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Il crollo del mattone costa 270 miliardi alle famiglie italiane
Il terremoto del mattone italiano, di cui l’Istat ha dato conto nei giorni scorsi, ha causato uno tsunami nei bilanci delle famiglie italiane, già messi a dura prova dal crollo della ricchezza immobiliare iniziato dopo la crisi.
Non occorre essere fini analisti per avere un’idea di quanto pesi il calo medio del 5,6% registrato da Istat nel 2013 dei valori immobiliari nazionali. Basta vedere quanto fosse quotata la ricchezza immobiliare degli italiani a fine 2012 e calcolare la perdita media. Viene fuori un dato, approssimativo quanto volete, ma assai indicativo: la crisi del mattone ha bruciato il 5,6% dei 4.800 miliardi di ricchezza abitativa, così come quotata dalla Banca d’Italia nell’ultima ricognizione sulla ricchezza delle famiglie a fine 2012.
Ricordo che tale valore aveva giù subito un calo del 3,9% rispetto al 2011, equivalente al 6% in termini reali.
Parliamo, quindi, di circa 270 miliardi di perdite (teoriche) sofferte nel corso del 2013.
Come tutte le trilussiane medie del pollo, anche questa va presa con le pinze. Anche perché l’Istat ci avverte che il calo di corsi immobiliari è stato assai più pronunciato per le abitazioni esistenti (-7,1%, dopo il -4,9% del 2012) e assai meno per quelle nuove, calate del 2,4% a fronte di un aumento del 2,2% nel 2012.
Quindi a soffrire la perdita di ricchezza maggiore sono state innanzitutto quel 67,2% di famiglie che, sempre secondo Bankitalia, possedeva la casa dove abitava. E poi il vastissimo popolo delle seconde e terze case, che ha visto dimagrire la propria ricchezza in proporzione.
Si dirà: ma questi valori sono assolutamente teorici, specie per chi possiede la casa dove abita, per il quale cambia poco sapere che la sua casa vale di meno. E’ così, però vi ricordo che la ricchezza immobiliare (sempre Bankitalia) a fine 2012 quotava 8.542 miliardi di euro, il 61% dei quali era proprio mattone. Quindi se il mattone pesa per due terzi sulla ricchezza delle famiglie, un dimagrimento del mattone ha un peso relativo assai più pernicioso di un calo delle attività finanziarie. E lasciamo da parte l’effetto psicologico che ha un impoverimento, anche se teorico, sul livello dei consumi.
In sostanza: se cala il mattone, le famiglie si ritroveranno molto più povere che se calasse la borsa.
Poi c’è tutto il settore corporate, finanziario e non, che deve essere considerato e, dulcis in fundo il mattone pubblico, ancora rilevante, e quello dei fondi pensione.
Sappiamo già che le banche italiane sono gonfie di mattone e titoli di stato. Ma sono anche molto esposte lato crediti concessi al settore immobiliare. Quindi ogni calo dei corsi immobiliari ha un effetto diretto sui loro conti, specie in tempi di asset quality review. E non è affatto detto che la strategia che le banche stanno seguendo negli ultimi anni, ossia costituire fondi immobiliari ai quali trasferire asset, alla lunga funzioni.
Anche perché, e questa l’incognita peggiore, non è affatto detto che la correzione dei corsi immobiliari italiani sia terminata.
Se analizziamo i dati Istat, notiamo che il calo dei prezzi dal 2010 è significativo, in particolare da fine 2011 in poi. Fatto 100 l’indice dei prezzi totale al primo trimestre 2010, al quarto trimestre 2013 la curva ondeggia intorno a 90, che può sembrare un calo contenuto ma solo perché è la solita media delle case esistenti e quelle nuove.
Queste ultime infatti hanno visto un indice in crescita fino a oltre 104 a metà 2012, per poi iniziare un leggero declino che, a fine 2013, ha riportato l’indicatore in zona 100, precisamente a 102,4.
Le case esistenti, invece, sono quelle che sono crollate davvero. L’indice a fine 2013 quotava fra 88,2 punti. Manco a dirlo, la case esistenti sono quelle che pesano di più sul totale del patrimonio immobiliare italiano. Il che equivale a dire che da inizio 2010 le case esistenti hanno perduto il 11,8% di valore.
Sottolineo, che sempre per le case esistenti, il ribasso accelera col passare del tempo: l’indice era diminuito dello 0,2% nel 2011 rispetto al 2010. Poi del 4,9% l’anno successivo, per arrivare al -7,1% del 2013.
Il trend, insomma, è abbastanza definito. E se guardiamo anche al calo delle compravendite, ancora pronunciato, capiamo bene che non basta un piccolo aumento del numero dei mutui concessi delle banche per dire che siamo fuori dal tunnel. Anche perché molti di questi mutui potrebbero essere ricontrattazioni.
Una rondine non fa primavera.
Figuratevi un mutuo.
