’è stato un miglioramento in UK. Nel 2001 lo stock del debito era di 800 miliardi di sterline e i tasso di interesse del 6,7%. Oggi lo stock è raddoppiato a 1,6 trilioni, ma il tasso si è quasi dimezzato al 3,6%, senza includere il credito al consumo.
Ed eccolo qua il capolavoro per il quale cospirano i cambiamenti secolari e l’intelligenza delle banche centrali: rendere una montagna di debito crescente sostenibile abbassandone il costo del servizio.
In questo paradiso del debito, però, si annida un serpente: il debito stesso. Un alto livello di debito, dice lo stesso banchiere, rende comunque un paese fragile perché una famiglia indebitata comprime i consumi per pagare i suoi debiti e inizia quella deriva deflazionaria che conosciamo bene sin dagli anni ’30 e che somiglia tanto a quella vissuta di recente.
Insomma: dobbiamo rassegnarci ai debiti e pensare a come pagarci sopra gli interessi sapendo che ogni crisi è destinata a ripetersi secondo un copione ormai noto. Ma non è colpa di nessuno. Quindi nessuno può far niente.
E’ una tendenza secolare.