Il mattone italiano è una casa desolata
Per una di quelle cose che succedono, nel giorno il cui il mercato immobiliare americano celebrava i suoi dati migliori dal 2008 è uscito anche il sondaggio congiunturale di Bankitalia sul mercato nostrano delle abitazioni. Si tratta di una di quelle indagini simil-campionarie che la banca centrale svolge ogni trimestre sondando gli umori degli operatori professionali del settore per cercare di capire, da loro che hanno occhi e orecchi sul mercato, l’aria che tira.
Il risultato è desolante. Le rilevazioni, relative all’ultimo trimestre 2012 e raccolte nel gennaio scorso, fotografano aspettative assai pessimistiche, prezzi ancora in calo, tempi di compravendita che ormai sfiorano i nove mesi, vendite congelate. E come se il settore immobiliare italiano stesse aspettando il suo Godot, senza che nessuno sappia bene quando arriverà. La ripresa, di cui tanto si parla, arriverà nel 2015. Forse, però.
Vediamo qualche numero. Nel quarto trimestre 2012 quasi l’80% degli agenti interpellati ha parlato di prezzi in calo (erano il 75% tre mesi prima). E in effetti le tabelle parlano di sconti, rispetto al prezzo di richiesta, che nel 24,6% delle vendite effettuate hanno oscillato fra il 20 e il 30%, e nel 46,3% fra il 10 e il 20%. Se sommiamo il dato, viene fuori che oltre il 70,% delle compravendite ha scontato il prezzo finale in media del 20%, mentre lo sconto medio per il 100% delle compravendite si è attestato al 16%. Quindi i prezzi che vedete sugli annunci potete tranquillamente scontarli in media altrettanto.
Interessante anche il dato sui tempi di vendita. Ormai la media si attesta a 8,5 mesi (dagli 8,2 del trimestre precedente). Forse anche in conseguenza della circostanza che diminuisce la quota di acquirenti che scelgono di accendere un mutuo per comprare l’abitazione. Tale percentuale è scesa dal 59,6%% al 56,2%. Significa che in pratica l’acquisto di una casa, prima o seconda che sia, è sempre più appannaggio di chi già disponga dei capitali necessari, e proprio in virtù del proprio essere liquido, riesce a spuntare dei buoni sconti. Come sempre accade, insomma, i più ricchi fanno sempre gli affari migliori.
Se il presente è desolante, il futuro è quantomeno opaco. Gli agenti che vedono nero sono sempre di più, dal 41,6% al 42,8, mentre il 72,2% degli intervistati è convinto che i prezzi caleranno ancora. I più pessimisti sono gli operatori del Nord-est. Serviranno almeno un paio di anni, dicono gli operatori, prima di tornare a vedere la luce nel tunnel.
Il ciclo immobiliare avverso perciò, iniziato nel lontano 2008, rischia di essere uno dei più lunghi, se non il più lungo in assoluto, dal dopoguerra ad oggi, confermando l’ipotesi che ormai il mattone italiano abbia imboccato la via di un cambiamento storico.
Tale deduzione viene confermata anche dai dati sulle locazioni. Larga parte degli operatori (il 58,1%) ha registrato un ulteriore calo congiunturale sui canoni d’affitto. Chi non ha i soldi per comprare casa deve rivolgersi necessariamente al mercato dell’affitto, ma questa domanda crescente non provoca il prevedibile rialzo dei prezzi delle locazioni, ma il contrario (solo il 2% degli operatori ha affittato con canoni crescenti). Un’anomalia che registra uno stato di cose evidente: i proprietari, pur di fare un po’ di cassa per coprire le spese, affittano pure al ribasso. Questo in pratica vuol dire che i rendimenti del mattone sono destinati a comprimersi ancora di più. Il mattone, quindi, sarà pure un investimento sicuro. Ma di questi tempi solo a perdere.
Il mattone italiano nel tornante della storia
La storia del nostro mercato immobiliare è cambiata nel 2005, dopo quasi cinquant’anni. Un bel grafico, frutto di una corposa elaborazione del Cresme, pubblicato nell’ultimo rapporto sul mercato delle costruzioni, racconta come si sia evoluto il mattone italiano sin dal 1958, e tratteggia uno scenario epocale per gli anni che abbiamo di fronte. Ossia che per la prima volta nel nostro Paese diminuiranno i proprietari e aumenteranno gli inquilini.
Il grafico in questione mette insieme quattro curve che misurano, rispettivamente, l’andamento del reddito familiare netto, il prezzo delle abitazioni, i canoni di locazione e la spesa delle famiglie per consumi. Fatta 100 la base nel 1958, l’andamento del reddito è stato sempre crescente, con un picco di oltre 300 raggiunto nel 1988, quando ha iniziato a declinare. Anche la curva dei prezzi immobiliari ha avuto un incremento crescente, seppure con un ciclo di rialzi/ribassi più pronunciato. Ma la curva del reddito è stata sempre sopra quella dei prezzi immobiliari. Ciò vuol dire che le famiglie hanno avuto sempre a disposizione una quota di risparmio, in alcuni momenti anche significativa, da investire sul mattone.
Le due curve si toccano per la prima volta intorno al 1992. I prezzi del mattone erano al picco di un trend di crescita iniziato a metà degli anni ’80 (che poi darà inizio a un ciclo ribassista), mentre i redditi seguivano il loro trend di calo iniziato nel 1988 (indice poco sopra 275).
Il calo del settore immobiliare dei primi anni ’90 fece risalire ampiamente la curva del reddito sopra quella dei prezzi, sebbene l’andamento del reddito fosse sostanzialmente piatto (anzi leggermente in calo fino al ’95), ma già dal 1997 la curva immobiliare riprese a crescere: una galoppata irrefrenabile.
Il sorpasso arriva proprio nel 2005. La curva del costo del mattone, spinta da un aumento dei prezzi reali delle compravendite (+48% al 2007, da ’96) e delle locazioni (+39% al 2005) supera quella dei redditi (+12%) che peraltro devono fare i conti con un forte arresto (-7,6%) nei cinque anni successivi. Nelle grandi città il sorpasso arriva prima: nel 2002: l’età dell’euro. La curva dei prezzi supera quota 350 nel 2008 (ora siamo poco sotto 300).
Tale circostanza viene aggravata dal fatto che la crescita dei consumi delle famiglie non si arresta. Una crescita che “già alla fine degli anni ’90 – scrive il Cresme – sta salendo oltre la capacità della crescita reddituale”.
Il combinato disposto fra aumento consumi, aumento dei prezzi immobiliari e calo del reddito provoca che per una parte rilevante della popolazione, quel 30% che a fine 2011 non aveva case di proprietà, sia molto difficile comprare casa. Non avendo capacità di risparmio è praticamente impossibile mettere da parte quella provvista minima da affiancare a un mutuo (sempre che le banche lo concedano).
Dal 2009 i prezzi hanno iniziato una fase di calo e solo a fine 2011 la curva del reddito è risalita appena sopra quella del corso del mattone, ma rimane ancora abbondantemente al di sotto del livello necessario a coprire i consumi. Ai livelli attuali di reddito l’unico mercato accessibile è quello delle locazioni, la cui curva, infatti, negli ultimi anni segue un andamento pressoché parallelo a quello dei redditi.
Alcune altre notazioni servono a illustrare che siamo davvero a un tornante della storia. La percentuale del reddito destinato all’investimento, a fine 2011, era arriva sotto quota 150 (indice base 100, 1958), al livello dei primi anni ’70. In quegli anni il 51% delle famiglie aveva casa di proprietà, mentre il 43% viveva in affitto. Ma si veniva da un decennio di grande crescita dei redditi (+51% fra 1958 e il 1969).
La distribuzione proprietari/locatari cresce negli anni successivi sempre a favore dei proprietari. Alla fine del periodo 1969-78 le famiglie proprietarie sono il 53%, quelle in affitto il 41. Nel periodo successivo, 1978-1986, si arriva a oltre il 60% di proprietari e al 31% di locatari. Fra il 1986 e il 1996 si arriva al 65% di proprietari e al 24% dei locatari, mentre nel periodo finale (1996-2011) si arriva al 70% di proprietari e al 20% di locatari.
Ci sono voluti 50 anni per portare i proprietari dal 50 al 70% delle famiglie, e per far scendere i locatari dal 43% al 20. Ma adesso, col crollo delle compravendite e dei prezzi, tuttora in corso, e a fronte dell’impossibilità di disporre di risparmi da investimento, la cosa più logica, a meno che i prezzi del mattone non cadano drammaticamente o (improbabile) che aumentino i redditi, è che diminuiscano i proprietari e aumentino i locatari. Che si inverta il ciclo.
Per la prima volta, dopo più di 50 anni.
AfFondo immobiliare
Perché in un momento in cui il mercato ristagna, i prezzi si prevedono in calo e gli investitori esteri fuggono, i fondi italiani hanno aumentato del 50% gli investimenti?
E’ accaduto fra il 2009 e il 2012, secondo un rapporto preparato da Bnp Paribas real estate, quando gli investimenti dei fondi italiani immobiliari nel settore passano dal 26 al 39%. Questo mentre il mercato si contrae e i prezzi si congelano.
Per rispondere alla domanda, serve innanzitutto spiegare cosa siano e cosa facciano i fondi immobiliari. Si tratta di organismi di rispamio collettivo (Oicr) amministrati da società di gestione di risparmio che in pratica rilevano beni immobiliari allo scopo di amministrarli (con l’affitto o la vendita). Per raccogliere le risorse necessarie al loro funzionamento, e quindi anche “ripagare” i beni immobiliari che finiscono nel loro portafoglio, i fondi emettono quote a investitori che lucrano sulle remunerazioni di tali quote e sulla loro liquidazione una volta che il fondo cessa la sua attività.
Il funzionamento è molto semplice. Mettiamo che io sia un’istituzione che disponga di un patrimonio immobiliare e non sappia o non voglia gestirlo direttamente. Posso conferire tale patrimonio a un fondo che, emettendo quote, mi fa avere una contropartita liquida immediata, di solito a sconto rispetto al prezzo di conferimento. Il fondo poi si incaricherà di gestire questo patrimonio rimborsando le quote ai sottoscrittori una volta venduti tutti i beni.
I fondi nascono in Italia nel ’94 ma hanno iniziato a farsi vedere solo alla fine degli anni ’90, quando venne la fregola di privatizzare il patrimonio immobiliare degli enti previdenziali e, più tardi, dello Stato. Pompati dal credito bancario di quegli anni, i primi fondi immobiliari italiani misero radici nei primi anni del 2000 e da lì in poi si sono sviluppati con costante gradualità. Un rapporto della Banca d’Italia del 2009 nota curiosamente che “nonostante la crisi finanziaria, nel 2008 sono divenuti operativi 56 nuovi fondi immobiliari, arrivando a 228 a fine anno”.
Per sapere cosa è successo dopo fine 2009, leggiamo un altro studio, stavolta di Scenari immobiliari, che fotografa lo stato dell’industria dei fondi a maggio 2012. “L’industria dei fondi italiani ha continuato la propria crescita anche nel corso del 2011”, scrive Scenari Immobiliari. A fine 2011 i fondi operativi erano 312 e il patrimonio immobiliare detenuto direttamente era passato dai 40,6 miliardi del 2009 (a fronte dei 34,7 mld del 2008) a 46,4 mld a fine 2011, con una prospettiva di arrivare a 47,8 nel corso del 2012.
Quindi la crisi immobiliare, contro ogni logica apparente, fa da propellente all’industria dei fondi.
Ma in realtà una logica c’è. Per trovarla basta scrutare la composizione azionaria di gran parte di questi fondi. Grandi sponsor, diretti o indiretti, di questi strumenti sono come si può immaginare le banche e alcune assicurazioni che fanno accordi con soggetti specializzati nel settore delreal estate. Le stesse banche e assicurazioni che hanno grandi patrimoni immobiliari e la necessità di metterli a reddito, se non di liquidarli.
Le banche e le assicurazioni sono grandi sottoscrittori di quote di fondi immobiliari, delle società di gestione, se non direttamente loro promotori. Quindi, in un momento in cui i prezzi calano e c’è una crisi del credito aumentare gli investimenti sui fondi può essere un metodo efficace per le banche e le assicurazioni per gestire lo “sgonfiamento” ordinato della bolla che si è venuta a creare negli ultimi dieci anni sui corsi immobiliari. Oltre che un espediente per trarre valore immediato dal proprio patrimonio rimasto incagliato nella crisi sperando che nel tempo di gestione del fondo (di solito almeno dieci anni) il mercato si riprenda.
Insomma, dovendo raschiare il barile del mattone, le banche trovano il Fondo (vedi post omonimo).
Mi sono convinto che tale scenario abbia un senso leggendo un trafiletto pubblicato sul Sole 24 Ore il 25 gennaio. Si raccontava di un imprenditore bisognoso di credito, a cui una banca aveva proposto la concessione di un fido per alcune centinaia di migliaia di euro in cambio della sottoscrizione di quote a un fondo immobiliare della banca stessa. Lo sport preferito delle banche, ossia prestare soldi a se stesse per il tramite di questo o quel soggetto, sia esso una persona fisica o giuridica, non è passato di moda. Anzi.
Siamo in pieno afFondo immobiliare.
Le banche vendono casa, ma chi compra?
Ho vissuto una piacevole sensazione di déjà vu mentre scorrevo un articolo pubblicato sull’inserto Casa del Sole 24 ore intitolato “Le banche fanno cassa vendendo il mattone”, dove si racconta del tentativo degli istituti italiani di liberarsi di grosse quantità di beni immobiliari rimasti incagliati.
Infatti mi è tornato in mente un altro articolo, pubblicato sempre sul Sole 24 ore nel lontano 10 agosto 2002, titolato stavolta “Le banche rilanciano il ballo del mattone”. Al di là dei toni, frizzante e ottimista quello del 2002, dimesso e preoccupato quello del 2013, il succo è lo stesso: le banche italiane stanno cercando di liberarsi di quote cospicue di beni immobiliari, come se negli ultimi 11 anni non fosse cambiato nulla. Salvo la domanda: chi compra?
Nel 2002 la risposta era facile. Il mondo bancario aveva di che sorridere: tassi bassi e fiducia alle stelle favorirono una notevole quantità di spin off dei loro patrimoni immobiliari che generarono per gli istituti enormi plusvalenze e fecero schizzare alle stelle l’ottimismo (e i valori). L’euforia generò, letteralmente, una miriade di operatori sponsorizzati dalle stesse banche che si buttarono con voracità sul mercato lucrando riccamente altre grosse plusvalenze grazie a compravendite istantanee, mentre il carico debitorio sulle famiglie, sempre grazie al credito “gratis”, aumentava a due cifre.
Sappiamo com’è finita: nel 2008 la crisi americana si è abbattuta come uno tsunami su mattone italiano. Le banche hanno chiuso i rubinetti, i prezzi si sono congelati, la domanda è crollata, l’offerta è rimasta appesa. Molti istituti di credito si sono viste restituire le case che tanto allegramente avevano venduto a debito, perché i debitori non erano più in grado di pagare il mutuo (o il fido) e adesso il loro portafoglio immobiliare si è di nuovo gonfiato. Chiaro che vogliano liberarsene.
Ma siccome l’aria è cambiata, la buona volontà non basta più. Anche perché sul tappeto c’è un altro grande proprietario – lo Stato – che da anni promette di vendere il suo, di patrimonio immobiliare, malgrado il pregresso (ne parleremo un’altra volta) abbia mostrato che lo Stato, già pessimo proprietario, si è rivelato un venditore ancora peggiore.
Per di più i prezzi sono previsti in calo, il credito è stitico e la fiducia ancora al lumicino. Se lo Stato e le banche (per non parlare delle assicurazioni) mettessero davvero sul tappeto i loro patrimoni immobiliari rischierebbero di far crollare i prezzi, con relativo nocumento per i loro attivi patrimoniali.
Chiaro che per il momento le banche si accontentino di mettere on line le proprie offerte (lo fa anche il Demanio, peraltro) come un qualunque agente immobiliare. Si mira al privato italiano, anche piccolo, almeno per il residenziale, sognando il grande investitore istituzionale, magari estero.
Ma è proprio quest’ultimo che latita. Sempre sul Sole 24 leggiamo di uno studio di Bnp Paribas secondo il quale la quota di investimenti esteri sul mattone italiano è ai minimi storici. Nel 2012 le transazioni si sono bloccate a quota 1,7 miliardi di euro, il 60% in meno dei 4,3 miliardi del 2011, quando erano già in crisi profonda. Pensate che nel 2007, prima dello sboom, si era raggiunto il picco di 7,552 miliardi di euro di acquisti dall’estero.
Un’altro dato citato nell’articolo fa riflettere. Nel triennio 2009-2012 sono cresciuti gli investimenti dei fondi immobiliari italiani, dal 26 al 39%, mentre i fondi esteri, quelli tedeschi in testa, sono fuggiti via (dal 17 al 4%). Il mattone raschia il barile e trova il Fondo, abbiamo scritto qualche giorno fa (vedi post).
Quello che non sapevamo, perché non disponevamo dello studio Bnp Paribas, era che fossero fondi italiani. E solo loro. Persino le società immobiliari, le assicurazioni e i fondi pensione italiani hanno ridotto la loro esposizione, dal 9% del totale degli investimenti ad appena l’1%. Gli unici che ancora investono sul mattone italiano sono i privati e le società corporate. Da qui gli annunci immobiliari delle banche.
Quello che invece sapevamo, anche senza aver letto lo studi di Bnp Paribas (vedi post Un mattone s’aggira per l’Europa), era che il mercato tedesco è quello più attrattivo per chi vuole investire sul mattone. Lo conferma la fuga dei fondi tedeschi dall’Italia, che di sicuro trovano più conveniente investire a casa loro, visti i prezzi, e la crescita degli investiment in questo paese, arrivata nel 2012 a quota 44,7 miliardi, il 9% in più rispetto all’anno precedente. A Berlino la crescita annua è stata addirittura del 65%.
Insomma, la Germania non solo rastrella denaro per i suoi titoli a costo zero (per non dire negativo) ma si rivela anche il mercato più attrattivo per gli investimenti immobiliari, visto che i prezzi reali non crescono da dieci anni. Peggio di noi va solo Madrid.
Ma anche questo lo sapevamo: se si osserva la crescita dei prezzi immobiliari dal 1975 al 2012 si vede che la bolla italiana (indice 100 nel 1975, 1.750 nel 2008) è seconda solo a quella spagnola (indice 100 nel 1975, 4.000 nel 2008).
Quindi le banche italiane vendono casa, ma non sanno come fare. Il timore è che sperino in un miracolo.
La condizione ideale per combinare guai.
Il mattone raschia il barile e trova il Fondo
La settimana scorsa L’Economist ha pubblicato un articolo sulla situazione globale del mercato immobiliare che ci dice alcune cose rilevanti. Per quel che ci riguarda, il settimanale inglese ha calcolato che il “price to income”, ossia lo squilibrio fra il livello generali dei prezzi immobiliari nel nostro paese e quello del reddito quota 12. Vuol dire che c’è un disequilibrio del 12%, quindi i prezzi dovrebbero in media scendere altrettanto per allinearsi al potere d’acquisto degli italiani.
L’indicatore evidenza un dato che si può leggere da due diversi punti di vista: da un lato misura la crescita eccessiva del livello dei corsi immobiliari, dall’altro il decremento reale del reddito, calato costantemente negli ultimi anni per arrivare, secondo le stime più recenti, al livello del 1986. Il combinato disposto porta a una considerazione inquietante: i prezzi in Italia caleranno ancora, complice una situazione creditizia ancora tesa.
Per capire quali siano le cifre in gioco, basta ricordare che secondo l’ultimo rapporto sulla ricchezza delle famiglie italiane, le attività reali nel nostro paese pesano 5.978 miliardi, di cui circa l’84% (5.021 miliardi) sono rappresentati dalle abitazioni. Se davvero i prezzi si allineassero ai redditi reali disponibili, si brucerebbe una ricchezza pari a 602 miliardi. Questo solo per le famiglie. Pensate a cosa accadrebbe ai patrimoni delle istituzioni finanziarie (banche, assicurazione, fondi pensione).
Quanto è probabile questo scenario? Prima di rispondere a questa domanda, dovremmo chiederci come siamo arrivati fino a questo punto.
Una prima risposta la troviamo sulla relazione annuale della Banca d’Italia del 2007, dove viene illustrata la crescita reale dei prezzi delle abitazioni dal 1996 al 2007. Fatto 100 l’indice base (1996) si vede con chiarezza che in Italia i prezzi sono schizzati alle stelle a partire dal 2002 (prima l’indice era fermo su base 100) , quando c’è stato il passaggio lira/euro. Da quel momento in poi l’indice è cresciuto a un ritmo di 10 punti l’anno fino ad arrivare a 150 nel 2007, lo stesso livello degli Stati Uniti. Nello stesso arco di tempo l’indice è arrivato a 260 nel Regno Unito, a 220 in Spagna, poco sotto in Francia. Segno inverso in Giappone e in Germania, dove indice è sceso costantemente fino a quota 70. Quindi qui l’indice dei prezzi è calato in termini reali di circa il 30% in dieci anni.
Se si allunga l’arco di tempo (periodo 1997-2012) e si usa l’indice dei prezzi calcolato dall’Economist, si vede che a fine 2008 l’indice italiano quotava 200 a fronte dei 100 del 1997, sempre sotto Francia (250), Spagna (280) e Gb (310), ma bel al di sopra di Germania (indice fermo a 100) e Giappone (80). Dal 2008 al 2012 i prezzi sono calati dovunque, tranne un leggero apprezzamento in Germania, mentre in Giappone si arriva quasi a 50.
Ancora più illuminante, il confronto, se si fa partire il periodo dal 1975. Fatta 100 la base, l’Italia è seconda solo alla Spagna per incremento dei valori immobiliari. L’indice arriva a quotare 1.750 nel 2008, più o meno al livello della Gran Bretagna (ora siamo intorno a 1.500). La Spagna quell’anno aveva raggiunto quota 4.000 (3000 nel 2012).
Nel lungo periodo, quindi, i prezzi delle abitazioni italiane hanno avuto la crescita più elevata, dopo la Spagna. La bolla italiana, perciò, è di vecchia data. Basti considerare che dal 1975 l’indice americano è passato da 100 ad appena 500, quello francese da 100 a 1.000, quello tedesco da 100 a 250, quello Giappone poco sotto.
Stando così le cose, e stante l’attuale insoddisfacente livello dei redditi, lo sgonfiamento della bolla storica italiana sembra nelle cose.
Senonché abbiamo già visto cosa significherebbe per le famiglie italiane. In pratica un impoverimento generazionale.
Sarà per questo che da qualche tempo i policy maker italiani declinano costantemente la parolina magica “fondo immobiliare” ogni volta che ragionano sulla destinazione dell’enorme patrimonio immobiliare pubblico. Senonché diversi studi mostrano con chiarezza (ne parleremo in un prossimo post) una cosa evidente: l’andamento dei fondi immobiliari, nelle varie forme consentite dalla normativa, è strettamente correlata all’andamento del mercato. I fondi hanno l’unico vantaggio di rendere momentaneamente liquida (o quasi) pezzi di ricchezza letteralmente immobilizzata. E basta. Quindi possono aiutare nel breve, ma non nel medio-lungo, a meno che non cambino le condizioni monetarie e creditizie del Paese e non riparta il mercato.
Insomma, a voler raschiare il barile del mattone si arriva al Fondo. Ma non è detto che basterà.
Un Mattone s’aggira per l’Europa
Da dove ripartirà la crescita? Gli Stati uniti hanno puntato decisamente verso politiche espansionistiche, sostenuti dalla Banca centrale (con primi timidi segnali di successo), e il Giappone farà lo stesso. L’Europa invece, almeno finora, sembra puntare sul consolidamento del sistema produttivo e sull’aggiustamento fiscale, con tutta la necessaria austerità che da ciò consegue, lasciando intendere di voler puntare sull’export assai più che sui consumi interni.
Ma non è detto che vada a finire così. I principali paesi europei dispongono ancora di notevoli riserve di valore che attendono di essere impiegate in maniera profittevole. Quello che manca, forse, è solo una buona occasione.
Alcuni dati, tratti dall’esame della ricchezza delle famiglie di Francia, Germania Regno Unito e Italia nel periodo 1999-2010, suggeriscono questa osservazione.
Cominciamo dalla ricchezza netta. Nel 1999 la ricchezza netta delle famiglie italiane era pari a 5,95 volte il reddito disponibile. Quindi a un reddito mettiamo di 100 euro l’anno, corripondeva una ricchezza netta (somma di attività reale e finanziarie meno i debiti) di 595 euro. Meglio di noi stavano solo gli inglesi, dove tale indice era a quota 7,69. Dopo di noi si collocavano la Francia e la Germania. Nel 2010 la riccehzza netta italiana quotava 7,95 volte il reddito, la GB 8,23, la Francia 8,12 mentre non si dispone al momento di un dato per la Germania. Di sicuro l’Italia ha perso posizioni.
Il dato si fa più interessante se si scompone la ricchezza netta nelle sue componenti reali e finanziarie e si considerano i debiti. Nel 1999 il mattone italiano quotava 3,8 volte il reddito disponibile, il portafoglio finanziario 2,51. I debiti erano il 36% del reddito. Il mattone inglese quotava 3,59 volte il reddito, il portafoglio 5,24, i debiti erano il 114% del reddito. Il mattone francese quotava 3,32 volte il reddito, il portafoglio 2,94, i debiti erano il 72% del reddito. Il mattone tedesco quotava 3,87 volte il reddito, il portafoglio 2,69, i debiti il 115% del reddito.
Nel 2010 il mattone italiano valeva 4,99 il reddito, quello britannico 5,23 e quello francese 5,95. L’ultimo dato disponibile sul mattone tedesco risale al 2008, quando veniva quotato 4,37 volte il reddito, molto al di sotto dei valori degli altri tre stati nello stesso anno. Quindi si può ragiovenolmente presumere che tale tendenza sia stata ribadita anche nel 2010.
A confermare questa stima, in assenza di dati precisi, l’incidenza degli investimenti in costruzioni sul Pil dei singoli stati. In Germania tale dato è in calo costante dal ’94 (circa il 15%) con un picco di calo nel 2005 (l’anno in cui tutti gli altri mercati tiravano) quando arriva sotto il 10%. Per fare un paragone con la Francia, nel 2005 tale quota del Pil era circa il 13% e l’Italia era intorno all’11%. Quindi la Germania ha deflazionato il mercato immobiliare, a differenza degli altri stati europei considerati (pensate che in Spagna nel 2005 il mattone pesava oltre il 20% del Pil).
Altro dato interessante, l’indebitamento. Quello italiano è quasi raddoppiato (dal 36 al 71%) nel periodo 1999-2010, quello inglese è passato dal 114 al 165% del reddito, quello francese dal 72 al 99%, quello tedesco, caso unico in Europa, è diminuito, dal 115 al 98%.
Quindi abbiamo un mercato immobiliare “freddo” (quello tedesco), dove si è investito poco (e quindi i prezzi sono rimasti stabili nel tempo), e una riserva di potenziale di indebitamento (quello italiano, ma anche quello tedesco e francese) che potrebbe indirizzarsi verso il mattone tedesco, visto che gli altri sono ancora troppo cari. Visto che il nostro è un mercato unico, niente di più facile che questi flussi finiscano con l’incontrarsi.
Alcuni dati sembrano confermare questa tendenza. Nell’aprile scorso l’Ifo di Monaco ha rilevato che gli investimenti reali nelle costruzioni, caduti del 25% dal 1994 al 2009, nel 2010 sono cresciuti del 2.2 % e nel 2011 addirittura del 5.8 %. I permessi di costruzione per i condomini nel 2011 sono saliti del 42.4 % rispetto all’anno precedente.
Gli esperti hanno interpretato tale tendenza come la conferma che banche e assicurazioni tedesche non si fidano più a investire sull’estero (causa crisi euro) ma preferiscono indirizzare gli investimenti sul mattone di casa, il famoso porto sicuro. E lo stesso potrebbero fare i cittadini tedeschi, visto che i loro titoli pubblici rendono zero, hanno meno debiti di prima e il loro portafoglio finanziario sebbene quoti solo 2,97 volte il reddito (in Italia è 3,67, ma i redditi sono più bassi di quelli tedeschi) è di sicuro ben nutrito. Molti potrebbero valutare più conveniente comprare che vivere in affitto. Mettiamoci pure che il mattone tedesco attira anche molti investitori europei, ansiosi di mettere al sicuro i propri risparmi (nel 2012, per colmo d’ironia, c’è il boom di italiani che comprano casa in Germania).
Insomma: l’immobiliare potrebbe tornare a far sorridere l’economia europea, rilanciando investimenti e consumi. Il mattone in crisi che si aggira per l’Europa ormai dal 2007 potrebbe mettere radici a Berlino.
Tanto per cambiare.
Mattone, la bolla non c’è ma si vede
Qualche giorno fa l’Istat ha certificato l’ennesimo calo delle quotazioni del mattone italiano nel 2012. Il dato aggregato parla di un calo dei prezzi del 3,2% che si accoppia aun calo delle compravendite del 23,6% sul residenziale (25% il commerciale). Il combinato disposto ha riacceso il timore che il mattone italiano balli sull’orlo di un burrone, anche perché le aspettative del settore delle nuove costruzioni, che ha un peso specifico rilevante nell’immobiliare italiano, continuano ad essere scoraggianti.
Lo stesso giorno che l’Istat certificava la deflazione in corso nei valori immobiliari, un’associazione di consumatori affermava che i prezzi sono ancora troppo alti, visto che per una famiglia di reddito medio è del tutto proibitivo, specie nelle grandi città, riuscire a comprare una casa: prezzi ancora troppo elevati, da una parte, e ritrosia delle banche a concedere credito dall’altra. Senonché la gran parte degli osservatori dice che in Italia, a differenza di quanto è accaduto in Spagna, Irlanda o negli stessi Usa, non esiste una bolla del mercato immobiliare.
Chi ha ragione? Anche qui, bisogna intendersi su cosa si intenda per bolla. La definizione che abbiamo estratto da Wikipedia dice che “la bolla immobiliare è caratterizzata da un rapido aumento dei prezzi immobiliari che si portano a livelli insostenibili in rapporto ai redditi medi o ad altri parametri”.
Guardiamo i dati. Ci viene in aiuto uno studio di Bankitalia del 2009 intitolato “L’andamento del mercato immobiliare italiano e i riflessi sul sistema finanziario”, che per quanto datato (gli ultimi dati fanno riferimento al 2008), illustra con grande chiarezza cosa sia successo sul mercato negli ultimi anni.
Intanto l’incidenza del mattone sul Pil italiano, pari al 19,5%, più di Germania e Gran Bretagna (circa 18%), meno che in Francia e Spagna (circa 25%) e Irlanda (28%). Poi il peso degli immobili nel portafogli delle famiglie italiane. A fine 2008 il mattone in mano alle famiglie quotata 4.700 miliardi, il 61% delle attività complessive, pari a circa quattro volte il reddito disponibile, contro il 2,5 della Francia e il 3,1 della Germania.
E veniamo ai prezzi. Fatti 100 i prezzi del 2005, si vede che nel 2000 tale indice quotava 70, per arrivare a 120 nel 2008. Quindi dal 2000 l’indice è cresciuto di 50 punti, un incremento pari in media al 72%. Se si guarda agli incrementi per macroaree, si nota che i prezzi sono pressoché raddoppiati fra il 2000 e il 2008 nel centro Italia. Più o meno quanto è successo a livello nazionale in Spagna. Nel confronto internazionale si vede che la crescita dei prezzi in Italia è stata poco superiore alla media Ue, ma se si va a vedere la crescita per macroaree, viene fuori che l’impennata dei prezzi i alcune zone è assimilabile a quanto accaduto in Francia, Gran Bretagna e Danimarca. Evidentemente nel caso italiano, per calcolare la media dell’aumento dei prezzi vale la regola del pollo di Trilussa. Come dire la bolla c’è, ma distribuita qui e là. Perciò non si vede.
Un riscontro a quest’affermazione viene dall’analisi dei dati finanziari. Abbiamo detto che nel 2008 la ricchezza immobiliare delle famiglie era stimata in 4.700 miliardi. A fine 2011 (ultima relazione Bankitalia su ricchezza famiglie) le attività reali delle famiglie venivano stimate in 5.978 miliardi, l’84% delle quali (5.021 mld) sono abitazioni, circa 200 mila euro a famiglia, 65 mld in più rispetto al 2010, pari a un incremento dell1,3%, assai meno del 5,6% medio annuo registrato nel quidicennio 1995-2010. In particolare, fatta 100 la ricchezza in abitazioni delle famiglie nel 1995, l’indice è cresciuto costantemente fino a quotare oltre 220 nel 2010 per poi sostanzialmente stabilizzarsi sullo stesso livello fra 2011 e 2012.
Quindi le quotazioni (dalle quali dipendono i valori del patrimonio) sono più che raddoppiate in quindici anni.
E i redditi? Non c’è bisogno dell’Istat per sapere che di certo non sono raddoppiati, anzi hanno subito una sostanziale riduzione reale dopo l’introduzione dell’euro nel 2002. Tuttavia se ci andiamo a vedere la serie storica Istat (disponibile dal 1999 in poi) vediamo che a inizio 1999 le famiglie totali avevano redditi lordi disponibili per 195 miliardi, che sono diventati 276 a fine 2011: un incremento di circa il 43%.
Se ne deduce che il livello del reddito non ha seguito l’andamento dei corsi immobiliari. Tanto è vero che la Banca d’Italia scrive che le famiglie hanno sostenuto il proprio livello di consumi attingendo alla ricchezza immobiliare, “in un contesto di debolezza del reddito disponibile”. Ciò spiega bene perché negli ultimi due anni siano crollate le compravendite, ma i prezzi siano ancora stabili. In un contesto di “debolezza dei redditi” le famiglie ci pensano due volte prima di “svendere” la loro riserva di valore.
Un ultimo dato. Nel rapporto del 2009 Bankitalia scrive che i finanziamenti al mercato immobiliare (famiglie e imprese) del sistema creditizio pesano 550 miliardi, un terzo degli impieghi totali a fronte del 20% del 2000: il 13% in più in otto anni. Le banche italiane, perciò, sono notevolmente esposte sul mattone.
In queste condizioni le bolle, anche quando ci sono, è meglio non vederle.
